Buon lavoro/Dall’occupazione per tutti al reddito minimo. Come fare ripartire il paese in poche mosse e rimettere in moto l’economia. Attraverso lo Stato
250 mila nuovi posti di lavoro pubblici
È necessario un intervento pubblico sul terreno della creazione di occupazione che affronti la contraddizione tra disoccupazione record e bisogni insoddisfatti. Il governo può lanciare un Piano per il lavoro con nuove assunzioni nel settore pubblico in alcuni settori chiave: istruzione e salute pubbliche di qualità, servizi per le persone, mobilità pubblica sostenibile, interventi contro il dissesto idro-geologico, manutenzione del patrimonio artistico e culturale, sviluppo delle infrastrutture culturali e sostegno alla ricerca pubblica. Con un investimento annuo di 5 miliardi, si potrebbero creare circa 250mila posti lavoro aggiuntivi l’anno.
Una politica per nuove attività economiche e lavori di qualità
Un piano d’investimenti pubblici e privati per uno sviluppo di qualità potrebbe essere avviato utilizzando fondi europei, la liquidità creata dalla BCE con il Quantitative Easing, il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti, fondi pensione e d’investimento, con incentivi pubblici e sgravi fiscali per le imprese. Gli interventi dovrebbero delineare una nuova politica industriale del paese, con lo sviluppo di attività economiche in tre ambiti prioritari: a) la sostenibilità ambientale, le energie rinnovabili, il risparmio energetico, la bio-edilizia; b) la diffusione di applicazioni delle tecnologie dell’informazione e comunicazione; c) il settore della salute, del welfare e delle attività di cura, in cui va rilanciato il ruolo dei servizi pubblici. Investimenti, infrastrutture e percorsi di formazione e professionalizzazione potrebbero inoltre sostenere utilmente le molteplici forme di altraeconomia – dal commercio equo alla finanza etica, all’agricoltura biologica, alle produzioni culturali indipendenti – che in questi anni hanno mostrato grandi potenzialità di sviluppo.
Ridurre gli orari, redistribuire il lavoro
Anche se le misure sopra indicate venissero adottate, non sarebbero sufficienti ad annullare l’eccesso strutturale della domanda di lavoro rispetto all’offerta. È dunque ragionevole avviare una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, ma come si possono affrontare le conseguenze sui salari e sui costi delle imprese? Si potrebbe calibrare il carico fiscale e contributivo sul salario a seconda della durata dell’orario, alleggerendolo per gli orari ridotti e aggravandolo per quelli di più lunga durata. Si potrebbe prevedere una prima fascia oraria (e il reddito monetario corrispondente) esente da ogni onere fiscale e contributivo tanto per il lavoratore che per l’impresa; per gli orari di lavoro più lunghi, l’incidenza fiscale e contributiva aumenterebbe fino a corrispondere, per orari normali di 40 ore settimanali, all’ammontare attualmente vigente.
Stabilizzare i lavoratori precari nelle pubbliche amministrazioni.
Con i blocchi delle assunzioni generalizzati, le amministrazioni pubbliche per assolvere le funzioni previste dalla legge devono ricorrere sempre più spesso al lavoro precario. Un piano di stabilizzazione dei lavoratori precari presenti nella pubblica amministrazione nell’arco di tre anni, accompagnato da una programmazione delle assunzioni in linea con gli obblighi di funzionamento previsti per legge, migliorerebbe la quantità e la qualità del lavoro, l’efficienza della pubblica amministrazione darebbe uno stimolo per i consumi.
