Top menu

Un appello-manifesto per la democrazia economica

Le cose da fare per introdurre la democrazia nell’economia: gestione comunitaria dei beni comuni, controllo e cogestione dei servizi pubblici, partecipazione dei lavoratori alle scelte sulle strategie d’impresa

Intendiamo rivolgere a tutte le forze politiche di sinistra e democratiche, alle organizzazioni sindacali, agli intellettuali, ai lavoratori e a tutti i cittadini che hanno a cuore le sorti del lavoro e della democrazia in Italia, un appello per introdurre la democrazia nell’economia. Democrazia economica significa riconoscere il ruolo centrale del lavoro nell’economia, e sancire il fatto che per legge i beni comuni dovrebbero essere gestiti principalmente dalle comunità interessate, che i cittadini dovrebbero potere controllare e cogestire i servizi pubblici, e che i lavoratori dovrebbero potere influire sulle scelte strategiche delle maggiori imprese private e pubbliche (come accade per esempio nel cosiddetto “modello tedesco”). Crediamo che milioni di cittadini e di lavoratori siano potenzialmente interessati alla democrazia economica, soprattutto in tempi di crisi e di perdita dei posti di lavoro, e che le forze politiche sindacali e sociali dovrebbero confrontarsi con questo tema cruciale per uscire dalla triplice crisi: economica, democratica ed ecologica.

Il problema è che il modello dominante di governo dell’impresa è oggi quello di tipo autoritario anglosassone in cui gli azionisti nominano il Consiglio d’Amministrazione e i massimi dirigenti aziendali con l’unico obiettivo di “creare valore” sul mercato finanziario a loro esclusivo beneficio. Nel sistema anglosassone di corporate governance il lavoro diventa solo uno strumento subordinato e le attività produttive tendono a smarrire il loro “valore reale” a favore di un valore “virtuale” e cartaceo dettato dalle dinamiche volatili e speculative del mercato finanziario. Il modello autoritario di corporate governance, la finanziarizzazione delle aziende e l’iperspeculazione finanziaria sono i principali responsabili non solo dell’attuale gravissima recessione economica, dell’aumento della disoccupazione e della contrazione dei redditi, della precarizzazione e della degradazione del lavoro, delle privatizzazioni selvagge dei beni pubblici, ma anche della crisi della democrazia e del welfare e del dissesto ecologico.

Di fronte a questa situazione proponiamo di introdurre elementi di democrazia economica anche in Italia. Siamo tuttavia consapevoli che la democrazia economica non è una formula magica che risolve istantaneamente tutti i problemi: come la democrazia politica è infatti fallace e perfettibile, e può innescare gravi fenomeni corporativi e nazionalistici. Comunque è l’unico sistema che potrebbe finalmente permettere ai cittadini di essere (almeno in parte) responsabili del proprio destino anche nella sfera decisiva dell’economia. In questa prospettiva non proponiamo un programma politico immediato ma una direzione di marcia alternativa a quella dominante.

La democrazia economica non è necessariamente anti-capitalista, tanto è vero che è praticata – anche se ovviamente in maniera parziale – da sessant’anni nel capitalismo tedesco e nei capitalismi scandinavi. Ma può però farci uscire dalla crisi perché costituisce un antidoto potente all’attuale predominio assoluto del capitalismo iperspeculativo e selvaggio. Le analisi dello European Trade Union Institute, il centro studi europeo dei sindacati, mostrano che nell’Unione Europea 12 paesi su 27, soprattutto nell’area renana (Germania, Austria, Olanda, Lussemburgo) e scandinava (Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia), hanno introdotto forme più o meno avanzate di partecipazione co-decisionale dei lavoratori nei board delle aziende pubbliche e private: ma l’ETUI dimostra anche che questi paesi senza alcuna eccezione registrano la maggior occupazione, più reddito per i lavoratori, maggiore competitività delle aziende, maggiore innovazione, migliore sostenibilità ambientale e maggiore potere sindacale. E questi paesi sono anche quelli che stanno uscendo prima e meglio dalla crisi.

Come ha indicato la compianta Elinor Ostrom, proponiamo lo sviluppo di un’economia policentrica, basata sui beni comuni, sul mercato, e sull’economia pubblica per i beni di interesse nazionale. Occorre allora introdurre nell’economia il Terzo Settore dei Beni Condivisi, un comparto centrale per lo sviluppo sostenibile e il progresso sociale e democratico. Un’economia diversificata e articolata in più settori autonomi è infatti in grado di prevenire e reagire meglio alle crisi.

Contro la gestione centralistica, verticistica e autoritaria delle istituzioni pubbliche – gestione che incoraggia e alimenta la corruzione, lo spreco, il burocratismo e l’inefficienza – auspichiamo il controllo decentrato da parte dei cittadini/utenti e da parte dei lavoratori: il controllo dal basso deve però trovare adeguata rappresentanza negli organi decisionali degli enti e delle aziende pubbliche (come quelle che gestiscono le infrastrutture e i servizi locali, le ASL, le strutture sanitarie, educative, ecc). Proponiamo che i bilanci degli enti locali siano definiti non solo dai legittimi rappresentanti eletti ma che vengano anche discussi direttamente dai cittadini: un riferimento concreto è quello di Porto Alegre in Brasile, in cui da anni i cittadini partecipano in maniera decisiva all’elaborazione del bilancio della città.

