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La finanza globale balla sul Titanic

Malato da tempo, il sistema finanziario mondiale va incontro al baratro, insensibile agli allarmi e alla lezione della crisi del 2007. E l’epidemia di Covid è sul punto di assestare il colpo finale. Come salvare la finanza da se stessa, riconducendola al servizio dell’economia, della società, dell’ambiente.

La finanza è malata da tempo. La crisi iniziata nel 2007, vent’anni dopo il Gordon Gekko di Oliver Stone (o, se preferite, 21 dopo il John Gray di Adrian Lyne), non ha prodotto significativi cambiamenti. Il Wall Street Journal, non Sbilanciamoci!, ha dedicato nel 2018 una efficace infografica ai problemi irrisolti a un decennio dalla grande crisi: dalla concentrazione del mercato alla remunerazione dei manager, dalle cosiddette porte girevoli (tra banche e vigilanza, tra vigilanza e banche) alla finanziarizzazione sempre più profonda dell’economia reale (ad esempio il mercato Usa degli immobili in affitto).

I derivati in grande spolvero

Un ambito che non è stato sostanzialmente toccato dalle pur intense e profonde attività di regolamentazione del decennio appena trascorso è quello degli strumenti finanziari derivati: opzioni, futures, swap e altri strumenti sintetici che non rappresentano nulla di reale (merci o servizi) ma solo scommesse sui loro andamenti sottostanti.

Secondo le statistiche regolarmente aggiornate dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (la banca centrale delle banche centrali, da ora in poi BRI), poco è cambiato nell’ammontare complessivo di investimenti in strumenti derivati che circolano a livello globale, dalla crisi del 2008 a oggi.

A giugno 2019 l’esposizione complessiva nozionale in derivati era pari a 120 trilioni di dollari, con un ammontare medio di scambi giornalieri pari a 14 trilioni. Il che significa che, con stima prudente, che non tiene conto dei pur numerosi scambi infragiornalieri (ossia di transazioni che si aprono e chiudono nell’arco della stessa giornata), ogni anno in media si muovono solo sui derivati, a livello mondiale, almeno 3mila trilioni di dollari (ossia 3 milioni di miliardi di dollari), una cifra pari a circa 50 volte il Prodotto interno lordo globale.

Questi numeri hanno profonde implicazioni dirette e indirette sull’economia reale. Distolgono ingenti risorse a possibili (e auspicabili) investimenti nella produzione di beni e servizi, per l’occupazione, la riconversione ecologica, le infrastrutture ed il welfare. E minano alla radice la capacità di tenuta del sistema finanziario, come certifica un recente studio della stessa BRI, l’istituzione che deve vigilare sulla stabilità finanziaria mondiale.

Gli scambi ad alta frequenza, la piaga peggiore

Nel mercato finanziario i derivati rappresentano un problema strutturale “di prodotto”, le cui implicazioni negative sono potenziate e accelerate dal cruciale problema “di processo” rappresentato dagli scambi ad alta frequenza, o High Frequency Trading (HFT).

Oggi una percentuale tra il 50% e il 60% delle transazioni nei mercati finanziari (stima molto prudente) ha caratteristica di alta frequenza, cioè operazioni che si aprono e chiudono in un arco temporale inferiore ai 5 minuti (più o meno, non ci sono definizioni ufficiali). Secondo un recente studio della Banca Centrale Europea (BCE) ciò peggiora in modo significativo la liquidità dei mercati, incrementandone la volatilità di un valore aggiuntivo che oscilla dal 9 al 14% (al giorno).

Anche perché algoritmi e automazioni con cui gli operatori si fanno concorrenza tendono ad assomigliarsi, per cui spesso gli operatori HFT si trovano sullo stesso lato del mercato (tutti a vendere o tutti ad acquistare). La BCE dimostra che ciò avviene nel 70% dei casi, in media, e tale competizione ha un impatto sui prezzi pari al 23% (al giorno). Di fatto la sola presenza di questi operatori e la forte correlazione tra le loro strategie conduce dunque a “bolle speculative” (con relative esplosioni) per un valore pari a un quarto del valore dei listini (giornalieri).

