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Formazione e tecnologie, un testo importante

Pamphlet e manuale sullo sviluppo dei modelli organizzativi “L’ecosistema della formazione”, Egea, si confronta con le nuove sfide tecnologiche e i ritardi imprenditoriali.

Formazione e tecnologie in Italia

Appare piuttosto inconsueto che su questo sito si pubblichino delle recensioni di libri che trattano di temi, anche in senso lato, di tipo   manageriale. Ma il volume da poco uscito, a cura di Raoul C.D. Nacamulli e Alessandra Lazazzara, dal titolo L’ecosistema della formazione, Egea, Milano, 2019, 412 pagine, che parla di formazione gestionale e sviluppo organizzativo, con particolare riferimento all’avvento sempre più invasivo delle nuove tecnologie, merita perlomeno un certo spazio e questo per alcune ragioni di tipo generale, oltre a quella relativa alla qualità del testo.  

Intanto il volume parla con competenza delle questioni della formazione manageriale, attività di cui  i due curatori si occupano, sia pure in ruoli diversi, da parecchio tempo. Raoul Nacamulli è professore di organizzazione aziendale presso l’Università di Milano Bicocca e Alessandra Lazazzara ricercatrice, sempre di organizzazione aziendale, presso l’Università di Milano. Collaborano all’opera circa 25 esperti di varia estrazione e competenze (provenienti da business school, da vari dipartimenti di alcune università, nonché dal mondo della consulenza) e il loro apporto contribuisce ad assicurare una pluralità di punti di vista ed esperienze su tutta la materia. 

Ora, bisogna subito sottolineare che in Italia la formazione – come sostanzialmente del resto tutte le attività che hanno per necessità un orizzonte di lungo termine, dalla ricerca alla pianificazione- sia sostanzialmente e tradizionalmente reietta nel mondo delle imprese e in quello del settore pubblico. Formazione e ricerca sono inoltre, normalmente, le prime attività con budget tagliati anche drasticamente non appena sopraggiunge qualche difficoltà sui mercati. Naturalmente non manca qualche eccezione.

Quanto stiamo raccontando appare, tra l’altro, come facile spia della scarsissima lungimiranza che le classi dirigenti economiche, finanziarie, politiche nazionali mettono in quello che fanno, anche se questa è una constatazione ormai abbastanza ovvia. 

Peraltro la situazione su questo fronte, già diversi decenni fa abbastanza cattiva, si è in generale deteriorata con il tempo nel nostro Paese.

Diversi decenni fa, quando avevamo ancora un certo numero di grandi imprese (ora, come è noto, esse si sono molto ridotte come quantità), al contrario delle aziende di più ridotte dimensioni, queste grandi imprese dedicavano alle attività formative qualche interesse, ma, a nostro parere, in molti casi più perché bisognava farlo per una questione di immagine e di cattiva coscienza che per convinzione. Così, a volte, si costruivano fisicamente dei centri appositi di formazione manageriale anche con un certo dispendio di denaro, magari in qualche località amena, ma poi si faceva molta fatica a riempire di contenuti la scatola che si era messa in piedi. Per altro verso, in quello che si insegnava si copiavano normalmente stantii modelli statunitensi, con scarsa attenzione invece alla realtà del nostro Paese e a quella europea. Di frequente si trattava di uno strumento, quello formativo, che serviva a fabbricare consenso, mentre raramente lo si utilizzava per accompagnare le necessarie trasformazioni organizzative. 

Ma complessivamente la spesa per l’istruzione e per la formazione era nel nostro Paese,  largamente – quantitativamente ed anche qualitativamente – inferiore a quella degli altri Paesi occidentali. 

C’era naturalmente qualche eccezione; ad esempio, bisogna sottolineare come alcune imprese pubbliche, – ad esempio la Italsider o la Dalmine, per citare soltanto qualche nome – si trovassero all’avanguardia nello sviluppo organizzativo e nelle tecniche di gestione nel nostro Paese; sul piano specifico della formazione manageriale, poi, va ricordata la scuola del gruppo Iri, l’IFAP, poi travolta dai ben noti e sciagurati processi di privatizzazione di gran parte di quello che era attività economica pubblica. Ancora nel campo del pubblico si può ricordare anche la scuola dell’Eni, tra le poche sopravvissute, ricordata nel testo di cui si parla in modo forse troppo elogiativo.

Per quanto riguarda poi il settore privato un accenno merita ovviamente, anche su ambedue i temi citati, la Olivetti di Ivrea. 

