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La crisi globale e la Pizia cinese

L’immagine più vera di questa torrida estate di crisi finanziaria resta una sola: quella di un mondo che, entrato nella seconda fase della grande crisi economica deflagrata nel 2008, non ha ancora capito a che santo votarsi per arginarla. Ed è prevedibile che in questo nuovo vorticare la Cina non sarà la soluzione e potrebbe […]

Alla fine è arrivato Capitan America sfoderando un tasso di crescita dell’economia Usa che nessuno si aspettava e una vaga promessa sui tassi di interesse, e i foschi cinesi sono rientrati nei ranghi facendo quello che tutti si aspettavano dovessero fare, pompare soldi nel loro sistema spompato. Le Borse mondiali hanno rimbalzato di sollievo agguantando i rialzi, la “tempesta perfetta” si è dissolta. Fino al prossimo round che, a leggere bene le cronache economiche rosa del giorno dopo, è acquattato dietro l’angolo.

Ragion per cui l’immagine più vera di questa torrida estate di crisi finanziaria resta una sola. Quella di un mondo che, entrato nella seconda fase della grande crisi economica deflagrata nel 2008, non ha ancora capito a che santo votarsi per arginarla. Il disorientamento globale è tale infatti da far apparire surreale, anche alla luce del poi, il raccomandarsi spasmodico alla Cina che nella circostanza è apparsa anch’essa come una Pizia traballante sul suo trespolo fumoso, dal quale nei momenti più critici ha lanciato rimedi, senza apparentemente rendersi conto di dove sarebbero andati a parare.

Breve riassunto. Alle prime avvisaglie di squasso in Borsa, il governo di Pechino prima interviene massicciamente per bloccare il crollo, poi lascia andare rendendosi conto che frenare il panico di 90 milioni di piccoli azionisti incoraggiati dal governo stesso a entrare nel recinto dei razziatori di professione è come andare contro la forza di gravità, e soprattutto in quel momento non servirà a ridare fiato all’economia in panne. Salvo poi decidere, con discutibile tempismo, che il 30% dei fondi pensione pubblici ha ora il permesso di buttarsi nella mischia azionaria. Quanto alla Banca centrale prima svaluta di colpo lo yuan, e annuncia che lo lascerà fluttuare, come mercato comanda in osservanza alle regole del Fmi, anche se nel mondo c’è chi grida alla guerra commerciale. Poi, nel timore di un deprezzamento troppo brusco e di fughe rovinose di capitali , decide di sostenerlo ancora. Tra una decisione e l’altra 400 miliardi di dollari bruciati in pochi giorni. Un falò che consuma le sempre ingenti riserve del paese (3.650 miliardi di dollari) a una velocità di gran lunga superiore a quella impiegata per accumularle. Infine, di fronte al Black Monday di Shanghai, la capitolazione finale e la decisione di allargare di nuovo i cordoni del credito bancario con l’abbassamento dei tassi di interesse, il taglio delle riserve richieste alle banche a copertura dei prestiti e una panoplia di misure che chiudano temporaneamente le falle attraverso cui si sfiata il sistema economico. Temporaneamente, perché chi conosce lo stato attuale dell’economia cinese sa che le ultime mosse della banca centrale della Rpc non cambieranno il trend al ribasso dell’agognata crescita, se non verranno presi provvedimenti che finora non sono mai stati attuati, e non a caso. Serviranno solo ad alimentare ulteriormente un circuito del debito già insostenibile (280% del Pil); a foraggiare sotto la spinta del rilancio immediato progetti di investimento faraonici ed inutili che non producono né utili, né utilità; a incoraggiare manovre speculative e maneggi sotto banco dei debitori.

Il cambio di pelle mancato

Le difficoltà che stringono Pechino sono note. Per uscire dal pantano che sempre più la frena dovrebbe liberarsi della vecchia pelle di fabbrica del mondo votata all’export di beni manifatturieri di fascia bassa per diventare un’economia moderna e meno dipendente, sostenuta dai consumi interni, con salari più alti, un più vasto settore di servizi avanzati, e una produzione hi tech competitiva col resto del mondo ed ecologicamente sostenibile. Questa era stata la lezione tratta dai disastri del 2008. Ma la muta, già avviata, è dolorosa, costosa e piena di contraccolpi e il paese non è riuscito a modificare l’asse del proprio sviluppo in tempo per affrontare la nuova fase di crisi globale.

