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La locomotiva cinese rallenta?

Secondo alcune stime l’economia cinese è in fase di rallentamento. In realtà per il momento il Pil è in crescita di oltre il 5%. C’è senz’altro un cambio di strategia in atto e si presentano alcuni problemi, soprattutto sociali, che la dirigenza cinese è chiamata ad affrontare.

Premessa

Da qualche tempo i media occidentali pubblicano articoli molto critici sull’attuale situazione economica cinese, prevedendo prospettive molto negative per il Paese asiatico. Bisogna a questo proposito ricordare che ormai da decenni la pubblicistica del Nord del mondo ci ha abituati a vedere sfornare in grande abbondanza previsioni catastrofiche sul Dragone, previsioni poi regolarmente smentite dai fatti.

In realtà nel 2023 il Pil cinese è cresciuto del 5,2% e le stime per il 2024 parlano di un 5,0%. I dati a consuntivo del primi trimestre sembrano confermare la plausibilità di tale valutazione; in effetti il Pil è cresciuto del 5,3%. Certo tali cifre appaiono inferiori a quelle cui Pechino ci aveva abituati in passato, ma, oltre a ricordare che questi dati sono inferiori soltanto a quelli dell’India, va anche considerato che, vista la dimensione cui è ormai giunta l’economia cinese, ottenere tassi di crescita superiori appare un’impresa assai ardua. Certamente, per altro verso, la Cina si trova oggi di fronte ad alcuni problemi di peso mentre sta cercando di cambiare alcuni aspetti del suo modello di sviluppo. 

Nel testo che segue cercheremo di fare il punto sulla situazione attuale, avvalendoci anche di molte informazioni tratte da diversi media internazionali, con particolare riferimento ad alcuni articoli apparsi di recente su The Economist.

Le nuove forze produttive

L’economia cinese sta cercando di cambiare, almeno in parte, le sue strategie di crescita. Di fronte a problemi interni (si veda meglio al paragrafo successivo), al rallentamento degli scambi internazionali e all’ostilità crescente dei Paesi occidentali, di fronte anche allo sviluppo impetuoso delle nuove tecnologie, il gruppo dirigente cinese ha messo a punto linee di sviluppo abbastanza nuove.

Per quanto riguarda tali piani (The Economist, 2024, a), Xi Jinping pone l’accento sullo sviluppo delle nuove forze produttive, attraverso l’applicazione ancora più forte della scienza e della tecnologia alla produzione.

In altre parole, si tratta di una strategia di sviluppo centrata sull’innovazione e sull’innalzamento della qualità della crescita; Pechino coltiva l’obbiettivo di essere leader nella nuova rivoluzione industriale, compreso il raggiungimento dell’autosufficienza su alcune rilevanti tecnologie finora controllate dall’estero. Così per il 2024 si prevede di aumentare il budget per la scienza e la tecnologia del 10%, una percentuale molto più alta del tasso previsto di sviluppo dell’economia.

Si tratta di uno sforzo molto impegnativo anche dal punto di vista finanziario, che si troverà di fronte a possibili ostacoli. Da una parte la Cina ha bloccato qualche tempo fa lo sviluppo di alcune sue grandi imprese tecnologiche (a partire da Alibaba) che erano diventate troppo potenti, riaffermando così il primato della politica sull’economia; in questo modo però ha spaventato diversi altri gruppi e gli stessi investitori. Bisogna considerare che una parte importante degli investimenti in tecnologie era assicurata in passato a livello regionale; ma ora, anche per la crisi del settore immobiliare e per l’alto livello dell’indebitamento, le risorse disponibili a livello locale appaiono più scarse. 

Più in generale le opinioni sul possibile successo del piano sono divise: mentre l’equipe di The Economist individua molti punti deboli in questa strategia (The Economist, 2024, a), Martin Wolf – il più autorevole giornalista del Financial Times – è piuttosto ottimista al riguardo (Wolf, 2024), sorreggendo le sue analisi anche su un recente testo sulle prospettive del Paese (Doku Li, 2024). 

Bisogna aggiungere che ci sono altri obiettivi importanti che l’attuale gruppo dirigente mira a perseguire. Tra questi, quello di migliorare lo Stato sociale, la protezione dell’ambiente, lo sviluppo culturale e il rafforzamento del controllo del partito (Wolf, 2024).

