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Riarmo al posto di clima per uscire dalla crisi

Trump riduce il budget per la Nato, ma aumenta l’export di armi. Al posto degli accordi sul clima è con il riarmo che Usa, ma anche Germania e Francia, finanziano industrie per uscire dalla crisi più grave dal ’29.

Dall’ultimo rapporto redatto dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) e pubblicato lo scorso 11 marzo risulta che il volume dei trasferimenti internazionali per l’import di armi nel periodo 2014-18 è aumentato del 7,8%  rispetto al periodo 2009-13 e del 23% rispetto all’arco temporale compreso tra il  2004 e 2008, cioè prima della crisi economica. In base ai dati raccolti dall’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma i cinque maggiori esportatori di armamenti nel 2014-18 sono stati gli Stati Uniti, la Russia, la Francia, la Germania e la Cina; quest’ultima da paese importatore si sta trasformando in produttore e esportatore di armi anche attraverso gli investimenti in tecnologia legata all’intelligenza artificiale e spaziale. I questi primi cinque Paesi, tra cui le due economie predominanti in Europa, coprono il 75% del volume totale delle esportazioni di armi nel mondo nel quadriennio appena trascorso (2014-18). Il flusso di armi è aumentato in Medio Oriente tra il 2009-13, a cavallo delle cosiddette “primavere arabe” e successivamente tra il 2014 e il 2018, mentre si è registrata una diminuzione dei flussi verso tutte le altre aree del mondo.

Ciò significa che per uscire dalla più grande crisi economica dopo il 1929 i Paesi occidentali, in testa Stati Uniti e alleati europei, hanno preferito favorire il riarmo anziché sviluppare piani di riconversione per l’adeguamento ai cambiamenti climatici nel rispetto dell’accordo internazionale della Cop21 di Parigi, del 30 novembre 2015, firmato da 195 nazioni, dal quale il presidente Donald Trump si è sottratto nel giugno 2017. Trump ha quindi sospeso anche lo storico trattato di non proliferazione dei missili a medio raggio (Inf), firmato da Gorbaciov e Reagan nel 1987, nel febbraio scorso e si è rifiutato finora di sottoscrivere il nuovo trattato di messa al bando delle armi nucleari proposto dall’associazione Ican e adottato dalla conferenza delle Nazioni Unite nel luglio 2017 (ancora non gratificato neanche dall’Italia). 

Nella redistribuzione dei flussi delle industrie armiere il divario tra gli Stati Uniti e altri esportatori di armi si è andato allargando, sia sotto la seconda presidenza Obama sia nel primo periodo della presidenza Trump. Le esportazioni di armi statunitensi sono cresciute del 29% tra il 2009-13 e il 2014-18, e la quota degli Stati Uniti delle esportazioni globali totali è passata dal 30% al 36%. Anche il divario tra i due principali Paesi esportatori di armi è aumentato: le esportazioni statunitensi di armi importanti sono aumentate del 75% rispetto a quelle della Russia nel 2014-18, mentre erano solo il 12% più alte nel periodo 2009-13. Più della metà (52%) delle esportazioni di armi statunitensi è andata in Medio Oriente nel periodo successivo alle “primavere arabe”, cioè nel quadriennio 2014-18.

“Gli Stati Uniti hanno ulteriormente rafforzato la propria posizione di fornitore leader di armi a livello mondiale”, afferma Aude Fleurant, direttrice del programma SIPRI per le armi e le spese militari. “Gli Stati Uniti hanno esportato armi in almeno 98 Paesi negli ultimi cinque anni; queste consegne includevano spesso armi avanzate come aerei da combattimento, missili da crociera a corto raggio e missili balistici e un gran numero di bombe teleguidate “.