I piani quinquennali cinesi sono pieni di “sogni” di “ringiovanimento della nazione” e di una “nuova normalità”, che già metteva in conto realisticamente tassi di crescita inferiori al 7%, accompagnata però da ambiziosi rilanci globali che avrebbero coinvolto redivive vie della seta e nuove rotte oceaniche. Il precipitare della crisi, anche questa rimbalzata dall’Occidente ma stavolta amplificata da Oriente, costringe la Repubblica popolare a restare ancora legata a un modello considerato da anni dalle stesse leadership “squilibrato” e “insostenibile”. Uno scacco nato certo da responsabilità ed errori dei vertici. Ma anche da spaccature interne.

Paradossale tuttavia che di fronte a un quadro che nulla ha di misterioso analisti e mass media, anche dalle nostre parti, abbiano voluto tirare in ballo la voluta oscurità dei governanti cinesi, il sospetto che stiano truccando le cifre (sai che originalità), l’ambiguità delle loro mosse, l’illeggibilità delle loro intenzioni come se stessero preparando scialuppe di salvataggio per lasciare il resto del mondo in balia dei flutti, e non fossero essi stessi in pericolo. La leadership di Pechino diventa così una imperscrutabile “scatola nera”, che rimane defilata, quasi nascosta, senza sentirsi in dovere di presentarsi urbi et orbi per spiegare i propri grandi piani e intenzioni. Possibile che fosse questa, si chiede Jamil Anderlini, firma di punta del Financial Times, quella dirigenza fino a poco tempo fa così “smart”, intelligente, un tantino autoritaria certo, opaca di sicuro, ma (magari anche per questo) capace di tenere in piedi e far avanzare a ritmi record l’ultimo degli antichi imperi e con esso l’economia mondiale? Mentre il Financial Times cerca di riaversi dalla delusione, aspettiamo con ansia che le altre leadership mondiali squadernino i loro Grandi Piani per superare i tempi agri che ci attendono.

C’è poco da ironizzare davanti alle difficoltà evidenti dei vertici cinesi ed è prevedibile che in questo nuovo vorticare della giostra impazzita dell’economia mondiale la Cina non sarà la soluzione, come avvenuto nel 2008 quando proseguì la sua corsa tirando anche quella degli altri, e potrebbe invece far parte del problema, per il ruolo cruciale assunto nel frattempo nell’economia mondiale ma anche per le sue caratteristiche di ibrido, economico e politico, unico al mondo, che complicano la gestione dei problemi interni.

A caccia dei nemici

Qualcosa non ha girato per il verso giusto, nella stanza dei bottoni a Pechino, dove probabilmente si sta preparando una resa dei conti. Come e perché si è consentito che i mercati azionari si gonfiassero a livelli insostenibili, e poi crollassero nel caos? Chi ha deciso di gestire in modo disordinato e contraddittorio il collasso, proprio nel momento in cui una serie di dati negativi rivelava la debolezza dell’economia, facendo tremare il resto del mondo?

Ancora oggi in Cina la Borsa è considerata una sorta di casinò che non ha un ruolo rilevante nell’economia reale, anche per la insignificante presenza di investitori stranieri, tenuti lontani dalle restrizioni all’acquisto. C’è voluto del genio perverso per far sovrapporre l’esplosione dell’una con le difficoltà crescenti dell’altra. Il premier Li Keqiang, che ha definito “opachi e confusi” i trend economici globali, viene indicato come un possibile capro espiatorio ma appare troppo debole persino per fare la vittima sacrificale. C’è invece chi si chiede ora a cosa sia servito al capo dei capi Xi Jinping concentrare su di sé, soprattutto nel governo dell’economia, tanto potere istituzionale quanto non si vedeva dai tempi di Mao, se l’acutizzarsi di un tracollo ha generato caos.

