Top menu

Sotto il cielo di Alitalia

Un operatore regionale, minacciato dalle low cost, tenuto in piedi dai privilegi fissati dal governo a svantaggio dei consumatori: Alitalia si presenta ora isolata e senza prospettive. A meno che non passi del tutto nelle mani di Air France: svelando finalmente cosa c’era dietro la facciata di cartapesta “all’italiana”

La nuova Alitalia

L’Alitalia-Compagnia Aerea Italiana S.p.A (la “nuova” Alitalia”) nasce dalla trasformazione della Compagnia Aerea Italiana srl (Cai) costituitasi nell’agosto 2008 col proposito di rilevare il marchio e le attività della “vecchia” Alitalia e di Air One. Nell’ottobre dello stesso anno la Cai si trasforma in S.p.A. con un capitale di 1,1 miliardi di euro, con il quale acquista parte degli asset della “vecchia” Alitalia (in liquidazione) e il suo marchio industriale per 1.052 milioni di euro. Nel gennaio 2009 Air France-Klm entra in Alitalia con il 25 per cento del capitale e un esborso di poco più di 300 milioni di euro. L’altro 75% del capitale è di proprietà della “cordata” di azionisti che hanno partecipato a Cai: il 45% distribuito in varie percentuali tra Gruppo Riva, Gruppo Benetton, Intesa-San Paolo S.p.A, Roberto Colannino, Antonio Angelucci e Carlo Toto e il rimanente 30% nella mani di altre 18 società.

Gli azionisti sono soggetti a un vincolo sociale (clausola di lock-up) per cui nei primi quattro anni non potranno vendere le proprie azioni, se non ad altri soci italiani; comunque la vendita è possibile nel caso che non si raggiunga, nei primi tre anni, almeno il 50% degli obiettivi fissati. E’ stabilito anche l’obbligo per il socio che superi il 50% delle azioni con diritto di voto di lanciare un’Opa su tutte le azioni detenute dagli altri soci che intendano vendere.

Al consiglio di amministrazione – composto da 19 membri, inclusi i tre designati da AirFrance-Klm, di cui due sono presenti anche nel comitato esecutivo assieme a presidente e amministratore delegato e altri cinque azionisti – sono riservate le decisioni strategiche di gestione e ampi poteri di amministrazione (approvazione dei piani industriali e strategici, approvazione degli accordi di collaborazione, investimenti per soglie di valore superiori ai 50 milioni).

Il passaggio dalla vecchia alla nuova Alitalia

La costituzione della nuova Alitalia è la risposta al lungo processo di declino che ha portato alla chiusura della (vecchia) Alitalia la quale, ancora alla metà degli anni novanta, era nelle prime posizioni europee per trasporto di passeggeri. Di fronte ai processi di deregolamentazione e all’impetuosa espansione dei vettori low-cost, la nostra società di bandiera incontra difficoltà a garantire il necessario recupero di efficienza, sia contenendo i costi che sviluppando la qualità dei servizi.

Per contrastarne il declino, il management ricerca alleanze a livello internazionale. In questo contesto si colloca il tentativo prima di costituire una joint-venture con la compagnia olandese Klm e poi, dopo il fallimento di questa iniziativa, un analogo accordo, in condizioni di minore potere contrattuale, con AirFrance-Klm. Ostacoli, interni ed esterni, si frappongono alla riuscita di questi tentativi di risanare, ristrutturare e rilanciare l’azienda: la difficoltà di definire e implementare piani industriali di lungo respiro; le insufficienze infrastrutturali del sistema-paese per l’eccessiva polverizzazione della struttura aeroportuale; gli interessi locali nel dualismo tra Malpensa, Linate e Fiumicino; la frammentazione delle rappresentanze sindacali nate per proteggere interessi diversificati; ma anche l’incapacità politica nell’affrontare i nodi strutturali di un’industria pubblica considerata rilevante per il Paese per un’ottica rivolta sostanzialmente a privilegiare gli interessi particolari delle forze politiche nazionali e locali. L’esito sarà la liquidazione della (vecchia) Alitalia.

