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Il viaggio dell’Ecuador alla ricerca del proprio padrone

A due anni e mezzo dall’elezione di Lenin Moreno, il paese sudamericano sembra ritornare ancora una volta sotto il giogo statunitense, dopo la breve esperienza di sottomissione al potere cinese.

Dall’inizio di ottobre 2019 migliaia di persone, per la maggioranza indigene, sono scese in piazza in Ecuador per protestare contro le politiche di austerity imposte dal presidente Moreno con il beneplacito del Fondo monetario internazionale.

Lo scenario degli ultimi giorni vede il presidente abbandonare Quito e il palazzo presidenziale per rifugiarsi nella più tranquilla Guayaquil. Al di là dello svolgersi delle ultime vicende, agli addetti ai lavori non può che sembrare uno scenario preannunciato, già dalle elezioni del 2017.

Molte delle iniziative e delle idee proprie della Revoluciòn Ciudadana del 2007 sembrano essere state accantonate dal nuovo governo, in favore di una strada già battuta e che poco ha a che fare con quel cambio di paradigma delineato dalla Costituzione di Montecristi e dai precetti del Sumak Kawsay. Non a caso, uno dei primi provvedimenti del nuovo governo è stata la chiusura della Segreteria del Buen Vivir. E non è un caso che i più forti oppositori di questa inversione di rotta, siano proprio coloro che maggiormente favorirono la nascita del nuovo modello di sviluppo del Buen Vivir, ovvero le comunità indigene ecuadoriane. La preoccupazione maggiore degli indigeni scesi in piazza, rappresentati da varie organizzazioni tra cui la CONAIE, è che l’accordo tra il governo e il FMI aumenterà di fatto la disuguaglianza nel Paese. Già tradite più e più volte, le popolazioni indigene sono tra le più vessate dalle politiche neoliberali e coloro che maggiormente soffrono la disuguaglianza, insomma “ultimi tra gli ultimi”. Rappresentano però una forza popolare in grado di ribaltare governi e far valere le proprie ragioni, come già successo in passato, quando riuscirono a far dimettere e fuggire altri due presidenti, Jamil Mahuad nel 2000 e Lucio Gutiérrez 2005.

Lenin Moreno, già vicepresidente di Rafael Correa e candidato di Alianza País alle presidenziali del 2017, sin dal suo insediamento ha cercato di smarcarsi dal suo predecessore, strizzando l’occhio agli alleati di un tempo e cercando di rientrare nelle grazie dell’establishment occidentale. Il nuovo presidente Moreno ha fatto di Correa l’obiettivo principale della sua propaganda, accusandolo di fomentare le rivolte e incolpandolo dei problemi economici e sociali dell’Ecuador. In particolare, Lenin Moreno lamenta di aver ereditato un debito enorme e di come i provvedimenti e gli investimenti del governo Correa fossero inutili e dispendiosi. E mentre per finanziare gli investimenti e la spesa pubblica Correa si era rivolto principalmente alla Banca di Sviluppo Cinese, Moreno ha deciso di ritornare al finanziamento da parte del FMI.

Se da un lato è vero che già il precedente governo aveva tentato un riavvicinamento con le istituzioni multilaterali di Washington, Moreno prosegue questo “tradimento”, consegnando di fatto il Paese a un nuovo ciclo di riforme e obblighi, imposti come un diktat da parte del Fondo monetario. Tra le varie azioni portate avanti dall’attuale governo del Paese, spiccano nella migliore tradizione del Washington Consensus licenziamenti e tagli dello stipendio per i funzionari statali. Lo stesso taglio ai sussidi del carburante è dovuto agli impegni assunti col Fondo monetario internazionale.

Per quanto la situazione economica e sociale sia di elevata gravità, è soprattutto la volontà politica a essere allarmante, non solo per le conseguenze che ne deriveranno, ma anche e soprattutto per una sensazione di déjà-vu e ritorno alle origini che nessuno si augurava per il Paese sudamericano. Come suggerisce Alberto Acosta tutta l’America Latina sta assistendo al ritorno della “lunga e triste notte neoliberale”, con la maggior parte dei Paesi che si schiera contro il Venezuela e a favore di un’intesa con gli Stati Uniti. Ne è la prova l’adesione di molti stati al PROSUR (Foro para el Progreso y Desarrollo de América del Sur), l’organizzazione degli stati sudamericani in antitesi alla già esistente UNASUR (Unión de Naciones Suramericanas), creato per contrastare il governo venezuelano e raggruppare i governi di destra sotto una nuova intesa. L’Ecuador ha dichiarato la propria uscita dall’organizzazione a marzo 2019, facendo seguito alla stessa scelta operata dal governo brasiliano giorni prima.

Altro evento rappresentativo di questo cambio, è stata l’espulsione dell’attivista Julian Assange, fondatore di Wikileaks, dalla propria ambasciata a Londra. Per quanto questo fatto sia stato presentato come una risposta alle violazioni degli accordi di Assange con l’ambasciata, è facile ritenere che il gesto di Moreno sia stato fatto, dopo sette anni di permanenza nell’ambasciata, come un regalo ai ritrovati alleati occidentali.

Il riavvicinamento ai vecchi alleati (se di alleati e non padroni si può parlare) non sarebbe da vedere, di per sé, come una nota negativa. La preoccupazione maggiore è la stessa già evidenziata in altri lavori, ovvero che l’Ecuador non abbia appreso nulla dai propri errori, ma che continui a ricercare una dipendenza economica, politica e commerciale verso un padrone più o meno allineato con l’attuale agenda del governo in carica. Per quanto si possa capire e comprendere che un governo debba ricercare qualsiasi mezzo per far fronte alle difficoltà economiche e sociali del proprio Paese, solo il tanto auspicato e mai realizzato cambio di matrice produttiva consentirebbe al Paese di ridurre la propria dipendenza dalle materie prime, consentendo all’Ecuador una maggiore resilienza in caso di forti fluttuazioni nel prezzo dei beni primari. Solo così facendo potrebbe finalmente liberarsi dalla schiavitù del debito, che lo obbliga di volta in volta, a cercare un nuovo padrone da cui ricevere ordini e da dover compiacere per ogni capriccio. L’augurio per l’Ecuador è che, alla fine del suo viaggio, possa ritornare a essere padrone di sé stesso senza dover più bussare alla porta di nessuno se non del suo popolo.