Le esportazioni di armi da parte della Russia sono diminuite del 17% tra il 2009-13 e il 2014-18, in particolare a causa della riduzione delle importazioni di armi da parte dell’India e del Venezuela. Anche se dalle più recenti dichiarazioni dell’ammiraglio Nikolai Evmenov, comandante della Flotta del Nord della Federazione Russa, Mosca intende rafforzare ulteriormente la sua rotta settentrionale artica, rinforzando la flotta dei sottomarini e delle navi rompighiaccio con sistemi missilistici marittimi Bal e Bastion, e con una brigata motorizzata dotata della versione artica del sistema missilistico a corto raggio Tor-M2DT.

La Russia si conferma il primo fornitore dell’India, con il 58 per cento delle importazioni di Nuova Delhi, benché le forniture russe siano diminuite rispetto al 2009-13, quando costituivano il 76 per cento del totale indiano; a sua volta l’India, cui va il 27 per cento dell’export militare russo, nonostante una flessione del 42 per cento tra i due periodi, resta il cliente numero uno di Mosca (prima della Cina e dell’Algeria). L’India si conferma uno dei principali importatori del mondo di armi, nell’arco di tempo 2014-18 risulta al secondo posto, dietro soltanto all’Arabia Saudita. Nella “top-ten” dei principali importatori di sistemi d’arma tra i primi cinque che insieme importano il 35 per cento del totale, figurano anche l’Egitto, l’Australia e l’Algeria. L’India compariva in prima posizione nel periodo 2009-13, ma tra un quinquennio e l’altro ha ridotto le importazioni del 24 per cento in termini di volume; la sua quota di mercato è scesa dal 13 al 9,4 per cento. Il calo delle importazioni indiane è attribuito al ritardo di alcune consegne, come quelle degli aerei caccia ordinati alla Russia nel 2001 e dei sommergibili ordinati alla Francia nel 2008. Tra i fornitori dell’India seguono Israele, col 15 per cento, e gli Stati Uniti, col 12 per cento, entrambi in ascesa. La maggior parte delle esportazioni israeliane, il 46 per cento, è diretta verso l’India. In aumento anche le forniture francesi: per la Francia l’India, destinataria del 9,8 per cento delle esportazioni, è diventata la seconda cliente (dopo l’Egitto e prima dell’Arabia Saudita); nel periodo 2009-13 l’India (così come l’Egitto) non compariva tra i principali importatori di armi francesi. L’India, che riceve il 13 per cento delle esportazioni canadesi, è un cliente importante anche per il Canada (dopo l’Arabia Saudita e prima degli Emirati Arabi Uniti). Per il Sudafrica, invece, è il terzo cliente, con una quota del 9,8 per cento (dietro Stati Uniti ed Emirati Arabi Uniti)

Tra il 2009-13 e il 2014-18 la Francia ha aumentato le esportazioni di armi del 43% e la Germania del 13%. Le esportazioni combinate di armi degli Stati membri dell’Unione Europea hanno rappresentato il 27% delle esportazioni globali di armi nel 2014-18.

Un piccolo numero di Paesi al di fuori dell’Europa e del Nord America sono grandi esportatori di armi. La Cina è diventata il quinto più grande esportatore di armi nel 2014-18. Mentre le esportazioni di armi cinesi sono aumentate del 195% tra il 2004-2008 e il 2009-13, sono aumentate solo del 2,7% tra il 2009-13 e il 2014-18. Le esportazioni di armi israeliane, sudcoreane e turche sono aumentate sostanzialmente del 60%, 94% e 170% rispettivamente, tra il periodo 2009-13 e 2014-18.

Come già accennato, le importazioni di armi del Medio Oriente sono quasi raddoppiate negli ultimi cinque anni. Le importazioni di armi da parte degli Stati del Medio Oriente sono aumentate dell’87% tra il 2009-13 e il 2014-18 e hanno rappresentato il 35% delle importazioni globali di armi nel 2014-18. 