Obiettivi e costo della nuova Alitalia

Alitalia-Cai si propone di rilanciare il vettore aereo italiano perseguendo quattro obiettivi: leadership domestica; livelli di eccellenza operativi e di costo; sviluppo sostenibile nel lungo raggio; partnership europea. Nel progetto Cai, si prevede l’aumento della flotta a 153 macchine con l’apporto di 60 nuovi aerei; un aumento delle destinazioni (57 nazionali, 56 internazionali, 16 intercontinentali) e delle frequenze (1.669 domestici, 630 internazionali, 88 intercontinentali); un assetto centrato su Fiumicino in connessione con altre sei sedi aeroportuali. Attraverso la gestione degli esuberi (8.100 di Alitalia e AirOne e 13.550 dell’indotto), l’incremento dell’orario di lavoro e il maggior tasso di utilizzazione della flotta si mira a un aumento della produttività che dovrebbe garantire una quota di mercato del 55% e il pareggio operativo nel 2010 seguito da utili negli anni successivi.

La nuova Alitalia avvia la sua attività come fosse un’impresa “start up”, ma con cinquanta e più anni di avviamento. Inoltre, acquisisce a buon prezzo i migliori asset materiali e immateriali (aerei e slots) della vecchia compagnia senza doversi assumere i suoi debiti pregressi, posti a carico della collettività. In questo processo lo Stato italiano subisce una perdita, come azionista e come creditore della vecchia Alitalia, a favore sia della costituenda compagnia che di AirOne, di cui il governo si assume l’onere di farla uscire dalla crisi in cui versa. A questi costi diretti si aggiungono i costi indiretti per la collettività dovuti alla cassa integrazione per i dipendenti in esubero; quelli associati all’impatto occupazionale sull’indotto; gli indennizzi ai piccoli azionisti e obbligazionisti; i minori introiti contribuitivi ed erariali; i maggiori costi a carico di consumatori e delle imprese private per la sospensione dei controlli dell’Antitrust; i costi relativi ai crediti che il fallimento Alitalia lascia insoluti.

I risultati dei primi due anni

Al termine del primo biennio di attività si può tentare di verificare il percorso fatto dalla società per raggiungere gli obiettivi che si era prefissata.

Obiettivi strategici

Per quanto riguarda la leadership domestica, essa è pregiudicata dalla concorrenza di Ryanair che ha affermato la scorsa estate di prevedere per il 2010 un numero di passeggeri serviti superiore a quello di Alitalia. Se ciò fosse vero, la quota di mercato di Alitalia non si sarebbe avvicinata significativamente all’obiettivo del 55% nonostante la sua attività si concentri sul mercato nazionale (oltre il 60% dei suoi passeggeri serviti nel 2010); nonostante il maggiore tasso di crescita, la quota dei passeggeri intercontinentali rimane sostanzialmente stazionaria al di sotto del 10%. L’attività di Alitalia sembra quindi relegata a una dimensione regionale dove maggiore è la concorrenza con le low-cost. Un confronto con il 2007 (ultima situazione “normale” prima della fusione) il numero di passeggeri servito nel 2010 è ancora inferiore a quello della vecchia Alitalia.

Non sono disponibili informazioni recenti e sistematiche sui livelli di eccellenza operativi. A novembre, in occasione della presentazione della relazione sul terzo trimestre, Alitalia afferma che sono migliorati i livelli di servizio: una media giornaliera inferiore a 2 voli cancellati; una puntualità del 74%, in media e del 92% sulla Roma-Milano-Roma con segnali di progresso anche per Fiumicino che raggiunge un livello di puntualità media del 60% in crescita.