In generale, chiosa lo studio della BCE, gli scambi ad alta frequenza deteriorano la qualità dei mercati finanziari. Lo stesso ha dimostrato un’analisi della Consob per il mercato italiano.

I comportamenti delle banche sono lontani dalla sostenibilità

Poco prima della crisi, era giunta al culmine la retorica delle grandi banche sostenibili. Sulla scia dell’emergenza climatica, tutti i player globali, senza un filo di pudore, si sono schierati (a parole) dalla parte delle “banche di impatto”, “banche sostenibili”, della “finanza sociale”, eccetera.

Ma i dati mostrano qualcosa di profondamente diverso: secondo un’analisi della rete internazionale Banktrack, nei tre anni trascorsi dall’adozione degli Accordi di Parigi per il clima (2016-2018), 33 tra i maggiori gruppi bancari mondiali hanno fornito fin qui 1.900 miliardi di dollari di prestiti al settore dei fossili: una cifra che continua a crescere ogni anno. Ben 600 miliardi sono andati alle 100 imprese che in modo più aggressivo stanno ampliando le attività legate ai combustibili fossili. Di questi 33 gruppi bancari la metà, ovvero 16, sono tra i firmatari dei “Principles for Responsible Banking” recentemente proposti dall’ONU.

Queste banche sono le stesse che gestiscono la gran parte degli scambi globali sui derivati e che affollano il mercato degli scambi ad alta frequenza.

E nulla si sta facendo per favorire la cosiddetta “biodiversità bancaria”. Anzi. Negli ultimi venti anni in Italia il numero di banche è passato da poco meno di 1.000 a circa 500. Tra esse sono comprese le circa 300 Bcc che una riforma assai discutibile ha obbligato a unirsi in soli 3 gruppi bancari, portando così in due decenni il mercato da mille “centri di governo” della finanza nazionale a soli duecento: un crollo dell’80% degli attori economici che in qualunque settore sarebbe visto con allarme. Decenni di letteratura economica (con annessi premi Nobel) sui problemi di agency e moral hazard si sono dovuti piegare alla vulgata neoliberista.

Nel contempo, l’onda lunga della crisi ha indotto quasi tutte le banche a ridurre la propria presenza nei territori. In soli dieci anni, sono circa 500 i comuni che hanno perso completamente sportelli bancari. Le tecnologie solo in parte mitigano il fattore di esclusione che ne può determinare, favorendo l’accesso ai servizi online o al telefono.

Il credit crunch non è mai veramente finito e il mercato del credito sembra ormai convivere stabilmente con forme di razionamento della propria offerta, soprattutto verso le micro e piccole imprese e nei confronti di alcune categorie sociali più vulnerabili (che sono peraltro in aumento).

Sono effetti inevitabili, strutturali, degli ampi cambiamenti in corso sulla “forma banca”: dalla iper-pressione sul capitale – che certo non aiuta scelte imprenditoriali agili – alla forte riduzione del numero di player, dalla liquidità iniettata massivamente sugli intermediari, che abbatte i tassi di interesse, alla assenza di politiche fiscali coerenti e pertanto incapaci di generare positivi stimoli all’economia reale. Il tutto determina intermediari ingessati, seduti su rendite di posizione, con l’attenzione progressivamente spostata dal credito ad altre forme di guadagno (trading, assicurazioni, investimenti, servizi…).

La malattia della finanza, prima della crisi, viene da qui. Sostanziale incapacità di servire l’economia reale.