L’Arabia Saudita, grande alleata del presidente americano Trump, è diventata di recente il più grande importatore di armi del mondo nel 2014-18, con un aumento del 192% rispetto al periodo 2009-2013. Le importazioni di armi da parte dell’Egitto, il terzo maggiore importatore di armi nel 2014-18, sono triplicate (206 per cento) tra il periodo 2009-13 e 2014-18. Anche le importazioni di armi da parte di Israele (354%), Qatar (225%) e Iraq (139%) sono aumentate tra il periodo 2009-13 e 2014-18. Tuttavia, le importazioni di armi in Siria sono diminuite dell’87%.

L’Algeria fa storia a sé e ha rappresentato il 56% delle importazioni africane di armi nel quadriennio 2014-18. I primi cinque importatori di armi nell’Africa subsahariana sono Nigeria, Angola, Sudan, Camerun e Senegal. Insieme, rappresentavano il 56% delle importazioni di armi nella subregione africana. Tra il 2009-13 e il 2014-18 le esportazioni di armi britanniche sono aumentate del 5,9 per cento. Nel 2014-18 il 59% delle esportazioni di armi britanniche è andato in Medio Oriente.

“Le armi provenienti dagli Stati Uniti, dal Regno Unito e dalla Francia sono molto richieste nella regione del Golfo, dove i conflitti e le tensioni sono diffusi”, afferma Pieter D. Wezeman, ricercatore senior di SIPRI per le armi e le spese militari. “La Russia, la Francia e la Germania hanno aumentato drasticamente le vendite di armi all’Egitto negli ultimi cinque anni”.

L’Asia e l’Oceania rimangono comunque i mercati più grandi per le industrie armiere. Gli Stati dell’Asia e dell’Oceania hanno ricevuto il 40% delle importazioni globali di armi nel 2014-18, ma c’è stato un calo del 6,7% rispetto al periodo 2009-2013. I primi cinque importatori di armi nella regione erano India, Australia, Cina, Corea del Sud e Vietnam.

L’Australia è diventata il quarto importatore di armi al mondo nel 2014-18, con un aumento dell’import del 37% rispetto al periodo 2009-2013. Le importazioni di armi indiane sono diminuite del 24% tra il 2009-13 e il 2014-18 (la Russia ha rappresentato il 58% delle sue importazioni nel 2014-18). Le importazioni di armi della Cina sono diminuite, ma nel 2014-2018 è stata ancora il sesto importatore al mondo.

“L’India ha ordinato un gran numero di armi importanti da fornitori stranieri; tuttavia, le consegne sono gravemente ritardate in molti casi. – afferma ancora Wezeman – Al contrario, le importazioni di armi cinesi sono diminuite perché la Cina ha avuto più successo nel progettare e produrre i propri armamenti moderni”.

In tutto il periodo di sviluppo progressista delle economie del Sudamerica, nonostante l’afflusso di ingenti capitali per gli alti prezzi del petrolio di cui paesi come il Venezuela e il Brasile sono grandi esportatori, (tra il 2009-13 e il 2014-18) le importazioni di armi sono invece diminuite negli Stati delle Americhe (-36%). Nello stesso periodo l’import di armi è calato del resto anche in Europa (-13%) e in Africa (-6.5%).

Quanto agli sviluppi più recenti e alle indicazioni che vengono dall’Alleanza Atlantica, i membri della Nato stanno aumentando la spesa militare in risposta alle pressioni del presidente Usa Donald Trump, ma rimangono lontani dai loro obiettivi di spesa. E’ quanto emerge dal rapporto annuale del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, pubblicato il 14 marzo. Sette dei 29 membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico hanno raggiunto l’obiettivo di spendere nella difesa, durante lo scorso anno, almeno il 2 per cento del prodotto interno lordo, rispetto al quattro per cento dell’anno precedente. La Germania, la più grande economia europea, ha speso l’1,23 per cento del Pil in difesa nel 2018, lo stesso livello del 2017. “La Germania dopo anni di tagli alle spese militari ha iniziato ad aumentare, ma mi aspetto di più”, ha detto Stoltenberg in una conferenza stampa.