I problemi

La lista dei problemi che le due precedenti gestioni, piuttosto immobilistiche, avevano lasciato in eredità alla presidenza di Xi era abbastanza chiara; tra questi problemi, una corruzione diffusa, diseguaglianze crescenti, rilevanti danni ambientali dello sviluppo industriale. C’è da ricordare che la nuova presidenza si è impegnata ad affrontare questi problemi. 

La lotta alla corruzione ha ottenuto importanti risultati, anche se c’è da segnalare come richieda ancora sforzi impegnativi. Per quanto riguarda il secondo tema – la crescita continua nel tempo dei livelli di diseguaglianza – sette-otto anni fa la curva sembrava aver raggiunto un picco e da allora in effetti ha cominciato a decrescere di anno in anno, sia pure lentamente. Da ricordare in tale quadro la lotta ingaggiata diversi anni fa per debellare la povertà assoluta, lotta apparentemente conclusa in maniera positiva. Altri progetti stanno per essere varati. Sui danni ambientali rimandiamo ad un altro paragrafo in questo stesso testo.

Ora la lista dei problemi principali cui si trova di fronte la dirigenza cinese appare nella sostanza diversa: spiccano soprattutto la crisi immobiliare, il livello eccessivo dell’indebitamento (e però nel contempo d’altra dei risparmi), l’invecchiamento della popolazione e infine l’ostilità occidentale, con ciò che comporta e cioè la difficoltà nelle esportazioni di beni e servizi e i freni all’importazione di tecnologia (Wolf, 2024). Si potrebbero aggiungere alla lista, i consumi che al momento si dimostrano piuttosto fiacchi. 

Per quanto riguarda la crisi immobiliare, i grandi gruppi operanti nel settore, dopo la grande attività pluridecennale nel portare avanti un colossale piano abitativo finalizzato ad alloggiare centinaia di milioni di persone che si spostavano dalla campagna alle città, una volta che tale grande obiettivo si è ridimensionato, si sono trovati di fronte ad un mercato in difficoltà e sono entrati in crisi. Di fronte agli allarmismi occidentali, il governo non sembra aver dato grande enfasi alla crisi del settore e sembra puntare ad un soluzione graduale del problema, come in effetti sta accadendo, tra alti e bassi, mentre ne soffrono le molte persone che si sono trovate invischiate nella vicenda.

Sull’invecchiamento della popolazione, di fronte agli allarmismi occidentali rispetto alla tendenziale riduzione di persone occupabili, il Paese può fare molto per frenarne le conseguenze (The Economist, 2024, b). Può alzare l’età pensionistica, che è molto bassa (60 anni per gli uomini e 50-55 per le donne); può aiutare la crescita dell’istruzione dei giovani, crescita che migliora in generale la produttività, mentre potrà dare una mano anche una ulteriore riduzione della popolazione agricola. Infine potrà giovare la crescente introduzione di macchine nelle attività produttive. Già oggi in Cina ogni anno viene installato nella produzione circa il 50% del totale mondiale di robot.

Per finire veniamo alla questione dei consumi. In Cina i consumi sono all’incirca il 53% del Pil, contro il 72% dei Paesi sviluppati (The Economist, 2024, c). C’è quindi un ampio spazio per la crescita, ma la crisi dell’immobiliare e quella del covid hanno fiaccato un po’ il morale dei cinesi, frenato dalle non eccezionale situazione della sanità e del sistema pensionistico, oltre che dal fatto che i lavoratori migranti, nonostante i deboli tentativi di riforma del sistema degli hoku, sono ancora oggi ostacolati nell’accesso a scuole e ospedali nelle città dove lavorano. Tutto ciò indica che ci sono ampi spazi per intervenire positivamente nella situazione.   

Alla fine si tratta di problemi impegnativi, ma gestibili (Wolf, 2024).