Caso emblematico è quello della previdenza complementare italiana. Oggi i 140 miliardi di euro gestiti per integrare le pensioni pubbliche dei lavoratori hanno un ridottissimo impatto su economia reale e occupazione: di 100 euro gestiti, solo 24 restano nel nostro territorio e solo 3 vanno a finanziare imprese e attività produttive. Non solo. Il peso del patrimonio previdenziale gestito secondo criteri, anche interpretati in senso lasco, di finanza responsabile non supera il 23%. E di questi, la quota veramente destinata alle imprese, dunque dedicata a orientare e motivare i cambiamenti nelle scelte produttive e organizzative delle aziende private, è molto ridotta: solo lo 0,6% verso le imprese italiane, l’8,7% verso quelle estere.

In estrema sintesi, meno di 1 euro ogni 10 investiti dai fondi pensione italiani è utilizzato per orientare o favorire un processo di riconversione (sociale, ambientale, organizzativa) del mondo produttivo, o per sostenerne le eccellenze.

Un vaccino, finalmente, per la finanza globale

Come sempre, dalla crisi possono arrivare opportunità. Fondamentale l’approccio finalmente nuovo che si sta ponendo sulle modalità di gestione delle finanze pubbliche. Purtroppo non ancora accompagnato da un altrettanto rivoluzionario approccio alla finanza privata.

Il tanto discusso articolo di Mario Draghi sintetizza bene questa asimmetria di pensiero, che rischia di tradursi in insidiosa asimmetria di politiche pubbliche. Mentre, da una parte, Draghi sferza i governi perché escano dagli indugi e adottino politiche fiscali coraggiose, dall’altro propone che siano le banche la cinghia di trasmissione di queste risorse verso famiglie e imprese. Le stesse banche che, tra regole uguali per tutti (one-size-fits-all) e pressione alla concentrazione, nel frattempo sono state indotte ad allontanarsi sempre più dall’economia reale. Qualcosa rischia di non funzionare in questo modello.

Riepilogando: prima della pandemia, la BRI vedeva instabilità all’orizzonte, a causa dei derivati; la BCE temeva le “bolle” da trading ad alta frequenza e la Consob ha stimato che questa operatività aumenti la volatilità dei mercati del 40%. Tutti in allarme. Ma senza fare nulla. Ora Draghi dice che le banche devono tornare al servizio dell’economia reale, e tutti si accodano. Ma fa proposte insidiose e che rischiano di farci trovare, dopo Covid-19, in una situazione peggiore per gli assetti finanziari globali.

Invece l’occasione è ghiotta per fare la cosa giusta. Non chiamiamola Tobin Tax, perché le condizioni di mercato e le tecnologie sono talmente cambiate che forse questa idea non rispecchia neanche più il pensiero del vecchio saggio premio Nobel James Tobin. Chiamiamola piuttosto Tassa per lo Sviluppo Sostenibile (TSS). Una tassa che si insinui nell’operatività dei mercati, rendendo più costose, dunque meno convenienti, proprio quelle transazioni che fanno male allo sviluppo sociale e ambientale, a partire da derivati e HFT.

Una tassa che in questo modo freni la speculazione, non tanto per raccogliere gettito da destinare a investimenti green o social, esito che pure non va disdegnato, ma soprattutto per riorientare l’operatività dei mercati, dei loro algoritmi e dei robot che li gestiscono. Il tema va affrontato con convinzione ora che cresce l’attenzione su modelli di sviluppo necessari a sostenere la reazione alla crisi e la riconversione ecologica. E ora che, ancora una volta, le tante negoziazioni per una tassa sulle transazioni finanziarie (FTT, dall’inglese Financial Transaction Tax) – che a livello europeo mobilitano parlamentari, commissari, eserciti di sherpa e ministri nazionali – stanno portando all’ennesimo buco nell’acqua.

È arrivato invece il momento di fare scelte coraggiose e strutturali per:

  • fermare la deriva autoreferenziale e speculativa dei mercati finanziari;
  • orientare la finanza privata verso l’economia reale;
  • incentivare gli investimenti in grado di produrre impatti green e social.

