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Trump e la crisi del multilateralismo

L’attacco di Trump al multilateralismo ha riguardato finora soprattutto l’Onu, e ha come riflesso l’inasprimento delle relazioni bilaterali nei confronti di alcuni Paesi, con effetti pesanti soprattutto per il Sud del mondo

L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha allarmato molti osservatori per le possibili conseguenze sugli equilibri geopolitici e economici internazionali. L’accento è stato posto soprattutto sugli effetti attesi dell’avvento di Trump sulle società dei paesi industrializzati. Infatti, sono state espresse soprattutto preoccupazioni per: il probabile tracollo del sistema sanitario statunitense; la spinta verso nuove e più deleterie forme di populismo che trovano facilmente una sponda in Europa; la minaccia per l’integrazione europea e uno stimolo a nuove uscite dall’Unione, sull’onda della Brexit; la pericolosa tendenza protezionistica che rischia di restringere i mercati di sbocco per i partner commerciali degli USA. Meno attenzione hanno ricevuto le conseguenze probabili e già attuali dell’attacco violento che l’amministrazione Trump ha già sferrato nei confronti del multilateralismo. Questo attacco, che ha riguardato finora soprattutto l’Onu, ha come riflesso l’inasprimento delle relazioni bilaterali nei confronti di alcuni Paesi, con effetti pesanti soprattutto per il Sud del mondo.

Una delle scelte più immediate dell’amministrazione Trump ha riguardato il taglio del 50% dei finanziamenti all’Onu. La spinta per una drastica riduzione dei contributi alle Nazioni Unite arriva alla vigilia della presentazione del bilancio per il 2018, che dovrebbe includere un taglio del 37% al dipartimento di Stato e all’U.S. Agency for International Development budgets.

Gli Stati Uniti sborsano ogni anno 10 miliardi di dollari all’Onu, e i tagli potrebbero avere un drammatico impatto sul peacekeeping, sul programma di sviluppo e sull’Unicef, finanziati dallo State’s Bureau of International Organization Affairs. Meno chiaro invece il destino di altri programmi come quello sui rifugiati e il Programma Alimentare Mondiale. La scelta di si inquadra in un contesto nel quale gli USA già oggi destinano meno dello 0,2% del PIL ad aiuti allo sviluppo, circa la metà della media dei Paesi donatori.

Secondo Foreign Policy, i diplomatici Usa hanno avvertito diversi membri chiave dell’Onu di “aspettarsi un grande freno” sulla spesa americana. L’amministrazione Trump sta anche valutando se gli Stati Uniti debbano abbandonare il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, spesso accusato di essere parziale nei confronti di Israele e criticato per aver ammesso governi responsabili di abusi.

Sull’onda della critica della nuova amministrazione Trump al ruolo di organizzazioni tipicamente multilaterali come l’Onu, sono probabili effetti non trascurabili sulle relazioni politiche e commerciali bilaterali fra USA e singoli Paesi. Questi effetti, presi singolarmente, potranno anche essere ridotti, ma la loro somma potrebbe ripercuotersi significativamente sull’economia mondiale e su quella dei singoli Paesi coinvolti. Sotto i riflettori sono andati soprattutto i rapporti con i Paesi messi all’indice per presunti rischi terrorismo e quelli fra USA e Messico. In particolare, il rafforzamento del muro divisorio fra Stati Uniti e Messico, oltre ad avere un deleterio effetto simbolico per quanto riguarda migrazioni e diritti umani, avrà indubbiamente un impatto sulla circolazione di merci e servizi. I danni maggiori sono attesi per l’economia Messicana la cui crescita verrà presumibilmente frenata dalla caduta delle esportazioni verso il suo principale partner commerciale. Questo presumibilmente aggraverà le condizioni di vita della popolazione messicana, a partire dagli abitanti delle zone transfrontaliere in cui si concentrano gli aspiranti migranti verso il Nord. Tuttavia non vanno sottovalutate le ripercussioni per gli stessi Stati Uniti.

In campagna elettorale Trump ha parlato di una cifra compresa tra i 5 ed i 10 miliardi di dollari per il rafforzamento del muro lungo il confine meridionale degli USA (di cui una parte già era stata edificata una parte nel 1994). Si tratterebbe di un importo facilmente coperto dall’imposta annunciata il 26 gennaio, che secondo le intenzioni sarà pari al 20% delle importazioni dal Messico. Dato che tali importazioni nel 2016 ammontavano a oltre 270 miliardi di dollari, i costi dell’operazione sarebbero ampiamente coperti. Sorvoliamo sul fatto che, tenendo conto delle dimensioni del muro, dei costi della materia prima e della manodopera, la società di consulenza finanziaria Bernstein ha invece stimato in 15 miliardi il prezzo del muro. A cui si sommerebbe il costo del rafforzamento della polizia di frontiera prevista in 5000 unità aggiuntive. Anche prendendo questa valutazione, però, in un anno l’amministrazione americana avrebbe i soldi per ampliare il muro e militarizzare ulteriormente la frontiera. E’ evidente che questa operazione ha comunque un costo opportunità enorme: si pensi che i 15 miliardi di costo stimati corrisponderebbero a oltre il 75% dei 19,5 miliardi di tagli alla spesa sanitaria USA prospettati in questi giorni nella proposta presidenziale di bilancio 2018. Va anche detto che gli introiti dell’imposta sulle importazioni dal Messico potrebbero essere sensibilmente inferiori alle previsioni. Infatti, non c’è ragione per cui le aziende Usa debbano continuare a servirsi da fornitori messicani pagando il 20% in più. È facile pensare che cercheranno altrove, in Paesi dove non ci sia la possibilità di aumentare i dazi per costruire un muro lungo il confine.

La quota più importante dell’import dal Messico, pari all’8,9% del totale, è rappresentata da petrolio raffinato. Ma è molto consistente anche la quota di auto, che con 21,6 miliardi rappresenta il 7,4% delle esportazioni dal Messico verso gli Usa. Ci sono poi anche poco meno di 10 miliardi di frutta e verdura, in particolare pomodori e frutti tropicali. E altri 8 miliardi di prodotti alimentari. A cominciare dalla birra: nel 2014 gli americani hanno bevuto cerveza per un valore pari a 2,3 miliardi di dollari.

Tutta questa merce finirà insomma per costare il 20% in più alle aziende che la importano negli Usa. Su questa base il deputato democratico texano Lloyd Doggett ha sostenuto su Wired che la tariffa ipotizzata dalla Casa Bianca “non solo distruggerà il commercio del Texas con il suo principale partner. Ma aumenterà i prezzi per i consumatori su molti beni”.

A questi probabili effetti negativi per gli USA si somma la probabile reazione del Messico. Subito dopo l’annuncio della tariffa, il presidente messicano Enrique Pena Nieto ha come noto annullato una visita di Stato negli Usa. E’ probabile che le reazioni non si limiteranno a questo . Se il Messico dovesse decidere di inasprire la tassazione sul made in Usa, a essere colpite sarebbero le imprese USA dei settori che più scambiano con questo Paese. A pagare il prezzo più alto sarebbe l’industria metalmeccanica, che nel 2014 ha esportato in Messico merci per 53 miliardi di dollari. Ovvero più di un quarto del totale dell’export Usa a sud del confine. Il dato rimarrà costante o le aziende messicane cercheranno altri fornitori? Perchè in questo secondo caso quella working class che in Michigan e Ohio ha voltato le spalle ai democratici per abbracciare Trump potrebbe essere la prima a pagare le conseguenze delle politiche del nuovo presidente.

 

*Università di Urbino