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Le armi spuntate dell’Europa nella “guerra” al virus

Di fronte all’epidemia, politica monetaria e politica fiscale servono a poco se non sono coordinate fra loro e a livello europeo: un coordinamento che le istituzioni Ue non sono pronte a esercitare. Manca un governo federale per ripartire i costi dell’emergenza e armonizzare i comportamenti degli Stati.

Il 20 marzo scorso attraverso un pubblico messaggio Ursula von der Leyen ha comunicato che la Commissione europea, per la prima volta, ha proposto l’attivazione della clausola di sospensione (escape) del Patto di stabilità e crescita (SGP), al fine di consentire a ogni paese di usare gli strumenti fiscali necessari ad affrontare al meglio la pandemia.[1]

L’annuncio della sospensione del SGP si lega all’intervento della BCE che, dopo la frase infelice di Christine Lagarde, ha proposto un programma da 750 miliardi di euro (almeno fino alla fine del 2020) per l’acquisto di titoli pubblici e privati. Sembrano, quasi contestualmente, entrare in campo per contrastare/mitigare gli effetti della pandemia sull’economia del continente sia la politica fiscale che quella monetaria. Sono misure straordinarie che hanno fatto chiedere a più di un commentatore se dobbiamo prepararci a un’economia di guerra.[2]

In effetti le misure straordinarie che i singoli Stati stanno preparando o già mettendo in atto richiamano da vicino, quantomeno nelle dimensioni e nella rapidità di esecuzione, ciò che gli Stati facevano in tempo di guerra. Sotto la minaccia di una invasione o nella necessità di sconfiggere il nemico, i governi assunsero per alcuni anni un ampio controllo sulla dimensione e la composizione del reddito nazionale, nonché sulle attività economiche.

Da una parte intervennero per regolare il volume della produzione, delle attività finanziarie e della circolazione monetaria, dall’altra vietarono una serie di attività e transazioni commerciali e finanziarie o le sottoposero a stretti vincoli autorizzativi. Per aiutare i cittadini imposero il calmieramento dei prezzi dei beni di prima necessità e sussidiarono o controllarono direttamente una serie di attività ritenute strategiche per la vittoria sul nemico. Tutte misure, che mutatis mutandis, vediamo messe in campo per arginare e fermare la diffusione del coronavirus e per contrastarne gli effetti negativi sull’economia, giustificando dunque l’ampio ricorso a metafore belliche nella lotta contro la malattia.

Tuttavia per quante siano le affinità, occorre ricordare alcune importanti differenze, dal punto di vista sia strettamente macroeconomico che politico.

Partiamo col dire che durante una guerra un paese si trova a fronteggiare un drastico aumento della domanda aggregata, unita ad un altrettanto drastico cambiamento nella composizione della sua produzione: la spesa militare cresce esponenzialmente; la produzione totale non può aumentare più di tanto e, a causa dei danni bellici o delle limitazioni alle importazioni, potrebbe addirittura diminuire; i consumi vitali della popolazione devono comunque essere mantenuti. Tutto questo genera una forte spinta inflazionistica che deve essere contrastata con strumenti monetari, amministrativi e finanziari che mirano a imbrigliare e ridurre al minimo la circolazione monetaria e i consumi privati. L’inflazione sarà alimentata anche dalla necessità di finanziare, almeno in parte, le spese belliche del governo con emissione di moneta, non essendo possibile finanziarla oltre un certo limite solo con emissione di debito pubblico o l’imposizione di nuove tasse.

Oggi certamente la situazione è diversa: le nostre economie sono bloccate e le transazioni di mercato sono sospese. Tuttavia, la nostra capacità produttiva è intatta, anche le infrastrutture sono intatte, la manodopera e il lavoro qualificato sono ampiamente disponibili e pronti all’uso. Allo stesso tempo la domanda aggregata al netto della spesa pubblica (in questo caso sanitaria) si contrae drammaticamente: una fetta importante della popolazione (professionisti, partite Iva, lavoratori precari) vede il suo reddito personale drasticamente ridotto, se non addirittura annullato dal blocco generalizzato degli scambi. Nel frattempo, il crollo dei valori azionari colpisce la ricchezza delle famiglie, riducendo il valore dei loro portafogli. Dunque, per quanto riguarda la domanda, non c’è alcuna pressione inflazionistica né attuale, né prospettica.

