Le nuove misure espansive annunciate dalla BCE sono un implicito riconoscimento che il Quantitative Easing non funziona e che la politica monetaria finanzia soprattutto l’inflazione dei valori finanziari
Nella sua conferenza stampa del 10 marzo scorso (http://www.soldionline.it/notizie/economia-politica/diretta-discorso-draghi-bce-10marzo2016) il Presidente della BCE ha preannunciato una lunga stagione di tassi di interesse negativi per le banche, il rafforzamento del Quantitative Easing (QE) attraverso l’aumento degli acquisti di titoli, l’estensione della gamma dei titoli oggetto di acquisto alle obbligazioni non bancarie “investment grade”, l’istituzione di nuovi T-ltro (Targeted long term refinancing operations) miranti a premiare le banche che fanno più prestiti a soggetti privati per finanziare la loro domanda (sia per consumi che per investimenti, si immagina).
C’è da essere ammirati dalle capacità retoriche di Draghi e al contempo agghiacciati per quello che è sembrato un clima da ultima spiaggia. Difficile non leggere, nelle parole del Presidente, qualcosa che assomiglia molto al riconoscimento di un sostanziale fallimento del QE, appena mascherato dal riferimento al fatto (ovvio) che senza il QE la situazione sarebbe stata peggiore e dalla ostentata generosità verbale nelle risposte ai giornalisti.
Esistevano, in effetti, solo due alternative, dopo il riconoscimento – appena velato – che la terapia non ha sortito l’effetto desiderato:
– attribuire il fallimento al dosaggio insufficiente;
– riconoscere che le politiche monetarie sono inadeguate, quanto meno senza associarle ad un finanziamento di deficit di bilancio, vuoi di un rilanciato “bilancio federale europeo”, vuoi dei singoli stati.
Draghi non poteva che scegliere la prima strada, visto che non poteva nemmeno alludere all’esigenza di alterare il patto per la stabilità e lo sviluppo, magari usando la scappatoia diplomatica di rinunciare a includere talune spese pubbliche nei conteggi per il rispetto del patto.
Ha preferito quindi dire “siamo bravissimi, e infatti abbiamo trovato la soluzione per far riprendere investimenti e crescita, ancorché con la necessaria gradualità”.
Questo atteggiamento si puntella su una serie di prese d’atto pragmatiche, condite da un apparente buon senso: in ogni caso la ripresa, inferiore al previsto, c’è, ma occorrono anche altri strumenti –politiche fiscali e interventi strutturali miranti a creare un buon clima per gli affari, fermo restando – appunto – il cardine del patto di stabilità e sviluppo. Nonostante qualche calo dei prezzi non siamo in deflazione perché quello che conta è il trend, che non è ancora deflattivo.
Sul piano retorico nulla cambia rispetto alla testimonianza dello stesso Draghi al Parlamento Europeo del 15 febbraio scorso. Le “altre” politiche restano sempre a livello allusivo, prive di qualsiasi significato intrinseco, anche se questa volta c’è una allusione anche alle politiche migratorie.
Sull’impossibilità di conciliare politiche fiscali vere, come quelle praticate dall’amministrazione Obama, con il patto di stabilità rinvio al blog di Francesco Saraceno (https://fsaraceno.wordpress.com/). La conclusione –che dato il ruolo non poteva che essere rassicurante – è che la fiducia della BCE non viene meno. Si evita così ancora una volta di prendere in considerazione di trasformare il perdente QE all’europea nel vincente QE all’americana.
Proviamo a dipanare la matassa delle misure adottate. I bond “investment grade” sono le obbligazioni meno rischiose secondo “il giudizio espresso dalle agenzie di rating (Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch), che si basa su un elevato merito di credito. Attualmente sono «investment grade» tutte le emissioni fino al giudizio BBB” (il Sole 24 Ore). C’è da chiedersi perché i titoli pubblici non erano più sufficienti. Perché si comincia ad intravvedere che non ve ne sono più abbastanza per andare avanti così per anni, vista l’esigenza di bilanciare gli acquisti tra i vari paesi membri?
O esistono altri motivi che ora non possono essere resi chiari in attesa di vedere quali saranno gli emittenti privati privilegiati? E la scelta di tali emittenti non rappresenterebbe un caso tanto temuto di interferenza con il mercato? E su che base la BCE pensa che ci si possa ancora una volta fidare delle agenzie di rating?