Gli standard raggiunti non sembrano peraltro migliori degli indici di puntualità e regolarità della vecchia Alitalia che erano, nei momenti peggiori, superiori all’85%-90%. Per i livelli di costo mancano al momento fonti informative attendibili e ciò vale anche per la qualità dei servizi a bordo.

Flotta, basi e rotte

L’obiettivo sviluppo sostenibile nel lungo raggio non sembra aver avuto sviluppi particolarmente significativi. Due nuove rotte integrano i collegamenti intercontinentali, ridotti e spesso stagionali, con il Nord America (cinque scali negli Stati Uniti e uno in Canada), con l’Asia (Tokyo e Pechino stagionale, ma Shanghai resta chiusa) e due con il Sud America (San Paolo e Buenos Aires). La gestione della rete non pare finalizzata a servire la clientela italiana in quanto subordinata alla profittabilità; il ruolo pare essere quello di indirizzare gli italiani verso altri hub europei (Parigi, Amsterdam).

Attualmente l’Alitalia serve il minor numero di rotte di lungo raggio della sua storia; esse sono inferiori a quelli della vecchia compagnia: le 16 programmate sono comunque inferiori alle 19 in essere poco prima del commissariamento. Se si tiene conto che per la stagione Winter 2010-11 sono 59 le destinazioni nazionali (sulle 57 programmate) e 53 internazionali (sulle 56 programmate) sembra che si confermi che il prodotto Alitalia sia sempre più un prodotto tipicamente nazionale, al più regionale per i collegamenti da e per le principali città europee e del Medio Oriente, ruolo accentuato dal feederaggio per AirFrance.

La flotta è attualmente (gennaio 2011) costituita da 146 aeromobili rispetto ai 149 (93 di Alitalia e 56 di AirOne) delle gestioni precedenti alla privatizzazione. In ambito Skyteam la compagnia possiede la quarta flotta per numerosità, ma la percentuale di aerei di lungo raggio sul totale è la più bassa (12,5%, Air France il 41%), inferiore anche a quella della Turkish (15,2%).

Il concentrare l’attività su una rete in Italia con una struttura multibase non sembra aver prodotto evidenti benefici se non quelli legati alla riduzione dei costi per trasferimenti equipaggi; non sembra nemmeno che attraverso tale assetto si siano recuperate quote di traffico nei confronti dei vettori low cost e di quelli che gli sottraggono passeggeri dalla provincia per condurli sui altri hub europei.

Nel disegno di rete è confermata la centralità di Fiumicino volta a massimizzare la presenza sulle rotte verso il Mediterraneo, ma anche verso l’Estremo Oriente e il Sud America. Orientamento confermato dal fatto che le nuove rotte si aprono sostanzialmente da Roma (nuovi voli per Pechino e Los Angeles). Malpensa, abbandonato come hub, è diventato aeroporto di Easyjet, alla concorrenza della quale Alitalia cerca di rispondere con un progetto di less cost utilizzando la flotta AirOne. Si tratta di una strategia insufficiente a risolvere i problemi di connessione della clientela italiana che intende avviarsi verso le principali destinazioni mondiali, oggi soddisfatte da altri vettori europei.

Partnership

La partnership europea è confermata con l’Alleanza Skyteam, al cui interno è forte il legame con Air France per l’importante ruolo di feederaggio che lega le due compagnie (54 voli giornalieri su Parigi dall’Italia; mentre a Linate arrivano giornalmente 61 voli dalla Francia), dal quale emerge l’intenzione di AirFrance di far svolgere ad Alitalia un ruolo di alimentazione del proprio hub di Parigi. La subordinazione ad Air France si manifesta non solo nel “sentir parlare francese nei corridoi del palazzo”, ma da molti altri fatti: molti manager francesi sono ormai interni all’organizzazione (Sansavini di provenienza prima Klm e poi Air France, capo Vendite Worldwide di Alitalia); molti degli asset storici di Alitalia sono passati a partner legati ad Air France (possibile passaggio da Travelport ad Amadeus come sistema Gds per la vendita dei voli presso gli agenti di viaggio; passaggio delle attività di call center da quello di Palermo a uno di Tirana che serve Air France).

