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La Cina si avvicina

Inizia con una rassegna sulle novità nell’economia dell’impero di mezzo una serie di articoli dedicati ai Bric e alla loro conquista economica del pianeta. Il 14 aprile di quest’anno i responsabili dei paesi di Brasile, Russia, India, Cina, insieme a quelli del Sudafrica, si sono riuniti a Pechino, continuando così a seguire un programma di […]

Nella dichiarazione emessa alla fine dell’incontro le cinque nazioni hanno affermato solennemente che esse “guideranno lo sviluppo dell’umanità”.

Non sappiamo che peso dare veramente a tale documento ma, in ogni caso, pensiamo che esso tenda a sottolineare in maniera molto netta il cambiamento in atto nei rapporti di forza economici, politici, finanziari, anche culturali, a livello del mondo.

Siffatta dichiarazione ha contribuito a spingerci ad avviare una rubrica, peraltro non necessariamente settimanale, che si concentra sugli sviluppi relativi a tali paesi, soprattutto, anche se non solo, sul fronte economico.

Il primo articolo, visto il peso relativo, attuale e nel prevedibile futuro, dei vari soggetti in campo, non poteva che essere dedicato ad alcuni mutamenti in atto in Cina.

Lavoro e bilancia commerciale in Cina

Premessa

La Cina, la cui economia continua a crescere a ritmi forsennati, avendo, tra l’altro, superato la crisi senza quasi sentirla, non cessa di sorprenderci, nel bene e nel male, settimana dopo settimana. Si osservino così, ad esempio, gli sviluppi registrabili di recente sul fronte del costo e della reperibilità della forza lavoro, nonché su quello dell’andamento della bilancia commerciale del paese, tema quest’ultimo collegato in qualche modo al precedente. Peraltro si considerino anche alcune novità non piacevoli sul fronte politico.

Costo del lavoro e sua reperibilità

Il fronte del lavoro è in forte movimento nel paese, in particolare da quando è stata approvata, nel 2008, la nuova legislazione che migliora in misura rilevante – anche se non si può certo essere soddisfatti ancora oggi della situazione –, il quadro dei diritti sindacali. Si è assistito, nella seconda metà del 2010, all’avvio di un’ondata di scioperi in molte fabbriche a capitale straniero, movimento non ostacolato dal governo; tali proteste hanno avuto un sostanziale successo.

Così gli ultimi mesi hanno registrato due sviluppi almeno in parte tra di loro collegati: i salari stanno crescendo anche molto fortemente e contemporaneamente molte imprese non riescono a trovare la manodopera che servirebbe loro per espandersi.

Così a Pechino, nello Guangzu e altrove il salario minimo è stato aumentato del 20%. L’ammontare delle retribuzioni è cresciuto anche parecchio di più in molte imprese. Per alcune categorie di operai specializzati sono ormai offerti, almeno in alcune fabbriche, sino a 700 dollari al mese. A questi ritmi, quanto tempo dovrà ancora passare perché i lavoratori cinesi guadagnino come quelli di Mirafiori? Pochi anni, probabilmente.

Per quanto riguarda invece le carenze quantitative di manodopera nelle zone costiere, le più sviluppate del paese, si è cominciato a parlarne già da qualche anno, ma negli ultimi mesi la situazione sembra si stia abbastanza aggravando.

Dietro questi sviluppi stanno diversi fenomeni, alcuni registrabili a livello complessivo del paese, altri che toccano invece in maniera differenziata le diverse aree economiche.

Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna ricordare che le tendenze demografiche in atto mostrano come il numero delle persone in età tra 15 e 24 anni, che si affacciano appena sul mercato del lavoro, abbia raggiunto nel paese la sua punta massima nel 2005, con 227 milioni di unità, mentre ci si attende che esso si ridurrà presumibilmente a soli 150 milioni nel 2024 (Jacob, Waldmeir, 2011). D’altro canto, a livello geografico, in passato tale mercato era alimentato dalle decine di milioni di persone che, per trovare un’occupazione, erano costrette a trasferirsi, in condizioni spesso molto disagiate, dalle regioni interne verso quelle costiere.

Ora lo sviluppo economico di tali aree più remote, processo peraltro al momento ancora abbastanza diseguale e alimentato anche dal trasferimento verso l’interno di molte imprese alla ricerca di manodopera e di un suo costo più basso e, più in generale, di minori costi di produzione, insieme a un aumento dei salari in tali aree, trattiene una parte almeno della manodopera negli insediamenti più prossimi alle loro aree di origine.