Per ora la ricerca ufficiale dei responsabili e dei nemici guarda però altrove, e agisce per vie giudiziarie. Commercio illegale di titoli, mancanza di controlli, manipolazioni e diffusione di notizie allarmistiche prive di fondamento le accuse che hanno scatenato la caccia. Cinque delle principali società di brokeraggio cinesi sono state messe sotto inchiesta, otto operatori di borsa della compagnia maggiore, Citic Securities, inquisiti e quattro di essi arrestati, fermato anche un giornalista economico, Wang Xiaolu, famoso per le sue inchieste scomode, che secondo la stampa ufficiale avrebbe già ammesso l’insider trading e la pubblicazione di falsi report. Sotto chiave persino un funzionario della China Securities Regulatory Commission, il massimo organismo di regolazione del mercato azionario del paese. Al fondo, c’è il sospetto che, approfittando del marasma, abbiano giocato sporco nel crollo borsistico gli avversari dell’attuale politica di riforme di Xi, in prima fila i vertici delle potenti compagnie di stato, minacciati dalla lotta alla corruzione e dai piani di ridimensionamento e privatizzazione delle loro imprese. Una lotta di potere all’ultimo sangue, pare di capire, che per la vastità del fronte e gli intrecci fa impallidire persino gli antichi conflitti delle fazioni all’interno del Partito. Sarebbe la prima volta che uno scontro politico si riversa all’esterno in forme così estreme e distruttive, scegliendo un’arma dirompente come la Borsa.

L’assedio implacabile che sta stringendo la cupola cinese verrebbe da un fronte nemico vasto e articolato, almeno stando a una doppietta di editoriali del Quotidiano del popolo usciti mentre infuriava la tempesta borsistica e valutaria.

Il 10 agosto l’organo ufficiale del Pcc lancia un avvertimento ai vecchi quadri che, dopo essersi ritirati in pensione, continuano a voler esercitare la propria influenza nel governo del paese: con una elegante metafora vengono pregati di “raffreddarsi” come il tè nella tazza dell’ospite che ha lasciato il tavolo. Senza far nomi (ma il primo che ricorre sulle bocche di tutti è quello dell’ancora potente ex presidente Jiang Zemin, ormai novantenne) il Renmin Ribao accusa senza metafore alcuni “quadri prominenti” di costituire “un impaccio per i nuovi leader, impedendo di portare a compimento i loro piani coraggiosi” in tal modo “indebolendo la coesione del partito e la sua forza di combattimento”. Dieci giorni dopo, un nuovo editoriale, dai toni stavolta aspri e quasi esasperati, denuncia che “i modi straordinari, complessi, feroci con cui alcune forze si oppongono alle riforme” sono tali “da superare ogni immaginazione”. Di nuovo la potenza di fuoco di Xi, ammassata per contrastare resistenze che si prevedevano feroci, deve ammettere i propri limiti. Ora è chiaro, anche per dichiarazione ufficiale, che la fase di riforme in atto da un paio di anni sta sconvolgendo i centri di potere e i gangli del sistema scatenando reazioni “immunitarie” violente. La lotta alla corruzione, che in Cina come altrove vive di una struttura capillare basata su relazioni e do ut des, non ha colpito solo i vertici di settori fondamentali, compreso l’esercito popolare di liberazione, ma ha paralizzato per contraccolpo anche schiere di funzionari dell’apparato burocratico e bloccato interi settori di attività. Con effetti deleteri sull’economia già in affanno. I vecchi quadri vorrebbero ora che Xi Jinping allentasse la morsa della caccia ai corrotti (molti dei quali loro sodali e garanzia di continuità nell’esercizio del loro potere) per concentrarsi sui modi con cui rilanciare la crescita, seguendo schemi sperimentati. Solo il tempo dirà chi si sarà aggiudicato l’ultimo match in questa lotta all’ultimo sangue. In tempi di lacerazione il Pcc sceglie sempre la strada della propria sopravvivenza ma i tempi sono cambiati. Un conto è governare la crescita, ben altro è contrastare l’arretramento dell’oggi, che chiede cambi di rotta forti e rotture. Ma i super poteri dell’attuale leader hanno spezzato la leadership collettiva che ha governato la Cina dalla morte di Deng e l’uomo solo al comando, tanto più se è intraprendente ma non carismatico come Xi, è sempre un rischio, perché non c’è più mediazione. Gli ultimi avvertimenti lanciati dal sottobosco parlano chiaro.