150mila ragazzi e ragazze nel Servizio Civile Nazionale
Il Servizio Civile Nazionale, su base volontaria per cittadini italiani di entrambi i sessi fra i 18 e i 28 anni, nato come sviluppo di quello degli obiettori di coscienza al servizio militare, è la principale azione pubblica rivolta ai giovani. Favorisce l’inserimento nel mercato del lavoro in particolare nei lavori di cura, negli interventi di inclusione sociale, di valorizzazione del patrimonio ambientale, artistico e culturale. La bozza di disegno di legge delega di riforma del Terzo settore, attualmente in discussione in Parlamento, prevede la trasformazione del Servizio Civile Nazionale in Servizio Civile Universale. Il governo intende partire dal 2017 con 100.000 giovani coinvolti. Nel periodo 2007-2011 i posti messi a bando sono stati quasi 156.000, ma le domande presentate sono state 432.000. Al momento la dotazione prevista è di 113 milioni per il 2016 e per il 2017, ma per garantire anche solo 50mila posti nel 2016 servirebbero almeno 300 milioni di euro. Sbilanciamoci! propone che un finanziamento annuale di 840 milioni di euro sia destinato ad attivare circa 150mila giovani l’anno in attività utili alla collettività.
No alla possibilità di licenziare
Il diritto di lavorare in condizioni eque, umane e dignitose non può essere sacrificato al diritto arbitrario di licenziare. È quest’ultimo che il Jobs Act ha sancito consegnando il contratto di lavoro nelle mani del datore di lavoro. Le modifiche all’art.18 dovrebbero essere cancellate ripristinando la tutela piena del lavoratore e il suo reintegro sul posto di lavoro nei casi di licenziamento illegittimo.
Tuteliamo il contratto nazionale
Occorre rafforzare la contrattazione nazionale abolendo la norma del D.L.138/2011 che ha introdotto la possibilità di introdurre contratti aziendali o territoriali di prossimità, con condizioni peggiori rispetto al Contratto nazionale di lavoro e alla legislazione sul lavoro, concepiti come un grimaldello con cui demolire l’ordinamento del lavoro.
La riduzione delle tipologie contrattuali
Una riforma del sistema delle tipologie contrattuali dovrebbe prevedere la drastica riduzione delle forme contrattuali. Il Jobs Act si limita ad eliminare il job sharing, l’alternanza di due lavoratori su una stessa postazione lavorativa, e l’associato in partecipazione. Andrebbero invece cancellati anche il job on call, che porta alle estreme conseguenze la mercificazione del lavoro, e lo staff leasing, la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, che secondo quanto prevede il Jobs Act in futuro sarà utilizzabile per qualsiasi attività e in tutti i settori produttivi.
I contratti di lavoro dovrebbero essere ridotti ai seguenti:
a) Il contratto a tempo indeterminato, con il ripristino dell’articolo 18 e la sua estensione alle imprese sotto i 15 dipendenti;
b) il contratto a termine, suscettibile di un solo rinnovo, con la reintroduzione della giustificazione causale;
c) il contratto di apprendistato, condizionato all’assunzione di almeno il 50% degli apprendisti già impiegati;
d) il contratto part-time, ampiamente riformato in modo tale da impedirne l’utilizzo discrezionale da parte del datore di lavoro e facilitare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori;
e) una gamma ridotta di tipologie di lavoro di autonomo cui dovrebbero essere estese alcune tutele di base (gravidanza, malattia, infortunio);
f) il ricorso al lavoro accessorio retribuito con i voucher andrebbe ricondotto all’originaria funzione, consistente nel fornire ai datori di lavoro non imprenditori, in particolare alle persone fisiche, uno strumento per retribuire in modo regolare le attività di piccola manutenzione domestica, il giardinaggio, le lezioni private sporadiche, o i servizi alla persona occasionali.
Lavoro autonomo e partite Iva
Nell’ambito del lavoro autonomo “puro” andrebbero introdotte due tipi di tutele: una che sottragga il lavoro autonomo a partita Iva al ricatto della committenza, l’altra per assicurare un insieme di protezioni di base per freelance e professionisti. La prima dovrebbe tutelare i lavoratori da committenti che abusino della propria posizione dominante, imponendo clausole vessatorie e ritardando i dovuti pagamenti. La seconda dovrebbe assicurare ai lavoratori autonomi le protezioni sociali previste per i lavoratori dipendenti in caso di gravidanza, malattia, infortunio, disoccupazione, ma anche per il bisogno di formazione e di aggiornamento professionale. Sarebbe inoltre auspicabile una riforma del trattamento fiscale riservato ai lavoratori a partita Iva che preveda l’esonero dal pagamento dell’Irap, l’applicazione degli stessi parametri utilizzati per i dipendenti in materia di detrazioni sui redditi più bassi, l’eliminazione della maggiorazione Iva dell’1% sui versamenti trimestrali.