A questi effetti sull’economia privata occorre aggiungere quelli sul bilancio pubblico. Avremo un aumento del deficit, dovuto a tre effetti che lo fanno muovere nella stessa direzione: un aumento della spesa pubblica per la sanità e per la protezione civile, l’aumento dei trasferimenti alle famiglie e alle imprese per sostenere i redditi dei lavoratori, la riduzione del gettito fiscale dovuto da una parte al rinvio di alcune scadenze fiscali e dall’altra al blocco della produzione.

Quello che ci aspetta è dunque un deficit a due cifre: ma come verrà finanziato? E come sarà possibile impedire una crescita insostenibile del debito pubblico?

Nuovamente ci torna utile riflettere sull’esperienza dei paesi in guerra. Durante i grandi conflitti del XX secolo i paesi ebbero alcuni strumenti a disposizione:

  1. incrementare le tasse per sostenere la spesa corrente (da dedicare prioritariamente alla produzione domestica);
  2. emettere titoli del debito pubblico, assorbiti dai maggiori risparmi dei cittadini e delle banche, con l’effetto secondario di indurre una riduzione dei consumi interni, ridurre il credito per le imprese e sostenere la bilancia commerciale;
  3. stampare moneta per pagare i beni necessarie alle attività belliche;
  4. usare l’oro in deposito e le riserve estere per pagare le importazioni, oppure prendere a prestito dall’estero (come fecero Francia e Inghilterra nella prima guerra mondiale indebitandosi con gli Usa).

Pensare di usare la tassazione in questo momento è fuori luogo; bloccata la produzione vedremo una riduzione del gettito fiscale. Inoltre, non possiamo usare riserve e oro perché queste sono nella disponibilità della BCE e non dei singoli Stati nazionali. Rimangono come opzioni quella di prendere a prestito sui mercati interni e/o esteri e quella di creare moneta (punti 2-3 sopra citati).

A ben vedere, però, queste opzioni o non sono praticabili, oppure cambiano di prospettiva se si pensa alla separazione istituzionale che per i paesi dell’eurozona esiste fra politica monetaria e politica fiscale. Questa è per noi la vera differenza fra una guerra in cui istituzioni monetarie e responsabili della politica fiscale non fanno riferimento ad un’unica entità statuale ma sono sincroni nelle decisioni. È questa la differenza più rilevante fra BCE e la Banca Centrale americana, la Federal Reserve.[3]

A nostro avviso, prendere a prestito sui mercati potrebbe essere chiaramente insostenibile: il rapporto debito/Pil sta già aumentando per l’effetto combinato dell’aumento del deficit, della riduzione del Pil e dei maggiori tassi d’interesse dovuti alla sfiducia e all’incertezza dei mercati sui tempi della crisi. Aumentare il ricorso dei paesi al meccanismo del MES o emettere eurobond per finanziare il deficit dei singoli paesi sembrano cure peggiori del rimedio: esse rischiano, infatti, di appesantire ulteriormente la situazione finanziaria di molti paesi, imponendo inoltre a garanzia dei prestiti nuove misure di austerità che generano sfiducia nelle famiglie e nelle imprese, riducendo ulteriormente le prospettive di crescita a medio e lungo termine.[4]

In questa situazione, la politica monetaria espansiva avviata dalla BCE dopo le infelici e inopportune dichiarazioni del suo Presidente, può essere efficace nel frenare la crescita degli spread, evitando una drammatica crisi finanziaria che segnerebbe, senza dubbio, anche la fine della moneta unica. Tuttavia, politica monetaria e politica fiscale servono a poco se non sono coordinate fra di loro e a livello europeo. Soprattutto, in questa situazione la politica fiscale è l’unico modo, a nostro avviso, per rendere efficace l’espansione monetaria e trasformarla in una effettiva crescita del reddito.

Vari economisti hanno proposto in questi giorni di rispondere all’emergenza Covid-19 con un collegamento più forte tra emissione di moneta, spesa pubblica e creazione di reddito per i cittadini. Nouriel Roubini, per esempio, ha proposto il ricorso a helicopter money puro. In questo caso, l’economista americano chiede alle banche centrali di stampare moneta e darla direttamente ai cittadini (con un bonifico sul conto corrente).

