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La lezione di Genova per imprenditori e Stato

La tragedia del ponte Morandi, al netto dell’accertamento delle responsabilità di Autrostrade, deve servire per ripensare i rapporti tra Stato e mercato perché è evidente che le regole fin qui adottate portano a deresponsabilizzazione dei controllori e a posizioni di rendita.

Il crollo a Genova del ponte Morandi suscita problematiche di vario ordine, a cominciare da quella più urgente di come procedere – in termini tecnici e amministrativi – per la sua ricostruzione e per riorganizzare i collegamenti nell’intera area. Nel dibattito stanno emergendo, ma in modo per lo più incidentale, anche riferimenti alla questione più generale di quali dovrebbero essere i rapporti tra le istituzioni pubbliche e gli operatori di mercato (incluse le imprese a partecipazione pubblica). Improvvisamente, quasi per caso, si torna a parlare della questione stato-mercato, a distanza di dieci anni dalla più grande bancarotta nella storia degli USA (il 15 settembre 2008 fallisce la banca d’affari Lehman Brothers), che indica l’inizio “ufficiale” della Grande Recessione in tutti i paesi capitalisticamente avanzati e, dopo quella degli Anni Trenta del secolo scorso, conferma l’illusorietà che i mercati possano superare i propri limiti strutturali senza una sostanziale interazione con le istituzioni pubbliche.

Immediatamente dopo il 15 settembre 2008, sembrò inevitabile una seria riconsiderazione dei rapporti stato-mercato che erano venuti a determinarsi nel trentennio neoliberista sfociato nella nuova crisi. Specialmente dal mondo dei mercati, arrivò prima l’invocazione e poi il plauso per l’intervento pubblico a tutti i livelli: ingentissima disponibilità di liquidità da parte delle banche centrali, notevoli sostegni governativi a imprese private fino a misure di nazionalizzazione sia nel settore finanziario che in quello produttivo, più stringenti regolamentazioni dell’economia.

Ma appena i bilanci delle imprese private furono in qualche misura riassestati scaricandone gli elevatissimi costi sui bilanci pubblici, il risanamento di questi ultimi a carico dei cittadini (con l’aumento della pressione fiscale e il contenimento dei beni e servizi pubblici) si affermò come il punto di riferimento della politica economica (l’immaginifica “austerità espansiva”), in continuità con la visione economica di limitazione del ruolo pubblico e di autonomizzazione dei mercati che aveva portato alla crisi.

Eppure, nella valutazione dei rapporti stato-mercato, le due Grandi crisi non possono essere viste come due vicende episodiche nell’ambito di uno sviluppo economico-sociale garantito solo dai mercati. La maggior parte degli ottant’anni tra le due crisi è stata caratterizzata da un forte ruolo pubblico nell’economia: durante la “grande depressione” e nel successivo periodo bellico, poi nella ricostruzione e nel trentennio della golden age.

Il ritorno ad una netta autonomia dei mercati è iniziato solo alla fine degli Anni Settanta, accentuandosi fino al primo decennio del nuovo secolo; ma di pari passo si sono ricostituite anche le cause della crisi esplosa nel 2008. Il passaggio negli Anni Ottanta dal keynesismo al neoliberismo ha molteplici motivazioni, non da ultimo i problemi manifestati dall’intervento pubblico dovuti, tuttavia, non tanto a suoi limiti congeniti quanto alla pratica opportunistica dei politici e dei burocrati chiamati a gestirlo.

Ad esempio, in presenza di monopoli naturali e interessi strategici – come quelli che si determinano nelle produzioni a rete (collegamenti stradali, trasmissioni informatiche ed energetiche, ecc) o di beni e servizi la cui produzione e consumo implica economie di scala e/o riguarda bisogni sociali rilevanti (sanità, istruzione, previdenza) – è analiticamente provata la maggiore potenziale efficienza ed efficacia della gestione (non solo la regolazione) pubblica.

Se non si cede all’equivoco interessato di confondere il bambino (massimizzare il benessere della collettività e non di sue parti minoritarie) con l’acqua sporca (l’opportunismo di chi è chiamato a realizzarlo), il compito della politica dovrebbe essere quello di impedire e comunque rimuovere la seconda, mirando allo sviluppo del primo. Il problema che abbiamo specialmente in Italia è la difficoltà a contrastare le pratiche opportunistiche che nell’ultimo quarto di secolo sono cresciute fino a creare una sfiducia nella politica che è ben comprensibile, ma è anche costosa in termini d’efficienza, pericolosa per la democrazia e niente affatto risolutiva del clima di malaffare e del connesso degrado civile.

Gli aspetti anche contrattuali emersi dopo il dramma di Genova mostra che l’incongruo trasferimento di funzioni pubbliche ai privati spinge alla deresponsabilizzazione delle istituzioni, alla ricerca collusiva di lucrose nicchie di rendita da parte degli operatori di mercato e ad un più generale indebolimento della capacità imprenditoriale che si manifesta anche nei settori dove il mercato e l’iniziativa privata dovrebbero svolgere il loro ruolo propulsivo.

Le vicende del ponte Morandi richiedono interventi immediati per fronteggiare le necessità urgenti, ma anche queste misure dovrebbero essere inquadrate in una più generale revisione dei rapporti tra istituzioni e mercati la cui involuzione nell’ultimo trentennio ha grandi responsabilità nel declino economico e civile del nostro paese.