La pensione per tutti
Le riforme pensionistiche varate negli ultimi anni, con il passaggio al sistema contributivo, riescono a garantire una pensione dignitosa solo ai lavoratori titolari di aliquote contributive elevate e di un rapporto di lavoro stabile e continuativo. Le spinte ad abbassare il costo del lavoro e l’intermittenza dei periodi di occupazione condannano gran parte delle generazioni presenti e future a prestazioni pensionistiche molto basse.
Un modello pensionistico meno ingiusto dovrebbe muoversi in due direzioni. La prima è adeguare il sistema di ammortizzatori sociali, istituendo un reddito minimo che offra idonea copertura a tutti coloro che, temporaneamente o per lunghi periodi, non trovano un lavoro; offrendo adeguati servizi per l’impiego e per la formazione; garantendo contributi pensionistici figurativi, per compensare tutti i periodi di non lavoro e garantire la continuità nel tempo della contribuzione. La seconda è l’introduzione di una pensione universalistica, non sottoposta alla prova dei mezzi, sostanzialmente un assegno sociale (attualmente fra 460 e 640 euro mensili) pagato a tutti gli anziani, a prescindere dall’aver o meno contribuito al sistema pensionistico. Su questa pensione si innesterebbe poi la pensione contributiva, il che permetterebbe anche di abbassare, a parità di prestazione erogata, le aliquote pensionistiche, perché la pensione di base verrebbe finanziata attraverso la fiscalità generale.
Un reddito minimo per tutti
Le trasformazioni che hanno interessato il mercato del lavoro rendono necessario assicurare un reddito minimo universale e incondizionato a tutti. L’introduzione di tale misura deve tener conto, con modalità sperimentali e risorse crescenti nel tempo, di una realtà in cui una larga parte dei lavoratori sono costretti nell’arco della loro vita a passare da un posto di lavoro all’altro; deve quindi strutturarsi in maniera tale da rendere economicamente sostenibili anche modalità di lavoro intermittenti. Il sussidio deve essere tendenzialmente universale – rivolto all’ampia platea degli “occupabili” (lavoratori sia effettivi che potenziali, sia dipendenti che indipendenti – ma deve essere anche incondizionato, in quanto giustificato dalla condizione del lavoratore. Il “reddito minimo” così inteso diventerebbe un elemento unificante del sistema di protezione sociale, offrirebbe il riconoscimento di un diritto di cittadinanza e avrebbe l’effetto di ridurre le disuguaglianze. Diverse proposte di legge sono state avanzate e rappresentano una base di partenza per la discussione su come realizzarlo. Sarebbe richiesto un impegno redistributivo particolarmente ampio e quindi un sistema fiscale più progressivo e più efficiente.
Tempi di vita e di lavoro
Il Jobs Act rinvia l’estensione del congedo di maternità alle donne lavoratrici non dipendenti successivamente alla realizzazione di “una ricognizione delle categorie di lavoratrici beneficiarie”. In sostanza le misure di conciliazione restano ancora privilegio delle lavoratrici e dei lavoratori dipendenti e pensate prevalentemente per le donne. Sbilanciamoci! propone di assicurare un assegno di maternità universale per cinque mesi, pari al 150% della pensione sociale, a tutte le madri, indipendentemente dal fatto che siano dipendenti o autonome, che siano stabili o precarie, che lavorino o che siano disoccupate. L’assegno di maternità dovrebbe comprendere il riconoscimento di cinque mesi di contributi figurativi da distribuire su entrambi i genitori. L’assegno dovrebbe essere posto a carico della fiscalità generale. E’ necessario inoltre offrire pari opportunità introducendo il congedo per i padri, indipendentemente dal contratto e dalla tipologia di azienda. Le misure di conciliazione dovrebbero essere affiancate da un sistema pubblico per l’infanzia in grado di garantire a tutte le bambini e i bambini un percorso scolastico sin dai primi anni di età.