Mercato e stato, tra Scilla e Cariddi

Difficile fare il tifo, in questa contesa tra un vecchio apparato corrotto che si è arricchito ingoiando pezzi interi del paese e invoca la propria sopravvivenza come necessaria garanzia di continuità ed equilibrio, e una nuova spietata classe di tecnocrati che squaderna piani titanici di riforme economiche e di ingegneria sociale, dettando ai cinesi anche i loro “sogni”. Nella mischia in corso, è difficile persino trovare traccia delle vecchie querelle ideologiche. Nel 2013 dal terzo Plenum del Pcc che decise l’avvio della nuova fase di riforme, emerse una di quelle formule criptiche care al gergo del Partito e destinate a scatenare i dibattiti degli esegeti: ai mercati sarebbe stato in futuro assegnato un “ruolo decisivo” nell’allocazione efficiente delle risorse ma lo stato avrebbe mantenuto un “ruolo dominante”. Il mancato scioglimento del dilemma è oggi indicato dai pulpiti mondiali come la madre di tutti problemi. Si rimprovera a Pechino di essere rimasto incastrato tra la Scilla dei mercati e la Cariddi dello stato, laddove gli uni sono stati soffocati e il secondo si è confermato come un dominatore, oltretutto occupato da una classe politica non all’altezza del compito. Giudizio estremo e ideologicamente ispirato, anche perché l’onestà intellettuale dovrebbe spingere a guardare il marasma mondiale in corso e fare qualche confronto. Tuttavia è vero che alla luce di quanto successo è forse arrivato il momento per il Partito, ma soprattutto per i tecnocratici che governano l’economia, di riflettere, ben oltre la criptica lingua congressuale e gli slogan, su che entità sia oggi realisticamente un mercato, cinese e globale, soggetto a mille manipolazioni e che grado di efficienza assicuri, al di là delle caratteristiche cinesi che ormai si vanno scolorando.

Allo stesso modo, un Partito che tenesse alla propria sopravvivenza dovrebbe riflettere sull’altro capo del dilemma, lo stato, e comprendere la natura del Leviatano che ha creato.

I fallimenti dell’oggi nascono da errori e incapacità non di una fazione riottosa all’ultima ondata di riforme ma dall’intero apparato dello stato-partito, per quanto flessibile e resiliente questo si sia dimostrato nel gestire ideologicamente la propria sopravvivenza; da una cultura del pragmatismo che fa fatica a tenere a bada le dinamiche complesse; da un cinismo di fondo che ha le proprie radici nell’ “arricchirsi è glorioso” di Deng Xiaoping e che ha alimentato inaccettabili diseguaglianze ed esclusioni. Le immagini della devastante esplosione a Tianjin, che ha confermato in modo scioccante le falle della sicurezza ambientale e le pratiche disgustose della corruzione nella mancanza dei controlli, si sono sovrapposte e mescolate alla crisi finanziaria, materializzando di colpo il groviglio che stringe la Cina e gettando un’ombra sulla capacità dell’intera leadership di venirne a capo, ben oltre le lotte intestine. C’è qualcosa di osceno, e imperdonabile, in un potere che ha l’ossessione del controllo dei propri governati ma non riesce a garantirne la sicurezza fisica, in spregio persino alle leggi da lui stesso emanate.

Crisi globale, ultimo atto

Infine, l’economia globale entrata nella seconda fase della crisi esplosa nel 2008.