La tecnologia

Una ricerca messa a punto da un centro studi australiano, l’Australian Policy Research Institute, sponsorizzata dal Dipartimento di Stato statunitense, che, come abbiamo ricordato in un articolo pubblicato qualche tempo fa su questo stesso sito, ha cercato di fare il punto sulla situazione delle alte tecnologie. Esaminando in particolare 44 settori produttivi avanzati, tale ricerca ha trovato che in 37 settori è la Cina a guidare la gara mondiale mentre nei restanti 7 settori appaiono in testa gli Stati Uniti, mentre l’Europa appare tagliata fuori dalla gara. 

Ora, appare plausibile che la ricerca sia stata un po’ “orientata” dallo stesso Dipartimento di Stato a favore della Cina, con l’obiettivo di ottenere più fondi dal Parlamento Usa con la scusa del pericolo asiatico, ma appare indubitabile che la Cina abbia fatto passi da gigante nel settore delle nuove tecnologie e che la lotta tra le due superpotenze si svolga ormai sostanzialmente ad armi pari. E’ noto che la Cina appare ancora indietro in alcuni settori chiave come i chip e l’aereonautica civile, mentre in quello dell’IA sembra che gli Stati Uniti, almeno per il momento, godano di un vantaggio, peraltro non incolmabile, mentre gli stessi gli Stati Uniti stanno facendo di tutto per bloccare o almeno frenare i progressi cinesi, che comunque vanno avanti abbastanza rapidamente. Così nei primi tre mesi del 2024 la produzione di chip cinesi è cresciuta del 40%.

Gli investimenti in ricerca della Cina hanno raggiunto nel 2023 i 458 miliardi di dollari, avvicinandosi fortemente a quelli degli Stati Uniti. E’ noto, per altro verso, che il Paese del Dragone è ormai da qualche tempo in testa alla classifiche mondiali sia per quanto riguarda il numero delle domande di brevetti depositato ogni anno, sia per il numero di articoli scientifici pubblicati sulle principali riviste internazionali. 

Gli stessi Stati Uniti, per contrastare l’avanzata del Paese asiatico, cercano di unire a loro vantaggio le forze nel campo tecnologico con tutti i Paesi “amici” e hanno obbligato Taiwan e Corea del Sud, i due paesi più avanzati nella produzione dei chip, ad aprire delle fabbriche negli Stati Uniti che incorporino le tecnologie più nuove nel campo delle unità centrali e delle memorie, mentre obbligano altri Paesi avanzati, come l’Olanda e il Giappone, a non vendere le macchine di produzione più aggiornate sempre nel campo dei chip. 

Nel frattempo le imprese cinesi, nonostante tutte le limitazioni Usa, sono riuscite, con grandi prodezze tecnologiche, a produrre chip a 7 nanometri, mentre stanno per arrivare a farlo anche per quelli a 5 nanometri e si preparano ad andare avanti fino a quelli a 3 nanometri. 

L’ecologia

La produzione industriale cinese è ormai pari a quella di Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Gran Bretagna, Corea del Sud messe insieme. 

In tale quadro non dovrebbe sorprendere il forte primato raggiunto nelle energie verdi (Martin, 2024). Pechino produce oggi l’80% dei pannelli fotovoltaici (il cui costo è pari al 50% di quelli europei), così come il 60% delle turbine eoliche (costo inferiore del 60%) e delle auto elettriche (costi inferiori del 30%). D’altro canto, gli investimenti cinesi nelle energie rinnovabili sono pari, annualmente, all’incirca alla metà di quelli mondiali. Gli Stati Uniti e l’UE stanno cercando di mettere freni all’espansione cinese nel settore dell’ecologia sotto i più vari aspetti (le forti sovvenzioni statali alle imprese, l’utilizzo del lavoro forzato nello Xinjang, la sovra-capacità produttiva delle imprese cinesi, lo spionaggio industriale, barriere ambientali, la mancata reciprocità di trattamento, il dumping, ecc.). Nel frattempo i produttori del paese asiatico cercano di sviluppare le loro attività nei Paesi emergenti. Così, ad esempio, un continente come l’America Latina ha una crescente dipendenza dalla tecnologia verde cinese, mentre si stringono sempre più i rapporti con i Paesi del Medio Oriente, in questo come in altri campi. 

