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Oltre la crisi, un altro modello di paese

Quale sviluppo e quale politica industriale per superare il degrado italiano? Ne hanno discusso in un seminario all’Università di Pavia Cgil, Sbilanciamoci.info e Valori

Una prima discussione per un programma di sviluppo e di politica economica in vista di un nuovo governo?

Forse. Sicuramente per ora un dibattito capace di mettere insieme interessi e competenze di enti diversi come il sindacato, l’Università di Pavia, la rivista on line Sbilanciamoci.info, la rivista Valori e altri sul tema delle politiche industriali e dello sviluppo per il nostro paese. All’Università di Pavia il 30 maggio si è tenuto un primo seminario per una discussione a 360 gradi che prenda atto dei fallimenti del liberismo e dalle aggravanti specifiche del degrado italiano per arrivare a nuove proposte di sviluppo e di politiche industriali.

Il dibattito è nato su stimolo di Roberto Romano, economista della Cgil, a partire dalla rilevazione di un gap di crescita economica dell’Italia rispetto all’Europa ormai prossimo allo 0,9% annuo. Romano, nel presentare le sue tesi, ha aggiunto tre ulteriori elementi di analisi:

· il gap italiano si è determinato in presenza di investimenti relativi al Pil non inferiori rispetto alle tendenze europee,

· l’efficienza degli investimenti italiani è molto bassa, la quota di output che essi producono è inferiore della metà rispetto ai parametri europei,

· la struttura produttiva italiana, basata sui distretti, sul made in Italy e quindi su uno scarso contenuto tecnologico complessivo, è la strozzatura con cui il paese deve misurarsi.

Reagendo a questi stimoli un primo asse di ragionamenti sullo scenario complessivo è stato tratteggiato da Sergio Ferrari (già vicedirettore Enea) e Vincenzo Comito dell’Univesità di Urbino.

A livello globale gli ultimi anni ci hanno consegnato una crisi enorme da cui il capitalismo non ha idee innovative per fuoriuscire; neppure a sinistra il fallimento del liberismo sta dando luogo a un nuovo grande orizzonte di riflessione e di teoria politica atto ad esempio a rispondere alla sfida del capitalismo finanziario.

A livello italiano la crisi si innesta su elementi specifici peggiorativi, ben precedenti al 2007 e databili almeno a partire dagli anni ’80. È da quel decennio infatti che la produttività del lavoro nel nostro paese si colloca a livelli bassi. I risultati si sono visti: dagli anni ’90 i salari nazionali declinano [1] e l’indice di Gini è in grave peggioramento.

L’Italia paga senza dubbio il nanismo del suo sistema delle imprese [2] che rende strutturalmente scarsi la resa degli investimenti e i livelli di spesa in Ricerca e sviluppo.

Un secondo filone di riflessioni è partito da alcune considerazioni di Andrea Fumagalli dell’Università di Pavia e si è incentrato sul basso livello culturale e formativo del sistema italiano.

Dalla discussione è emerso l’accresciuto ruolo economico della conoscenza. Se oggi le nuove fonti di accumulazione capitalistica si trovano nelle economie legate all’apprendimento, in Italia il forte precariato, accompagnato dall’assenza di paracaduti sociali, impedisce che le persone possano vivere un processo lavorativo basato sull’accumulo progressivo di conoscenze. Il livello di spreco e di dispersione di sapere intellettuale che ne consegue è una delle strozzature strutturali che concorre a produrre il gap italiano in termini di ricerca e di competitività sulle innovazioni tecnologiche.

Ad aggravare il quadro secondo Fumagalli concorre la presenza storica di una classe manageriale italiana dalla cultura retrograda e bigotta cresciuta con il falso mito dell’impresa familiare virtuosa, sviluppatasi grazie all’assistenza statale e fondata sul parametro conservatore della riduzione dei costi (anziché su quello dell’aumento dei ricavi). Il sistema scolastico e universitario anziché contrastare questa tendenza regressiva lo accompagna e lo rafforza, seguendo le indicazioni di una classe dirigente convinta che la formazione scolastica debba adeguarsi a un’offerta di lavori intellettualmente poveri, anziché essere veicolo per uno sviluppo complessivo.

Mario Pianta di Sbilanciamoci e Andrea Di Stefano di Valori hanno sottolineato quindi come la pochezza culturale strutturale del nostro paese in termini di imprenditoria e di formazione si riverberi pesantemente anche sulla cultura amministrativa (con significative eccezioni provenienti dai territori), sulla qualità della governance e sulla qualità del sistema di regole.

Concluso il giro di discussione sulle origini del ritardo nello sviluppo italiano, stimolati dal facilitatore Massimiliano Lepratti di Valori, i presenti sono passati a una prima riflessione sul che fare. Dopo aver sfatato un paio di falsi miti (il ritardo italiano come dovuto alla pesantezza del suo apparato burocratico [3], il livello nazionale come sede privilegiata per i più importanti interventi pubblici [4]) le proposte si sono articolate intorno ad alcuni concetti chiave.