Otto anni dopo la Cina, uscita a testa alta da quel collasso e divenuta nel frattempo la seconda economia mondiale, si ritrova affetta dalla stessa malattia che colpisce il resto del mondo. Nel 2014 la Rpc ha speso il 44% del proprio Pil in investimenti lordi che, secondo dati realistici, ormai non generano più del 5% di crescita e rendimenti marginali ultra bassi se non negativi (Martin Wolf “Why worries about China make sense” Financial Times , 25/08/2015). Altrettanto interessanti i dati di Geoffrey McCormack sull’andamento dei profitti in Cina negli ultimi otto anni: cresciuti del 39% nel 2007 e del 53% nel 2010, nel 2013 sono aumentati solo del 10,5% , per attraversare la soglia critica della crescita negativa nel 2014, anche per l’ammassarsi gigantesco dei debiti. (https://www.jacobinmag.com/2015/08/china-currency-depreciation-comminist-party-yuan-renminbi/). Il crollo della redditività nell’economia reale spiega così ancora una volta la speculazione frenetica in Borsa. In un contesto di domanda globale depressa, sovrapproduzione, crollo dei prezzi delle materie prime esportate dai paesi emergenti colpiti dal rallentamento dell’economia cinese (la stessa che nel 2008 li aveva salvati), deflazione, si può dichiarare che il ciclo della stagnazione secolare è di nuovo sprofondato e non emerge all’orizzonte alcun salvatore. Difficilmente la ripresa Usa potrà farsi carico del compito titanico di sollevare le sorti mondiali, ammesso che i suoi dati recenti, aumento del Pil del 3,7% nel secondo trimestre del 2015, siano confermati anche in futuro. L’ondata delle innovazioni tecnologiche sembra esaurita, ormai si pesta l’acqua nel mortaio di app e Apple Watch, e di qualche biotecnologia. I progetti coraggiosi e visionari, come quello di un Piano Marshall per dare al pianeta un modello di sviluppo sostenibile che lo salvi, cadono vittime della falcidie dei prezzi delle fonti energetiche tradizionali. La speculazione finanziaria riprende il sopravvento mentre le migliaia di miliardi ammassati da quell’1% per cento del genere umano che controlla le leve dell’economia mondiale attendono nuove razzie. La decrescita, governata dalle vecchie logiche di produzione e profitto, diventa infelice e lugubre.

Negli anni ’90 fu la Cina uscita dal riavvio della politica di aperture e riforme voluto da Deng Xiaoping dopo il massacro di Tiananmen, a rilanciare e completare il ciclo della globalizzazione, e i profitti stagnanti dell’economia reale. 250 milioni di contadini cinesi (e altre centinaia di milioni di asiatici nei rispettivi paesi) lasciarono le campagne attirati dalle fabbriche della zone economiche speciali della costa architettate dal governo. Pronti a lavorare infinite ore in cambio di salari infimi, senza contratti e contribuzioni, ammassati in dormitori, furono il battito di un’enorme farfalla che come uno tsunami spazzò via a occidente posti di lavoro, diritti, welfare. Oggi i “nuovi” operai cinesi delle successive generazioni godono di salari più alti, scioperano anche per averne di più e per migliorare le proprie condizioni di lavoro. Ma continuano ad essere cittadini di serie B, essendo loro negato lo status di residenti urbani, e con esso una serie di diritti considerati troppo costosi dai governi locali, compresa la scuola per i loro figli. Per un comune mortale cinese farsi curare è un lusso, avere una pensione che sostenga dignitosamente la vecchiaia è un miraggio, avere una casa propria a prezzi accessibili un sogno da fare occhi aperti mentre si possono guardano le schiere di palazzi vuoti generati da una bolla speculativa immobiliare che il governo si preoccupa solo di non far scoppiare.

Nella nostra discesa dolorosa segnata da perdite di sicurezza, coperture previdenziali, diritti alla fine abbiamo infine incrociato l’ascesa dei cinesi, finalmente uguali. E lì resteremo, se il mondo continuerà a ruotare sugli stessi cardini.

Articolo pubblicato da www.ilmanifestobologna.it