Per quanto riguarda i beni comuni – cioè le risorse condivise dalle comunità, come l’ambiente, Internet, Wikipedia, l’acqua, le conoscenze e l’informazione, le reti, la cultura, il territorio, le risorse naturali, l’inquinamento, ecc –, Elinor Ostrom ha già dimostrato scientificamente che essi possono spesso (anche se non sempre) essere gestiti in maniera più efficiente e sostenibile dalle comunità autonome che dalle corporation o dallo stato. Infatti le corporation sfruttano in maniera forsennata i beni comuni a loro esclusivo vantaggio, ma sprecano le risorse con strategie di valorizzazione a breve termine senza tenere conto dell’interesse pubblico. Anche lo stato tende spesso a dirigere in maniera centralistica e uniforme le diverse situazioni, sottostimando le esigenze e le competenze delle comunità locali. Nei casi peggiori, ma non infrequenti, lo stato può privilegiare elite economiche e alimentare fenomeni di corruzione, come nel caso delle mafie.

Proponiamo allora che i beni comuni vengano concessi in proprietà e/o in gestione a enti economici che abbiano come obiettivo esclusivo non il profitto privato ma quello comunitario e sociale (come per esempio le fondazioni e le cooperative) e che questi enti siano gestiti e controllati democraticamente e in piena autonomia dalle comunità interessate nelle forme che queste stabiliranno. Gli enti no profit dovrebbero avere per statuto come scopo sociale quello di preservare e sviluppare i commons a favore delle comunità e delle generazioni future. Gli esempi di questo Terzo Settore sono già numerosi e hanno un’importanza di prima grandezza. Infatti organismi no profit già governano Internet, la più grande innovazione del secolo, Wikipedia, la maggiore enciclopedia del mondo, e il software libero. Proponiamo che anche l’acqua sia gestita come bene comune da istituzioni economiche no profit con la collaborazione dei rappresentanti della cittadinanza e degli enti locali interessati.

Per quanto riguarda le grandi e medie imprese del settore privato, proponiamo che si segua una strada analoga a quella che nel 1951 percorsero i lavoratori e i sindacati tedeschi dei settori metallurgico e minerario quando organizzarono un referendum sulla democrazia economica per ottenere il diritto di partecipare nei board delle aziende.

Nel 1951 in Germania il referendum vinse con oltre il 95% dei voti e il governo democristiano di Konrad Adenauer fu costretto a concedere ai lavoratori il diritto di eleggere la metà dei membri dei consigli di sorveglianza delle aziende del settore. Successivamente, nel 1976, il governo socialdemocratico di Helmut Schmidt – anche se con la dura opposizione delle associazioni degli imprenditori – estese il diritto di rappresentanza (Mitbestimmung) del lavoro nei board di tutte le imprese con almeno 500 dipendenti, fossero esse nazionali o multinazionali. In pratica, nelle medie e grandi aziende in Germania la proprietà rimane agli azionisti ma i lavoratori hanno un doppio diritto di voto: da una parte tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato, eleggono i loro rappresentanti sindacali nel consiglio di fabbrica; d’altro lato eleggono i loro rappresentanti nel consiglio di sorveglianza delle aziende, con potere co-decisionale per quanto riguarda le strategie delle aziende (acquisizioni, cessioni, fusioni, delocalizzazioni, outsourcing, ecc), l’approvazione dei bilanci e la nomina del consiglio di gestione. Proponiamo che anche in Italia milioni di lavoratori possano eleggere democraticamente i loro rappresentanti sia negli organismi sindacali che nei board delle maggiori aziende, proprio come accade da 60 anni nella “virtuosa” Germania.

Conclusioni

La democrazia economica è un obiettivo ambizioso, ferocemente avversato dagli speculatori della finanza, dai neo-liberisti e dai neo-conservatori. Essa non è solo contrastata da molti “capitani d’industria” che non tollerano nessun controllo sul loro operato, ma è spesso incompresa anche dalle forze che si richiamano alla sinistra e al lavoro. Tuttavia potrebbe rappresentare un salto di qualità nel potere sociale e una precondizione necessaria per uscire dalla crisi e innescare un nuovo ciclo di sviluppo, più equo e innovativo, verde e sostenibile.

Infatti, nel contesto attuale di globalizzazione selvaggia e di libertà assoluta di movimento per i capitali, difendere il lavoro solo con le lotte e le contrattazioni sindacali o con la concertazione nazionale – attività che pure sono assolutamente necessarie – appare praticamente impossibile. È anche illusorio ritenere che basti solo un mutamento di governo per cambiare i rapporti di forza nel terreno decisivo dell’economia. I cittadini e i lavoratori devono allora potere esprimere la loro voce nelle aziende e prendere parte ai processi decisionali nell’economia per uscire veramente dal tunnel della crisi. Del resto esempi positivi – seppure embrionali e imperfetti – di democrazia economica esistono anche nel nostro paese, con riferimento alle cooperative di lavoro, agli enti della finanza etica, alle banche popolari, alle casse di risparmio, alle Mutue AutoGestite, alle strutture di economia solidale, ecc.

Proponiamo allora di indire dei referendum consultivi dei lavoratori sulla democrazia economica nelle maggiori aziende italiane. Un referendum nazionale potrebbe inoltre coinvolgere tutti i cittadini italiani per affermare il diritto alla democrazia nell’economia a partire dai beni comuni e dal settore pubblico. Sono milioni i cittadini e i lavoratori potenzialmente interessati alla democrazia economica: senza la partecipazione e l’intelligenza dei lavoratori non si esce dalla crisi.