Nel bilancio federale presentato dall’amministrazione degli Stati Uniti per il 2020, è previsto un totale di 5,9 miliardi di dollari per l’European Deterrence Initiative (Edi), il fondo del Pentagono per sostenere la difesa degli alleati europei, con il quale gli Stati Uniti hanno rafforzato la loro presenza militare in Europa a seguito dell’annessione della Crimea da parte della Russia. Si tratta – scrive la stampa statunitense – di un taglio da 600 milioni di dollari rispetto ai 6,5 miliardi di dollari approvati dal Congresso lo scorso anno. I fondi andranno ad “aumentare la presenza militare statunitense in Europa, a esercitazioni aggiuntive e formazione con alleati e partner, potenziamento delle attrezzature statunitensi in Europa, infrastrutture migliorate per una maggiore prontezza e capacità degli alleati e partner”, si legge nel riassunto della voce di bilancio. La maggior parte di questi finanziamenti andrà all’esercito, sebbene l’Air Force stia investendo in installazioni militari in Islanda (57 milioni di dollari) e Polonia (232 milioni di dollari). Inoltre, 250 milioni di dollari verrebbero destinati espressamente all’assistenza militare all’Ucraina. 

I fondi erano aumentati nei primi due anni dell’amministrazione Trump. In totale il Pentagono ha presentato una richiesta di budget per il 2020 pari a 718 miliardi di dollari, con un aumento di 33 miliardi (circa il 5 per cento) rispetto a quello che il Congresso aveva approvato per l’anno fiscale 2019.

Il budget di 718 miliardi di dollari comprenderebbe un finanziamento di base di 544,5 miliardi di dollari, 9,2 miliardi di dollari per l’emergenza alle frontiere e 164 miliardi di dollari per il finanziamento delle operazioni dei contingenti Usa all’estero, ovvero il “bilancio di guerra”. Inoltre il dipartimento della Difesa ha chiesto al Congresso 14,1 miliardi di dollari da investire nelle operazioni spaziali e per la realizzazione di una forza spaziale mista.

Donald Trump ha annunciato la scorsa estate che intende creare una Space Force, una vera e propria armata spaziale che diventi la sesta branca delle forze armate statunitensi, accanto ad esercito (Army), marina militare (Navy), aeronautica (Air Force), al corpo dei Marine e alla Guardia costiera. Si tratta di un piano ambizioso a cui – ha annunciato il vice presidente Mike Pence – sta lavorando il Pentagono e che dovrebbe vedere la luce entro il 2020.  Anche se per creare la prima nuova forza armata indipendente dal 1947 serve l’approvazione delle due camere parlamentari statunitensi. E sono molti gli scettici e i critici del progetto, anche all’interno dell’amministrazione. Tra questi, l’ex segretario alla difesa James Mattis, costretto alle dimissioni dal presidente ufficialmente per disaccordo sul ritiro delle truppe Usa dalla Siria nel dicembre scorso.

I costi dell’operazione Space Force sono poi considerati da molti parlamentari americani esorbitanti ed eccessivi rispetto ad altre priorità: secondo i calcoli del Pentagono la cifra da spendere ammonterebbe ad almeno 8 miliardi di dollari in cinque anni. Come ha illustrato Pence, i primi passi per arrivare a una vera Us Space Force saranno compiuti già quest’anno, con la creazione entro la fine del 2018 di uno Space Command che avrà risorse dedicate e che sarà guidato da un generale a quattro stelle che dovrà rispondere al Pentagono. Avrà il compito di vigilare sulla difesa dello spazio come il Pacific Command vigilia sulla sicurezza dell’Oceano. Entro il 2020 poi la nascita del nuovo corpo, in attesa di riprendere anche la corsa alla conquista dello spazio ferma dai tempi del programma dello Shuttle della Nasa. La sfida per il primato tecnologico nello spazio, già super affollato di satelliti civili e militari, per esplicita ammissione di Trump, sarà con la Cina, che sullo spazio sta investendo ingenti risorse, come emblematicamente dimostrato dal lancio della prima sonda lunare cinese a dicembre.