Si può registrare una apparente contraddizione nel disegno ecologico della Cina. Gli investimenti nelle centrali a carbone sono i più importanti a livello mondiale. Una spiegazione sta nel fatto che la Cina cerca di premunirsi contro possibili interruzioni dei flussi di petrolio e gas in caso di possibili ostilità future da parte degli Stati Uniti. In effetti le nuove centrali a carbone sono molto sottoutilizzate.

D’altro canto, Pechino sta rispettando i suoi programmi di riduzione dell’inquinamento ambientale. Anzi, aveva promesso di raggiungere il picco delle emissioni inquinanti nel 2030, ma è possibile che raggiungerà questo obiettivo già quest’anno o al massimo l’anno prossimo. Anche l’obiettivo della neutralità carbonica, fissato nei documenti ufficiali al 2060, potrebbe essere raggiunto prima. E l’Europa? E gli Stati Uniti?

I rapporti con l’Occidente

Sia Trump che Biden hanno cercato di alzare barriere tariffarie e di altro tipo contro le esportazioni cinesi, predicando l’acquisto dei prodotti da paesi più “amichevoli”. Ma i risultati non premiano tanti sforzi, nonostante le cifre ufficiali sembrino confermare una riduzione importante dell’import dalla Cina. Ci sono molte spiegazioni a questa apparente contraddizione. Intanto, mentre le esportazioni dalla Cina diminuivano, aumentavano invece fortemente quelle di altri paesi quali il Vietnam, l’India, il Messico e una parte di queste importazioni sono in realtà di prodotti contenenti semilavorati cinesi. Inoltre gli importatori statunitensi tendono a sottostimare il volume dei prodotti acquistati dalla Cina nelle categorie coperte dalle tariffe (Martin, 2024); (The Economist, 2024, d). 

Gli Stati Uniti tendono a bloccare o a mettere dazi su quasi tutti i prodotti cinesi. Ma l’ostilità bipartizan della politica Usa nei confronti della Cina si scontra con la disponibilità di molti grandi gruppi industriali statunitensi a fare affari con il Paese asiatico, che è ormai il primo mercato mondiale per moltissimi prodotti, e pertanto è molto difficile sostituirlo per quanto riguarda la scala, l’efficienza, la velocità e l’innovazione delle sue produzioni. 

La politica di Bruxelles appare prona ai voleri di Washington, ma l’atteggiamento europeo verso la Cina è, almeno in parte, meno ostile. In particolare ci troviamo di fronte alla dichiarata volontà tedesca di aumentare, e non rallentare, i rapporti economici con il Paese del Dragone.

Da ricordare, inoltre, che per molti decenni Washington ha predicato con convinzione la dottrina del libero scambio e della libertà dei mercati, in diversi casi addirittura imponendola a vari Paesi. Ora che gli altri hanno imparato a giocare meglio, è difficile dire che il gioco non vale più.  

Alla fine, una qualche forma di riduzione dei rapporti economici, in particolare nei settori ad alta tecnologia, andrà avanti tra la Cina e l’Occidente, ma i legami economici tra i due blocchi sono così forti che appare scontato che le relazioni rimarranno abbastanza strette nel tempo (Escande, 2024). 

In ogni caso, come abbiamo detto, il Paese asiatico, di fronte alla diminuzione dei legami con l’Occidente, sta sviluppando fortemente i rapporti economici con i Paesi emergenti.

La Cina e i paesi emergenti

L’insieme dei paesi con economie emergenti probabilmente ha già superato il livello del 60% del Pil mondiale, almeno seguendo il criterio della parità dei poteri di acquisto. E questi Paesi che un tempo venivano definiti “in via di sviluppo” tendono a chiedere in maniera sempre più forte la messa in opera di un nuovo ordine globale, che in effetti è in via di costruzione anche se in maniera confusa, contraddittoria, complicata, con forti resistenze da parte degli Stati Uniti e, in minore misura, da parte dei Paesi europei. Questo nuovo ordine non dovrebbe essere dominato dalla Cina, sia per la riluttanza di diversi Paesi ad accettare tale ipotesi, sia in ragione delle resistenze della stessa Cina a ricoprire un simile ruolo. Sembra quindi si vada configurando un nuovo ordine di tipo pluralista.