L’estensione dei soggetti emittenti titoli suggerisce riflessioni concettuali, linguistiche e retoriche che vanno oltre l’interrogativo sul perché il QE abbia preso la forma dell’acquisto pubblico di titoli al fine di creare moneta, chiamato un tempo “operazioni sul mercato aperto”. Affinché oggi sia possibile per la BCE acquistare titoli pubblici non bisogna forse cominciare a benedire gli stati che, nel passato, si sono indebitati emettendo titoli? Ma allora bisognerebbe riconoscere che la formazione di uno stock del debito ha qualche merito nelle società moderne. Certo è che se gli stati non si fossero indebitati oggi il QE non avrebbe potuto essere adottato.
Al di là di questi interrogativi paradossali e restando, come nella conferenza stampa è stato esageratamente ricordato, ai possibili controfattuali, forse bisognerebbe tornare a riflettere maggiormente sul ruolo del debito, sul significato e sui pretesi rischi dell’accumulazione pregressa dei titoli, sul significato e sui rischi dell’accumulazione di mezzi monetari.
Dagli anni ‘80, con i ‘divorzi’ delle banche centrali europee dai rispettivi governi, gli stati hanno rinunciato allo strumento della monetizzazione dei deficit di bilancio e sono stati obbligati ad emettere in ogni caso titoli. La monetizzazione in determinate circostanze creava inflazione, ma non accumulazione di titoli. L’inflazione avrebbe forse potuto funzionare da fattore disciplinare, obbligando prima o poi i governi a reagire, contenendo e ristrutturando le spese. Questo avrebbe lasciato, spentasi l’inflazione, solo prezzi più alti, ma non un accumulo di titoli. Ma le banche centrali hanno sentito l’esigenza di essere loro il fattore disciplinare, lasciando al futuro un notevole stock di titoli. Questo stock serve ora per un verso ad alimentare fasulli sensi di colpa nei confronti delle generazioni future, per un altro e grazie a manovre forzate sullo spread per creare occasioni di guadagno per le banche dei paesi nordeuropei, ed infine per consentire il QE, ritornando paradossalmente, ad una forma nuova e distorta di monetizzazione.
Proprio per questo sarebbero da approfondire anche i problemi di oggi, quelli creati dal fatto che l’accumulazione di mezzi monetari presso le banche, associata alla pratica del QE, non si tramuta per lungo tempo in domanda ma resta nel circuito bancario, senza alcuna possibilità di escludere che si travasi nel circuito speculativo. Non solo, ma bisognerebbe anche tornare a riflettere su tassi di interesse e pensioni. Negli scorsi decenni, nel parossismo della vocazione anti-statale e dell’esaltazione della finanza, si sono volute le riforme pensionistiche e una valorizzazione dei fondi pensione, buttando a mare senza grande lungimiranza i sistemi solidaristico-pubblici inventati nell’Ottocento da quel gran progressista di Bismark.
Le valorizzazioni degli accantonamenti facevano conto sul bengodi dei guadagni finanziari ma avevano in ogni caso uno zoccolo di salvataggio nei tassi di interesse positivi. E ora, e per molti anni a venire tenendo conto della “necessaria gradualità” della ripresa stimata da Draghi, che succederà?
Secondo Draghi il QE è stato un successo, nella misura in cui ha contribuito nonostante tutto a dare un sostegno alla domanda. Se non vi fosse stato, infatti, la situazione sarebbe stata molto peggiore, come mostrano le stime interne effettuate dalla Banca sulla base dei suoi modelli econometrici. Devo dire che, questa volta, c’è quasi da credergli.
Peccato che il Presidente non ricordi per un verso gli errori di stima della ripresa produttiva (che per il Presidente c’è, ancorché “mild”), per l’altro che il gioco dei sofisticati modelli non basta a smentire le palesi incoerenze tra stime, modelli e comportamenti pregressi della Banca.
Mi limito a ricordare a titolo esemplificativo che statutariamente l’obiettivo primario della BCE era la stabilità dei prezzi, quantificata nel 1998 come il 2% come tetto massimo e più tardi (maggio 2003) come il 2% quale target da perseguire (la differenza è tutt’altro che banale).
La stima della BCE su quale dovesse essere il tasso di aumento della base monetaria M3 da perseguire quale linea guida, sempre ritenuta coerente con l’obbiettivo del 2%, era del 4,5% annuo. Tale stima corrispondeva ad una aspettativa della crescita media del prodotto lordo del 2-2,5% e ad una stima della riduzione della velocità della circolazione della moneta (la grandezza più sfuggente da stimare che io conosca) dell’ordine del 0,5-1%. Quel che è stato sottaciuto – e forse non è elegante ricordarlo- è che la creazione di moneta è stata di molto (a tratti più del doppio) superiore e che l’inflazione è restata in linea con il 2%.