Sarebbe bello se fosse l’Italia ad aprire questa strada rivedendo lo schema nazionale di FTT, che esclude le operazioni HFT che avvengono in un arco di tempo inferiore al mezzo secondo (quando la BCE parla di 5 minuti!) e che applica un’aliquota irrisoria sui derivati (0,0015%). Trasformare la debole e rachitica FTT italiana in una forte e coraggiosa TSS non solo sarebbe coerente con la promessa di un Green New Deal ma darebbe al nostro paese anche una leadership importante nell’Unione europea del prossimo futuro.

E insieme a questo, agire per orientare versi l’economia reale, circolare, virtuosa le ingenti risorse della previdenza complementare. Già oggi la Direttiva IORP II, recepita dall’Italia con il decreto legislativo 147 del 13 dicembre 2018, sollecita i fondi pensione a integrare gli aspetti ESG tanto nell’analisi del rischio quanto nelle politiche di investimento, stabilendo specifiche misure di disclosure anche a favore dei potenziali aderenti. Ulteriori sollecitazioni al mercato, si presume, arriveranno dai lavori in corso per una Tassonomia sulla finanza sostenibile, nell’ambito dell’Action Plan della Commissione europea.

Ma occorre essere meno flebili nelle definizioni e più incisivi nei controlli. Per guadagnare tempo, e risultati sociali e ambientali.

Stando al report di impatto 2019 di Etica sgr, non selezionare gli investimenti con rigorosi criteri ESG significa rinunciare a un moltiplicatore aggiuntivo di nuovi posti di lavoro generati pari a 2,42 (+142% quelli creati nelle aziende ESG rispetto al benchmark) e a un fattore di maggiore riduzione delle emissioni di CO2 pari a 1,7 (+69% nel paniere ESG).

La finanza etica, intanto, va avanti

Sono scelte possibili, attuabili da subito. Il Fondo pensione aperto promosso da Banca Etica già lo fa. Così come Banca Etica ed Etica Sgr da due decenni escludono dai propri finanziamenti settori rischiosi per il clima (come il carbone e il petrolio) e per l’ambiente in generale (come il nucleare) o per la collettività (gli armamenti e il gioco d’azzardo).

Investendo invece in tante aziende, grandi e piccole, che guardano al futuro e sviluppano attività innovative nel campo delle energie da fonti rinnovabili, della riduzione della CO2, dei materiali alternativi alle plastiche, della bioedilizia, e che costruiscono strumenti che ci permettono di cambiare i nostri stili di vita.

Eppure gli oltre 300mila italiani che ogni giorno scelgono la finanza etica sono ancora in attesa (dopo 3 anni!) che il Governo emani un Decreto attuativo per la norma che istituisce gli “operatori di finanza etica e sostenibile” (art. 111 bis del Testo unico bancario). E si domandano se non sia maturo il tempo di riconoscerne congruamente il valore sociale: oggi la norma stabilisce che tali operatori saranno incentivati (attraverso una detassazione degli utili reinvestiti) per un importo “non superiore a” 200mila euro in 3 anni. Sì avete letto bene, 66mila euro all’anno.

Con tutta la sobrietà possibile, cui pure il movimento della finanza etica si ispira, non sembrano cifre che potranno spostare verso comportamenti virtuosi le scelte delle banche, o premiare in modo tangibile quelle che già li adottano. Nessuno cerca “agevolazioni o sussidi”, ma solo un equo piano di gioco di un mercato che finora si è voluto strutturare a favore di chi massimizza i profitti, lucra sul debito pubblico, non misura l’impatto sociale e ambientale delle proprie scelte.

Intanto Banca Etica – anche in questa emergenza – mette subito in campo misure per aiutare persone e imprese, continuando a ritagliarsi uno spazio di finanza etica nel quadro delle regole vigenti. Aspettando con fiducia che da questa crisi (l’ennesima, seppur differente), governi lungimiranti riportino la finanza al suo ruolo di ancella dell’economia e delle società.

* Alessandro Messina è direttore generale di Banca Etica