All’Alitalia rimane un compito di corto-medio raggio rafforzando una vocazione regionale che non è coerente con la condizione posta alla base della privatizzazione di realizzare una compagnia competitiva e non ancillare.

Situazione finanziaria

Anche nell’anno 2010, Alitalia è terminata in perdita per 168 milioni di euro, risultato considerato positivamente in quanto ha dimezzato le perdite dell’anno precedente. Il raggiungimento del pareggio del conto economico è stato spostato al 2011, al termine del periodo di lock-up. La realizzazione di utili è rinviata al 2011, e questo sembra essere l’obiettivo verso il quale sono indirizzate tutte le azioni della compagnia.

Il risultato riflette un’evoluzione positiva dei ricavi operativi (che crescono percentualmente più dei costi), anche se va rilevato che, nel confronto il 2007, essi risultano inferiori di oltre il 30% .

A questo riguardo, sarebbero necessari due approfondimenti per una valutazione più fondata di questo risultato. Per quanto riguarda i ricavi, non è facile individuare quanto vi abbiano influito i privilegi definiti nel decreto salva-Alitalia (sgravi contributivi e nuova piattaforma contrattuale) e le condizioni di sostanziale monopolio sulla rotta di maggior valore Roma-Milano. Per quanto riguarda invece i costi, mancano le informazioni necessarie per valutare quanto strutturale sia il contenimento della loro crescita e quanto invece dipenda da interventi contingenti o comunque non legati ad aumenti di competitività.

Per una dinamica virtuosa delle componenti del conto economico è essenziale il miglioramento del coefficiente medio di riempimento degli aerei (load factor) effettivo che risulta ancora di quasi 5 punti al disotto di quello del 2007 e soprattutto è decisamente inferiore a quello medio europeo (è il più basso tra le compagnie aeree Aea). A meno di un consistente miglioramento dei ricavi il raggiungimento dell’obiettivo di un fatturato 4,8 miliardi di euro per il 2012 non sembra alla portata di mano.

Le perdite registrate nel primo biennio hanno assorbito una quota significativa della dotazione finanziaria iniziale, tanto da sollevare voci negli ultimi tempi di un ricorso a ulteriori finanziamenti da parte dei soci. L’esistenza di tensioni di liquidità e le conseguenti necessità di ricapitalizzazioni sono state peraltro sempre smentite.

La prospettiva dell’Alitalia italiana in vista del lock-up

Le prospettive di un’Alitalia “italiana” dipendono dal fatto che la gestione della compagnia si orienti allo sviluppo industriale rafforzando le condizioni strutturali di maggiore efficienza. Se si tiene presente che i fattori alla base del declino della vecchia Alitalia sono stati, oltre all’intrusione della politica e al consolidamento di realtà sindacali di natura corporativa, la crescita delle low cost e la conseguente più aspra concorrenza tra vettori sempre più organizzati, di crescenti dimensioni e con chiari disegni industriali, appare evidente la necessità di una strategia industriale che si traduca in piani adeguati alla difficile situazione concorrenziale.

Non sembra che ciò si sia registrato, dato che l’Alitalia non ha pienamente colto le opportunità offerte dalla ripresa del trasporto aereo mondiale nel 2010, dopo l’anno nero del 2009. In effetti la riduzione dei costi operativi, le più stringenti condizioni contrattuali per i partner, la riduzione dei fornitori anche su base temporale, la ristrutturazione dei servizi alla clientela anche a bordo, le operazioni di marketing (nuova classe magnifica, nuova campagna pubblicitaria, sponsorship di grande evidenza, ridis gno ambiti aeroportuali, rinsaldamento della fidelizzazione del cliente) possono essere interpretate come mosse da esigenze di visibilità finanziaria piuttosto che finalizzate al miglioramento dell’efficienza industriale di più lungo periodo.