In modo embrionale si stanno muovendo in questo senso i Brics, organizzazione cui aderiscono un decina di Paesi del Sud del mondo e alla quale vogliono aderire molti altri. I paesi emergenti non sono certamente uniti su diversi fronti, ma sono d’accordo sulla necessità di cambiare i rapporti di forza a livello mondiale e di acquisire molto maggiori poteri di decisione nell’ambito globale.

Intorno all’organizzazione e, in misura minore alla Sco, nonché intorno alla stessa Cina, si vanno costituendo, sia pure con qualche difficoltà, organismi finanziari che dovrebbero con il tempo superare come importanza quelli tradizionali di stampo occidentale. Del resto, i grandi gruppi cinesi hanno ormai assunto dimensioni e importanza rilevantissime nel settore dei finanziamenti internazionali.

Nel gruppo dei Brics ferve in particolare la discussione su come coordinare un’uscita progressiva dal dollaro, punto di forza fondamentale della potenza Usa. I singoli paesi emergenti stanno portando avanti diverse iniziative che vanno in tale senso. La riduzione del peso della valuta statunitense appare un processo lungo e difficile, che però sembrerebbe andare avanti con determinazione.

Tra il 2000 e il 2021 la Cina ha finanziato nel mondo emergente più di 20.000 progetti infrastrutturali in 165 Paesi, molti dei quali sotto l’egida della BRI, con risorse di un valore di circa 1,3 trilioni di dollari. La Cina è da tempo la più importante fonte internazionale di finanziamento per lo sviluppo (The Economist, 2024, e). 

Il sistema cinese ha mostrato qualche problema; nel periodo del covid ha visto un rallentamento della macchina, ma si va riprendendo e Pechino sta apportando modifiche che sembrano migliorative (The Economist, f). Si evita, cioè, di prestare soldi a Paesi già fortemente indebitati con la Cina, mentre ci si spinge verso quelli che presentano una buona probabilità di restituzione, o che per ragioni diplomatiche e militare interessano di più. Alcuni progetti sono partiti in tandem con i paesi del Golfo e dell’America Latina, con il concorso di produttori locali, pubblici e privati. Si registra anche qualche mutamento geografico, con una minore enfasi sull’Africa e maggiore interesse sui Paesi più vicini, su quelli che sono fonti di materie prime e su quelli dove le imprese cinesi possono schivare le tariffe occidentali (The Economist, 2024, f).

Conclusioni

I problemi che deve affrontare l’economia cinese sono certamente rilevanti, ma sembrano gestibili. Del resto, negli ultimi decenni il Paese ha saputo superare difficoltà anche più complesse. E c’è da ricordare che “la forza di 1,4 miliardi di persone che aspirano ad una vita migliore è estremamente potente” (Wolf, 2024). Comunque l’economia cresce e migliora la qualità del suo sviluppo. 

Chi scrive auspicherebbe che il gruppo dirigente di Pechino cerchi di migliorare in particolare la situazione sociale del Paese, sino a ieri sacrificata, dal settore della sanità al livello delle pensioni, nonché alla regolarizzazione della situazione degli hoku. Preoccupa l’ostilità tout azimut degli Stati Uniti e il loro rifiuto di riconoscere la realtà dei fatti e lasciare una spazio adeguato al Paese asiatico e più in generale alle nuove realtà dei Paesi emergenti. Una ostilità che potrebbe portare a conseguenze molto negative per il mondo. 

Testi citati nell’articolo

-Doku Li D., China’s world view, Norton, New York, 2024

-Escande P., Les risques de la démondialisation, Le Monde, 11 aprile 2024 

-Martin A., Les ressorts d’une montée en puissance, Alternatives Economiques, gennaio 2024

The Economist, Hype and hyperopia, 6 aprile 2024, a

The Economist, An ageing autocracy, 13 aprile 2024, b

The Economist, Spend more, please, 10 febbraio 2024, c

The Economist, Still Coupled, 2 marzo 2024, d

The Economist, Who’s the big boss of the global south?, 13 aprile 2024, e

The Economist, Changing cash flows, 25 febbraio 2024, f

-Wolf M., The future of « communist capitalism «  in China, www.ft.com, 12 marzo 2024