In alternativa la BCE potrebbe fare un helictopter money acquistando direttamente sul mercato primario il debito emesso dagli Stati, cosa che al momento è vietata dai Trattati.[5] Questo intervento avrebbe sicuramente un vantaggio: l’interesse praticato sarebbe senz’altro più basso di quello di mercato, permettendo ai paesi di ridurre il costo del servizio del debito.

Tommaso Monacelli sottolinea però l’importanza di un intervento di tipo temporaneo per non alimentare l’inflazione. Si tratta, a nostro avviso, di un rischio effettivo, ma che non deve essere sopravvalutato.

Come abbiamo detto sopra, mentre in guerra (così come in un regime di piena occupazione) l’emissione di moneta ha come conseguenza certa l’inflazione (che permette allo Stato di tassare subdolamente i cittadini), la congiuntura attuale è, da questo punto di vista, completamente diversa: la domanda è depressa e la capacità produttiva non utilizzata enorme. Questo sarà ancor più vero quanto più lungo sarà il periodo di isolamento e la riduzione dei redditi.

Allo stesso tempo, a soffrire enormemente saranno gli investimenti delle imprese messi in stand-by e le esportazioni, dato che il contagio attraverso il commercio, era già evidente dai primi effetti della crisi di Wuhan. Nel nostro caso è difficile immaginare che ci sia un eccesso di domanda. L’aumento della moneta in circolazione, dovuta alla monetizzazione del debito e/o all’helicopter money puro, non andrebbe a incrementare il livello dei prezzi ma a sostenere la domanda di beni e servizi necessari. Inoltre, una volta finita la quarantena lo spazio di capacità inutilizzata limiterà ulteriormente la pressione inflazionistica almeno per un po’.

Resta evidente che l’asincronia istituzionale e il difficile coordinamento fra politica fiscale (nazionale) e politica monetaria (per l’intera area euro) possano diventare il vero problema sia in questa fase emergenziale che in quella, si spera non tanto distante, del recupero. È chiaro che uno stretto coordinamento tra politica monetaria e politica fiscale deve adesso prendere piede in Europa. Un coordinamento che, al momento, le istituzioni europee non sembrano pronte a esercitare con la dovuta energia e lungimiranza. Siamo evidentemente orfani di un Governo Federale, tassello mancante del processo di unificazione europea, sia per suddividere al meglio i costi sociali dell’epidemia che per limitare i comportamenti opportunistici/egoistici degli Stati membri.

In questo momento non serve un coordinamento, lasciato al buon cuore ma soprattutto agli egoismi dei singoli Stati membri. Serve un Governo Federale con responsabilità politiche chiare che porti avanti un progetto comune: la salvaguardia dei cittadini europei.

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Note

[1] Dopo l’approvazione da parte del Consiglio europeo, gli Stati membri non dovranno più rispettare le strette regole che, dall’inizio del processo di unificazione monetaria, hanno imbrigliato i bilanci e quindi la politica fiscale.

[2] Cfr. ad esempio Giovanni Carnazza ed Emilio Carnevali, “Dobbiamo prepararci a un’economia di guerra?”, in Sbilanciamoci.info, 20 marzo 2020.

[3] Cfr. Sebastiano Nerozzi e Giorgio Ricchiuti, “Il Segreto della Federal Reserve”, in Aspenia, n. 87, dicembre 2019.

[4] Per fare un esempio concreto è come se, per un commerciante, affidabile e solvente, ma colpito da un periodo di malattia che gli impedisce di lavorare e guadagnare, sentisse offrirsi dalla sua banca, invece di uno scoperto di conto corrente o un piccolo prestito al consumo, l’accensione di un mutuo ipotecario sulla propria casa o sul proprio negozio. Francesco Lenzi su “Il Sole 24 Ore” del 21 marzo (“Italia insolvente? Ecco che cosa rivelano le parole di Conte sul Mes”), ci ricorda che i prestiti del Mes non sono semplicemente una linea di credito, ma nuovo debito pubblico.

[5] Conformemente all’articolo 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, «è vietata la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia da parte della BCE o da parte delle banche centrali nazionali, a istituzioni o agli organi della Comunità, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di settore pubblico o ad imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della BCE o delle banche centrali nazionali». Cfr. anche l’art. 21 del Protocollo sullo Statuto del Sistema Europeo di Banche Centrali e della BCE.