Diversi elementi possono essere adotti per giustificare questa interpretazione. Un esempio è l’ulteriore supporto richiesto nell’estate 2010 alla politica per prolungare di ulteriori sette anni la Legge Marzano-bis dell’agosto 2008 al fine di collocare altri 1.500 lavoratori in cassa integrazione, cosa che garantirebbe il raggiungimento (fittizio) del pareggio di bilancio alla fine dell’anno. Da qui la concordata fuoriuscita di 700 lavoratori (su base volontaria) a carico dello Stato, per la quale il governo si è detto entusiasticamente pronto a fornire il supporto richiesto per fini che, di fatto, nulla hanno a che vedere con una politica industriale a favore della crescita del paese. Si tratta di un ridimensionamento del personale che appare contradditorio con “l’onda del successo” che coinvolge di Alitalia, con le prospettive di un’azienda che dichiara di star sviluppando destinazioni e volumi e che dovrebbe avere quindi maggiori necessità di personale. La riduzione di personale segnalerebbe invece una situazione di difficoltà, nonostante la nuova piattaforma contrattuale, con lo smantellamento della forza sindacale e della rappresentatività dei lavoratori, abbia permesso, con il ricorso a rapporti individuali di lavoro, di estendere gli orari e favorire maggiori livelli di produttività e una riduzione dei costi.

In sostanza, all’approssimarsi della scadenza del periodo di lock up al termine del quale i soci potranno liberarsi dai loro impegni di azionisti, l’Alitalia si presenta come un vettore regionale, insidiata a livello nazionale dalla crescita delle low cost, con una rete di collegamenti limitati, scarsi sviluppi a lungo raggio e con funzioni di feederaggio con Air France. Una situazione di sostanziale isolamento strategico a livello internazionale in cui la restrizione dei propri traffici (e ricavi) al disotto dei livelli raggiunti singolarmente da Alitalia e AirOne prima della loro fusione indica una preoccupante similitudine con i piani falliti della vecchia Alitalia.

L’importanza attribuita al recupero del conto economico, dove la riduzione dei costi e lo sviluppo dei ricavi sono favoriti dalle condizioni di privilegio consentite dalla politica del governo e a danno del consumatore e del contribuente, appare come l’obiettivo prioritario che l’esperienza passata ha indicato essere difficilmente sostenibile nel medio termine. Un tale orientamento, fortemente sbilanciato a livello finanziario rispetto a una prospettiva industriale, induce a ritenere, come da diverse parti si sostiene (così come dichiarato dallo stesso Sabelli), che è vicino il momento in cui l’Alitalia passi definitivamente e totalmente nelle mani di Air France (probabilmente non prima delle prossime elezioni politiche).

Se ciò dovesse essere nei programmi dei soci e della società, la politica industriale e commerciale della nuova Alitalia assumerebbe un significato meno contingente e più interessante. Il concentrarsi sul mercato interno (direzione in cui la stessa Air France si muove con riferimento al mercato francese) e ad alcune rotte regionali da Fiumicino – mentre quelli a lungo raggio dell’area ricca del Nord Italia vengono indirizzati su Parigi – sembrerebbero indicare una operazione con la quale inserire, in un prossimo futuro quando opportunità politiche permetteranno di ratificare i fatti compiuti, un’Alitalia pulita, snella nel personale, con nuove relazioni industriali dove il sindacato ha poco gioco, nella “casa-madre” francese con il ruolo di garantire il mercato italiano ai francesi. Un’Alitalia che, avendo raggiunto il pareggio di bilancio (e quindi con l’osanna del miracolo raggiunto), potrà apparire come partner di un grande vettore internazionale con il gradimento generale, tranne che per quegli italiani che, per i voli di lungo raggio, dovranno passare per Parigi o Amsterdam. Se ciò dovesse accadere, l’operazione Fenice-Cai risulterebbe, nella sua definizione originaria e nella successiva implementazione, una complicata operazione di facciata di natura essenzialmente finanziaria in grado di garantire un ritorno ai propri soci, nel mentre si procede ad adattare le proprie strutture per inserirle all’interno dell’organizzazione di Air France, con un costo per quest’ultima decisamente inferiore a quello che avrebbe sostenuto nell’acquisire la vecchia Alitalia.

