La proposta di abolizione delle tasse universitarie, formulata dal Pietro Grasso, ha diversi meriti. Soprattutto quello diaver messo in discussione l’assioma per il quale l’istruzione serve esclusivamente ad accrescere l’occupabilità dei giovani e a rendere competitive le nostre imprese
La proposta di abolizione delle tasse universitarie, formulata dal Presidente Grasso, ha tre fondamentali meriti.
Il primo è l’aver riportato, dopo anni di silenzio o di denigrazione, l’Università al centro del dibattito pubblico e l’aver messo in discussione l’assioma per il quale l’istruzione serve esclusivamente ad accrescere l’occupabilità dei giovani (secondo la discutibile teoria che fa dipendere la disoccupazione giovanile al mancato incontro fra domanda e offerta di competenze) e a rendere competitive le nostre imprese. In altri termini, la proposta rinvia alla desiderabilità di avere una popolazione con elevato grado di istruzione, rispetto a una popolazione con basso livello di scolarizzazione, muovendosi in aperto contrasto con le politiche di sottofinanziamento dell’Università, che la hanno resa – proprio tramite aumenti delle tasse – sempre più Università di classe.
Il secondo merito della proposta consiste nel portare il nostro Paese in linea con le migliori prassi di altri Paesi europei, Germania in primis, a partire dal dato per il quale le tasse di iscrizione in Italia sono le più alte dell’Eurozona e la percentuale di laureati sul totale della forza-lavoro è fra le più basse.
Come chiarito da Grasso, la copertura finanziaria del provvedimento cadrebbe sulla fiscalità generale, che andrebbe radicalmente rivista rendendola sempre più progressiva. Qui l’altro merito: l’aver saldato la questione universitaria con la questione fiscale. L’economia italiana sconta, infatti, e fra gli altri, il duplice problema di avere una popolazione mediamente poco istruita e un carico fiscale che grava prevalentemente sul lavoro. Si tratta di due fattori che accentuano le diseguaglianze, riducono la mobilità sociale e frenano la crescita, per le seguenti ragioni:
- l’aumento della pressione fiscale sulle famiglie con bassi redditi riduce i consumi, anche per la loro minore propensione al risparmio rispetto alle famiglie con redditi più alti; la riduzione dei consumi, a sua volta, in costanza di investimenti, comprime la domanda e il tasso di crescita;
- elevate tasse universitarie disincentivano le immatricolazioni, riducono conseguentemente le entrate degli atenei (soprattutto quelli periferici), riducono, per conseguenza, i fondi disponibili per la ricerca e, poiché la ricerca scientifica è uno dei principali motori della crescita, incidono negativamente su quest’ultima, riducendo le innovazioni e generando una spirale perversa per la quale l’assenza di innovazioni riduce la domanda di lavoro qualificato, genera disoccupazione intellettuale (o migrazioni) e, per effetti di apprendimento, riduce ulteriormente le immatricolazioni.
La proposta del Presidente Grasso è stata oggetto di numerose critiche. Innanzitutto è stato osservato che la gratuità dell’istruzione accentuerebbe le diseguaglianze, dal momento che esonererebbe i ricchi dal pagamento di una tassa nella stessa misura dell’esenzione per i più poveri. L’obiezione è falsa se si considera che la misura verrebbe finanziata proprio attraverso l’aumento della progressività delle imposte, peraltro dopo decenni nei quali il sistema tributario è diventato, per decisioni politiche, sempre più regressivo. In secondo luogo, è stato rilevato che il potenziale aumento del numero di iscritti accrescerebbe le migrazioni intellettuali, dal momento che, già nelle condizioni date, il nostro sistema produttivo non è in grado di assorbire tutti i laureati. L’obiezione è seria e merita di essere presa in considerazione. Essa ha una sua ragion d’essere solo a condizione di calibrare le politiche formative sulla base delle esigenze delle imprese – cosa che fin qui è stata fatta e che si intende continuare a fare. Si tratta, tuttavia, di una strategia miope e perdente.
Per chiarirlo, può essere opportuno partire da una recente dichiarazione del ministro Fedeli:
«Le scelte di questo Governo e di quello precedente dicono che si vuole tornare a investire e a puntare su università dopo un triennio dedicato alla scuola. Basta parlare di spese, queste non sono spese, sono investimenti sull’economia della conoscenza che vanno fatti, senno’ non si sta fermi ma si regredisce come società. Il messaggio che questa legislatura sta offrendo è un messaggio di speranza e fiducia nel futuro dell’Italia, che si alimenta non con le parole ma con i fatti, senza ricerca non possiamo davvero competere con successo sullo scenario internazionale».