Il primo fra questi è la ricerca di coerenza tra domanda e offerta. A mo’ di esempio gli intervenuti sottolineavano come non abbia molto senso offrire incentivi ai cittadini italiani affinché domandino impianti fotovoltaici se contemporaneamente l’offerta è coperta solo in misura minima da imprese del nostro paese.

Un secondo concetto chiave emerso è quello relativo all’anticipazione della domanda futura. Se il presente e il futuro dell’economia internazionale si basano su processi e prodotti di alta tecnologia [5] occorre pensare ad aiuti pubblici che permettano di superare le barriere in entrata.

Un terzo concetto chiave è legato al cosa produrre. Vi sono infrastrutture quali ad esempio le reti elettriche legate alle energie rinnovabili e le reti telematiche, le reti di trasporto pubblico etc. su cui sarebbe utile concentrare gli sforzi. Nel campo delle produzioni ecocompatibili ci sono ambiti interessanti su cui è possibile anticipare la domanda (ad esempio l’ampio campo dei lubrificanti biologici, o altri settori su cui anche in Italia oggi esistono eccellenze da sviluppare). Un principio complementare a questo è quindi quello dell’inchiesta, ossia della mappatura delle esperienze virtuose.

Un quarto concetto chiave è quello delle modalità di finanziamento delle scelte industriali e di sviluppo: sia i finanziatori pubblici come la Cassa Depositi e Prestiti, sia i fondi di investimento possono essere orientati a supporto dei settori virtuosi (il caso dei fondi d’investimento orientati da Formigoni, al di là del contenuto specifico, è un esempio metodologico interessante). L’economista Nino Galloni notava come più in generale una politica relativa ai finanziamenti dovrebbe porsi l’obiettivo di rendere l’investimento sui beni industriali e sull’economia reale più conveniente rispetto agli investimenti speculativi.

Un quinto concetto chiave è quello relativo alla regolazione. La politica di sviluppo non è fatta solo di investimenti diretti e/o di incentivi, ma anche di norme, di fissazione di standard, di coordinamento di soggetti che altrimenti procederebbero in modo autoreferenziale (problema non indifferente anche nel campo dell’economia verde). Questo tipo di politiche ha il vantaggio aggiuntivo di non necessitare di grandi spese.

Da ultimo la discussione ha prodotto due altri concetti non di natura economica in senso stretto, sebbene le analisi proposte nei paragrafi precedenti ne richiamino l’importanza strategica. Da un lato vi è la necessità di politiche della formazione e della ricerca che compensino le gravi lacune del nostro paese in termini di cultura manageriale, cultura finanziaria, conoscenza diffusa, ricerca e sviluppo; è evidente che un compito simile può essere affrontato solo a livello pubblico. Dall’altro lato si profila la necessità di un sistema di welfare capace di preservare il processo di conoscenza cumulativa che le persone rischiano di disperdere per i continui cambiamenti lavorativi dovuti al precariato. Le proposte di reddito di cittadinanza vanno in questa direzione.

I primi tre concetti chiave disegnano una scelta di campo netta: per dare forza alla discussione sembra necessario aprire un percorso di ricerca e di proposta su cosa concretamente significhino politiche industriali per la coerenza tra domanda e offerta, su quali scelte strutturali portino all’anticipazione della domanda, e su quali siano le risposte al grande interrogativo relativo al cosa produrre. A partire dall’approfondimento di questi tre concetti e della loro articolazione con i problemi delle regole, del welfare, del finanziamento (e dei vincoli di bilancio strutturali!) si potrebbero cominciare a tratteggiare i primi lineamenti per una diversa proposta di politica industriale.

Quest’autunno la seconda tappa del dibattito proverà a focalizzarsi su questa agenda di ricerca e di approfondimento.

[1] Secondo i dati forniti da Comito oggi un operaio tedesco riceve circa € 2.650 mensili, un operaio italiano solo € 1200 ed è quasi incalzato addirittura dai lavoratori di alcuni settori produttivi cinesi che si collocano a $ 700)

[2] Sempre Comito ricorda come solo 8 fra esse hanno grandi dimensioni (e allargando i criteri non si va comunque oltre le 25)

[3] Comito ricorda come i pubblici dipendenti nel nostro paese siano 3,8 milioni a fronte dei 5 milioni di dipendenti in Paesi di dimensioni simili e considerati più efficienti quali la Francia e la Gran Bretagna.

[4] Oggi le dinamiche economiche sono tali per cui diverse scelte (ad esempio quelle relative al futuro industriale dell’automobile) sono possibili solo a livello europeo, pur con tutti i limiti strutturali della costruzione Ue (assenza di politica fiscale…)

[5] Romano osservava come la quota dell’alta tecnologia sul commercio internazionale sia passata in vent’anni dal 15 al 50%, mentre l’Italia è rimasta sostanzialmente ferma.