Alitalia: un modello di politica industriale?

La vicenda Alitalia presenta un indubbio interesse anche da un punto di vista più generale, quello della politica economica, in quanto sembra prospettare un modello di politica industriale per intervenire nelle situazioni di crisi aziendale.

In effetti, con il modello della bad company utilizzato per la dismissione della vecchia Alitalia i debiti dell’azienda vengono posti a carico della finanza pubblica e quindi dei contribuenti, mentre la componente valida degli assets aziendali sono consegnati nelle mani di imprenditori privati con il pretesto che essi perseguirebbero meglio l’obiettivo della crescita produttiva e dello sviluppo occupazionale. Un tale procedimento è manifesto nel caso dell’Alitalia che ha permesso di salvare, in contemporanea, anche AirOne di Carlo Toto, le cui pesanti posizioni debitorie nulla avevano a che fare con interessi pubblici da tutelare. Anche l’affidamento alla Banca Intesa della regia dell’intera operazione va in questo senso, se si tengono presenti le pesanti esposizioni di questa banca nei confronti sia di Alitalia sia di Air One. La scarsa trasparenza di tutta l’operazione esprime la scelta politica del governo di delegare a gruppi privati, precostituiti o da costituire, per gestire con una visione privatistica, e quindi in un’ottica di grande opacità informativa, i punti di crisi industriale. Per quanto specifico del caso Alitalia, il modello presenta significative analogie anche in altri contesti industriali, dalle “grandi opere” alla Fiat e all’eventuale privatizzazione della Compagnia di Navigazione Tirrenia. è di questi giorni, a ulteriore esempio, l’annuncio che Meridiana dell’Aga Khan ha avviato un piano di ristrutturazione con pesanti tagli al personale (900 su un totale di 2.023 dipendenti) con la garanzia di 4 anni di cassa integrazione e 3 di mobilità, come prevede la legge Marzano-bis (salva Alitalia) dove la finanza pubblica è a sostegno di aziende private senza che vi sia qualche seria considerazione sul senso generale che può avere una tale politica industriale.

Una tale modalità di condurre la politica industriale implica una doppia rinuncia della classe politica a svolgere la necessaria funzione di governo. Da un lato, essa abdica al compito di indirizzo e di stimolo dello sviluppo industriale e quindi a gestire, limitandosi a sostenere, talvolta con finanziamenti pubblici, le scelte degli imprenditori privati, la complessità dei processi di ristrutturazione produttiva così importanti in questa fase storica. Dall’altro lato, di fronte ai problemi occupazionali che comporta il passaggio da una bad company a una new company si esime da qualsiasi forma attiva di gestione della contrattazione tra lavoratori e impresa rafforzando le richieste imprenditoriali di riduzione del costo del lavoro, sia con il contenimento salariale sia con l’aumento di produttività, incentivando il conflitto e le fratture all’interno del corpo dei lavoratori.

In un momento di particolare difficoltà del nostro apparato industriale a ridefinirsi in presenza di una crisi di trasformazione dell’assetto produttivo internazionale, la rinuncia a governare i processi in atto e la delega di tale compito a una classe imprenditoriale priva di una visione nazionale rappresenta una scelta pericolosa che rischia di pregiudicare lo sviluppo della nostra società.

Leggi le altre puntate della serie Le grandi imprese italiane