L’aumento del costo del lavoro è un problema per la competitività del paese?

Naturalmente tutto questo sta in particolare contribuendo, come già accennato, a far lievitare in maniera rilevante i salari in tutto il paese.

Questi aumenti di costo della manodopera, insieme con quello, almeno altrettanto rilevante, delle materie prime – fenomeno quest’ultimo dovuto ai forti aumenti di prezzo registrati di recente sui mercati mondiali –, nonché infine a quello tendenziale dei rapporti di cambio con il dollaro, non tendono forse a spingere le produzioni cinesi fuori mercato a livello internazionale?

In realtà, agiscono in controtendenza forze potenti e il risultato finale appare così molto meno drammatico di quanto potrebbe sembrare a prima vista.

Intanto, mentre aumentano i salari, aumenta fortemente anche la produttività del lavoro. Per esempio, nel settore dell’abbigliamento, tra il 2003 e il 2010, essa è cresciuta in media del 13% all’anno (Jacob, Walmeir, 2011).

D’altro canto, la gran parte delle imprese non trova conveniente delocalizzare le produzioni in altri paesi sia per la grande importanza del mercato locale che per la possibilità di spostarsi invece nelle regioni interne dove i costi, pure in aumento, sono comunque più bassi; bisogna ancora ricordare la presenza nel paese d’infrastrutture materiali e immateriali simili per molti versi a quelle dei paesi sviluppati e molto migliori invece di quelle dei paesi vicini, nonché l’abilità e la rapida capacità di apprendimento della forza lavoro locale.

È comunque in atto da parte delle stesse imprese cinesi, oltre che di quelle straniere, uno spostamento relativamente limitato, almeno per il momento, di produzioni in paesi quali il Vietnam, l’India, il Bangladesh, l’Indonesia, ciò che contribuisce anche a tenere bassi i costi degli stessi prodotti cinesi.

Inoltre, il costo del lavoro rappresenta di solito soltanto una frazione relativamente ridotta di quello complessivo delle merci prodotte nel paese; in particolare, nella gran parte dei prodotti esportati, esso pesa tra il 10 e il 15% del totale (Jacob, Giles, 2011).

Infine, spinti dall’aumento dei costi del personale, dalle politiche statali che indirizzano il sistema economico verso produzioni sempre più qualificate, nonché dai loro stessi interessi economici di lungo periodo, le imprese cinesi si stanno muovendo rapidamente verso i livelli più alti nella catena del valore delle produzioni, che tendono ad essere sempre più sofisticate ed a crescente valore aggiunto.

L’andamento della bilancia commerciale

La crescita del pil di un paese è affidata a tre fattori: i consumi interni, gli investimenti, l’andamento della bilancia commerciale. Tradizionalmente, lo sviluppo economico cinese si è basato, in particolare, negli ultimi trenta e più anni, sulla spinta portata dagli ultimi due fattori citati; invece, ad esempio, negli Stati Uniti esso è affidato fondamentalmente all’espansione dei consumi.

Ma ora, mentre i consumi interni cinesi crescono fortemente e gli investimenti continuano a svilupparsi in misura ancora più sostenuta – il loro costante aumento sta del resto al centro degli interessi del blocco di potere che governa il paese –, interessanti e, almeno in parte, inaspettate novità sembrano registrarsi sul fronte del commercio con l’estero.

Le cronache economiche registrano così il fatto che nei primi tre mesi del 2011 la bilancia commerciale è andata in rosso, sia pure soltanto per circa 1 miliardo di dollari (Reuters, 2011), contro invece un surplus di 13,9 miliardi ottenuto nel corrispondente periodo dell’anno precedente. Nel 2010 solo in un mese si era registrato un fenomeno analogo.

Vero è che nella prima parte dell’anno la situazione dei commerci di Pechino è sempre tradizionalmente la meno favorevole e la situazione dovrebbe migliorare notevolmente nei prossimi mesi; appare anche vero che una parte rilevante dello squilibrio dipende dal forte e recente aumento dei prezzi delle materie prime di cui il paese è un importatore fondamentale. Ciò non toglie che la notizia abbia avuto un rilievo importante sui media internazionali.

Intanto si tratta del primo deficit trimestrale dal 2004, anno in cui il paese si trovava peraltro in una situazione molto diversa.