Dove il passaggio cruciale attiene al nesso fra investimento in istruzione e competitività internazionale. La ratio che è alla base di questa dichiarazione sta nella convinzione che l’aumento della dotazione di competenze accresca la produttività del lavoro, che l’aumento della produttività del lavoro riduca i costi di produzione, che la riduzione dei costi di produzione, consentendo alle imprese di ridurre i prezzi, aumenti le esportazioni e il tasso di crescita.
Questi nessi rilevano non poche criticità:
- dal punto di vista di un ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, ci si attenderebbe innanzitutto che le spese per scuola e università non siano e non debbano essere giustificate con l’obiettivo dell’aumento della competitività delle imprese italiane; l’istruzione ha innanzitutto un valore in quanto tale, se non altro perché accresce il grado di civiltà di un Paese (ed eventualmente, in seconda battuta, il suo Pil);
- il nesso implicitamente postulato dal ministro fa riferimento alla crescita delle competenze (il saper fare) non a quella delle conoscenze e si tratta di una differenza importante; la linea governativa – di questo Governo, come dei governi che lo hanno preceduto – è basata su una visione di breve periodo del ruolo che un’istruzione diffusa può svolgere ai fini della crescita economica, che trascura il fatto che in un’economia con rapido avanzamento tecnico le competenze acquisite oggi tendono a diventare rapidamente obsolete e che, per conseguenza, ciò che bisognerebbe fare è potenziare le capacità critiche di apprendimento (il saper imparare).
In termini più generali, le politiche formative in Italia nel corso dell’ultimo decennio sono state declinate esclusivamente per la possibile soluzione di problemi economici: dai tagli del ministro Tremonti, finalizzati alla riduzione della spesa pubblica e all’obiettivo di generare avanzi primari, alle proposte (tutte da verificare) per una ripresa della spesa per il settore della formazione questa volta finalizzati all’aumento delle esportazioni. Il primo tentativo è almeno parzialmente fallito. Le misure di austerità adottate a partire soprattutto dallo scoppio della prima crisi greca del 2010 hanno sì generato risparmi del settore pubblico ma anche crescita del debito pubblico in rapporto al Pil, per effetto della contrazione di quest’ultimo.
Il richiamo (ossessivo) alla competitività è poi del tutto fuorviante. Innanzitutto la ricerca scientifica produce risultati di lungo periodo e, come è ben noto, assolutamente non certi. Non a caso, le principali innovazioni nella storia del capitalismo del ‘900 sono state rese possibili attraverso un preventivo investimento pubblico in ricerca e sviluppo, a ragione del fatto che le invenzioni possono solo in alcune condizioni (dunque, non sempre) tradursi in innovazioni utilizzabili da imprese private (il c.d. capitale paziente). Cosa che spiega perché le imprese private trovano al più conveniente utilizzare invenzioni già realizzate tramite finanziamenti pubblici, laddove sussistano le condizioni per renderle innovazioni tali da generare profitti. Ciò vale a maggior ragione per la ricerca c.d. di base (p.e. la ricerca in ambito matematico o in area umanistica) dove, ancor più della ricerca applicata (tipicamente quella ingegneristica) i risultati sono incerti e di lungo periodo.
L’obiettivo di accrescere la competitività, per contro, in un contesto di globalizzazione – ovvero di crescente mobilità internazionale dei capitali e di orientamento al profitto di breve periodo – è da perseguire mediante appunto misure che agiscono nel breve periodo. Ciò non significa che la formazione non possa servire per rendere più competitive le nostre esportazioni ed eventualmente per attrarre capitali dall’estero, ma ciò può avvenire per canali indiretti: p.e. perché una diffusa scolarizzazione è associata a bassa propensione al crimine, che, di per sé, a parità di altre condizioni, è un fattore di incentivo agli investimenti.
Infine, contro la proposta Grasso è stato fatto osservare che gli studenti hanno soprattutto bisogno di maggiori servizi. Questa obiezione è rilevante solo se si ritiene che i fondi per l’istruzione e la ricerca siano così scarsi (o lo debbano essere) da porre in alternativa l’azzeramento delle tasse di iscrizione e la fornitura di maggiori servizi. Non è ovviamente necessariamente così. Un aumento consistente del finanziamento pubblico alle Università potrebbe consentire loro di erogare servizi agli studenti anche senza le loro contribuzioni. Si tratterebbe di potenziare l’FFO, di tornare allo schema del finanziamento sulla base del costo del personale e di eliminare ogni elemento di premialità (distorsivo per definizione e penalizzante per le sedi periferiche e di norma meridionali).
L’autore è docente di Economia politica presso l’Università del Salento