Questo evento appare davvero straordinario, e difficilmente giustificabile all’interno dell’aritmetica della BCE, i cui addendi sono solo l’aumento del Prodotto Lordo e la velocità di circolazione della moneta. Per sapere dove possa essere finita la moneta in eccesso che non ha generato inflazione occorre uscire da quella aritmetica e fare l’ipotesi, davvero ardita, che la moneta sia andata ad alimentare il valore degli stock di ricchezza; abbia generato, cioè, inflazione dei titoli finanziari e della ricchezza immobiliare, in pratica abbia alimentato la bolla speculativa. Si noti che mentre l’inflazione dei flussi di merci prodotti è stata storicamente considerata un male (è solo dagli anni 2000 che si persegue il 2% di inflazione), l’inflazione dei valori di ricchezza sembra essere considerata una benedizione da stati, media, banche e assicurazioni; in pratica da tutti salvo i più poveri.
Bisogna peraltro riconoscere che, ad un certo punto, la BCE è divenuta conscia della bolla, ma ha preferito non disinnescarla “anzitempo”, bensì limitarsi ad un lievissimo contrasto (il principio del “leaning against the wind” inventato da Trichet nel 2005), contando invece risolutamente sulla sua capacità (non si capisce se fiduciosa o solo arrogante) di rimediare a tutto dopo l’esplosione della bolla. Abbiamo visto gli esiti.
Nonostante il QE le banche non prestano denaro all’economia reale. Di qui l’invenzione del T-ltro, strumento che premia le banche che tali prestiti fanno, proporzionalmente allo sforzo nel farlo. Sarebbe stato carino, a dir poco, fare una riflessione sull’insuccesso dei precedenti tentativi.
Infatti, se il credito non aumenta, a fronte di una forte disponibilità di liquidità, ciò potrebbe dipendere da due ragioni, non mutualmente esclusive: l’eccessivo rischio per le banche e il fatto che siano invece le imprese a considerare eccessivo il rischio di investire (caso cui ci si riferisce dicendo che non si può obbligare il cavallo a bere).
La prima ragione non è priva di plausibilità nella misura in cui le banche già soffrono di portafogli di crediti poco affidabili, quando non inesigibili, e quindi vedono come rischioso un aumento della loro esposizione creditizia, del tutto indipendentemente dall’affidabilità delle nuove domande di credito. Tutto ciò comincia a far rimpiangere i vecchi istituti di credito a medio e lungo termine e la loro professionalità valutativa e a far pensare che le varie riforme bancarie abbiano fatto disimparare alle banche il loro mestiere di base, cioè la scelta su a chi far credito.
La seconda ragione è che la condizione fondamentale per cui le imprese potrebbero investire è costituita da un aumento affidabile e duraturo della domanda, condizione necessaria ancorché non sufficiente per fare profitti. Chiunque sa che in assenza di una vera politica fiscale, quella che comporta necessariamente il deficit, non si può fare affidamento su una ripresa stabile della domanda, se non nella limitata misura in cui il credito a basso interesse concesso per i mutui edilizi si riverberi in parte nel settore delle costruzioni e delle ristrutturazioni edilizie. Questo naturalmente Draghi lo sa, ma non può dirlo perché toccare i fili del patto di stabilità vuol dire morire.
Sembra, infine, che i tedeschi siano molto irritati. In parte i motivi del dispiacere sono politico-ideologici e hanno a che fare con l’idea che con questi tassi di interesse e con questa inondazione di liquidità i fattori disciplinari che funzionavano nei confronti dei paesi deboli grazie a spread elevati si indeboliscono oltre misura. In parte tuttavia i malumori hanno a che fare con la prospettiva di una scarsa dinamica dei valori dei fondi di investimento, che è una componente fondamentale del sostegno ai vecchi risparmiatori, nonché dell’incentivo ai nuovi. La delusione dei risparmiatori potrebbe avere rilevanti contraccolpi politici. Una reazione possibile, ancorché non probabile, che portasse a una minore formazione di risparmio, farebbe invece bene alle economie perché significherebbe una ripresa della domanda. I paesi nordici temono anche che le scorte monetarie che si formano attraverso le politiche della BCE possano scatenare un’inflazione rilevante (una sorta di overshooting), che non implicherebbe necessariamente un miglioramento nella ripresa dell’economia reale. È arduo esplorare una tale prospettiva, ma quest’interrogativo – come gli altri – meriterebbe una riflessione più seria dei pochi cenni fatti nel corso della conferenza stampa di Mario Draghi.