Dal lato delle esportazioni, l’apprezzamento sia pure moderato dello yuan rispetto al dollaro – si tratta di circa il 4,5% complessivamente dal giugno del 2010, quando la moneta locale ha ricominciato a rivalutarsi nei confronti del biglietto verde – e la crescita dei livelli di inflazione sembrerebbero portare a dei risultati. Ma bisogna considerare che, in realtà, le esportazioni sono comunque cresciute nel periodo del 26,5% rispetto ai primi tre mesi dell’anno precedente. Peraltro, le importazioni sono aumentate ancora di più, sino al 32,6%. I prezzi dei prodotti primari –materie prime ed energia – sono lievitati del 29,7% nello stesso trimestre (Reuters, 2011).

In ogni caso, il deficit del primo trimestre 2011 viene dopo che a partire dai primi mesi del 2009 e sino ad oggi la crescita delle importazioni è sempre stata più elevata di quella delle esportazioni, indicando un trend che tende a consolidarsi nel tempo. Esso appare a questo punto un riflesso, oltre che dell’aumento dei prezzi delle materie prime, anche della tendenza alla crescita dei consumi interni, obiettivo apparentemente primario delle autorità di governo nell’ultimo periodo.

Negli ultimi anni, più in generale, si va registrando una riduzione del surplus commerciale del paese. Si è passati da un avanzo di 290 miliardi di dollari nel 2008 ad uno di 196 miliardi nel 2009, ad una cifra leggermente più ridotta nel 2010 – 183 miliardi –, mentre ci sono ora tutte le premesse perché il 2011 veda un’ulteriore riduzione di tale livello. Si stima al momento che si arriverà a stento ai 150 miliardi. C’è anche chi prevede che esso sparirà presto completamente.

A questo punto, tra l’altro, la campagna statunitense contro le merci cinesi, favorite da un indebito vantaggio conseguente al rapporto tenuto basso dello yuan contro le altre monete – campagna sostenuta molto tiepidamente o per nulla dal resto del mondo – dovrebbe trovarsi perlomeno in qualche difficoltà ad essere portata avanti. Ma, per altro verso, l’attuale establishment repubblicano, nella sua azione politica, non si fa certo scoraggiare dai dati della realtà, su questo come su diversi altri fronti.

Intanto le cose si complicano sul fronte politico

Contemporaneamente agli sviluppi economici sopra delineati si registra negli ultimi mesi in Cina una stretta abbastanza forte a livello politico, con arresti di dissidenti, maggiori controlli sui cittadini e sui giornalisti, azioni “nervose” in Tibet.

Siamo abituati ad assistere negli anni a un andamento variabile del livello di tolleranza del regime verso le manifestazioni di dissenso, pur nel quadro di un certo e lento miglioramento di fondo della situazione. Ma, di recente, le cose sono peggiorate in maniera imprevista e i fatti sembrano ridurre la possibilità di un ritorno a una maggiore “normalità”. Le ragioni di questo giro di vite sembrano essere più di una e vanno dal timore per il possibile contagio degli avvenimenti africani e arabi, dalla Tunisia alla Siria, sino agli imminenti mutamenti negli alti vertici del paese.

Appare in ogni caso grave che una nazione che si avvia a diventare la prima potenza economica del mondo sia affetta da una tale fragilità politica da non riuscire a tollerare manifestazioni di dissenso che appaiono comunque marginali. Si tratta di un problema molto rilevante per le prospettive del mondo nei prossimi anni.

Conclusioni

Molti segnali sembrano indicare che l’economia cinese, per mantenendo una velocità di crociera molto elevata, si stia avviando verso un modello di sviluppo diverso dal passato e più sofisticato. Lo testimoniano, tra l’altro, la crescita dei salari e dei diritti sindacali, l’aumento delle produzioni a maggiore valore aggiunto, un certo riequilibrio del commercio internazionale, una maggiore attenzione ai consumi interni, l’aumento infine dei livelli di protezione sociale, peraltro ancora scarsi.

Questo non significa che non permangano e, per alcuni versi, non si complichino alcuni problemi di fondo, quali le diseguaglianze di reddito ed altri, apparentemente di tipo più congiunturale, quali la bolla immobiliare nelle grandi città o i livelli di inflazione. Sul terreno politico, poi, sembra diventare più grave, si spera temporaneamente, la situazione dei diritti dei cittadini.

Testi citati nell’articolo

Jacob R., Waldmeir P., Chinese compagnie struggle to find workers, www.ft.com, 21 febbraio 2011

Jacob R., Giles C., Global economy: an inflated outlook, www.ft.com, 8 aprile 2011

Reuters, China posts trade deficit in sign of rebalancing, www.nyt.com, 10 aprile 2011