Ma praticamente quasi tutte le grandi strutture formative sono state da noi prima o poi inghiottite da difficoltà finanziarie, culturali, organizzative. 

A parte le nostre considerazioni generali sulla formazione manageriale nel nostro Paese, il libro si concentra nella sostanza sullo sviluppo organizzativo e i processi di formazione nel settore delle nuove tecnologie; e qui si deve aprire un secondo cahier de doleance.

Anche in questo caso, l’Italia si è sempre collocata agli ultimi posti tra i Paesi sviluppati anche per il rapporto spese di ricerca e sviluppo/Pil. 

Ora, con l’avvento in particolare delle tecnologie numeriche, non si può che constatare come Cina e Stati Uniti tendano a monopolizzare gli investimenti e le attività (compresa la formazione) nel settore, mentre l’Europa arranca molto indietro e con difficoltà. In tale quadro molto arretrato bisogna ancora  constatare come l’Italia si collochi di nuovo agli ultimi posti anche in Europa; per alcuni versi anche la Spagna fa meglio. 

Dopo che per decenni l’Unione Europea aveva visto come anatema qualsiasi iniziativa di politica industriale a livello continentale e a quello dei singoli Paesi, cosa che è uno dei tanti problemi delle istituzioni continentali, Francia e Germania stanno ora cercando di organizzare dei piani a livello europeo in alcuni settori cruciali, quali quello delle batterie e quello dell’intelligenza artificiale, piani che toccano anche le attività di formazione; ma forse si tratta di troppo poco, troppo tardi, mentre gli altri Paesi del continente, tra l’altro, sembrano seguire passivamente i due leader. 

Ad ogni modo questo è il quadro di fondo in cui bisogna, a nostro parere, collocare il volume dei due autori.

Il contenuto del volume

Il testo, che consta di circa 410 pagine di grande formato, copre una grande varietà di temi, così da costituire sostanzialmente un manuale, diviso in quattro parti, precedute da un’introduzione generale. Tutte le suddette parti sono anch’esse introdotte da un testo   preparato dai due curatori e sono poi seguite da un certo numero di contributi specifici. 

La prima si occupa dei modelli di formazione emergenti (e qui il catalogo appare ricco, dalla formazione lean, a quella on demand, a quella personalizzata; si discorre di quella formale e di quella informale; vi si tratta anche del digital social learning), la seconda degli attori del sistema (i dirigenti, gli startupper, i millennial, i professional), la terza di come sviluppare  le risorse sociali dell’ecosistema e la formazione per l’innovazione, la quarta infine delle infrastrutture dell’ecosistema e della formazione aperta (tra i temi sviluppati in questa ultima sezione si ricordano quelli del lavoro nell’era della quarta rivoluzione industriale, della certificazione delle competenze, dei sistemi di performance management).

Il testo parte dalla constatazione che la rivoluzione digitale ha mutato profondamente il mondo della formazione manageriale e dello sviluppo organizzativo, così come ha cambiato, aggiungiamo noi, molte altre cose nel mondo. D’altro canto, mai come ora, affermano i curatori, il bisogno di formazione e di sviluppo organizzativo, capaci di accompagnare il cammino delle aziende verso la quarta rivoluzione industriale, è stato così elevato.

Mentre concordiamo con tale dichiarazione, vorremmo comunque sottolineare  che essendo nel nostro paese le attività economiche legate alle tecnologie numeriche, come abbiamo già accennato,  piuttosto ridotte rispetto agli altri principali paesi europei, per non parlare di Cina e Stati Uniti, anche le attività di formazione e sviluppo organizzativo nel settore, che già hanno sempre sofferto per conto loro, hanno per necessità uno spazio relativamente ridotto su cui esercitarsi.

Il testo sottolinea peraltro come, con l’avvento delle tecnologie digitali, la possibilità di fare formazione “fai-da-te” gratuitamente e di frequente anche di buon livello si sia ampliata molto, accrescendo il “diritto soggettivo” alla formazione nella fascia di base della società della conoscenza. Parallelamente si assiste allo sviluppo di una formazione informale. Peraltro, sottolineano Nacamulli e Lazazzara, i confini tra formazione e comunicazione sono diventati sempre più labili, porosi e incerti, diventando spesso gli interventi nel settore dei puri eventi di marketing e alla fine anche di manipolazione, cercando di diffondere  un’immagine positiva dell’azienda sponsor. 

Il testo si caratterizza tra l’altro per la presentazione ed analisi di molti casi specifici aziendali. Significativo che tra quelli citati una parte consistente sia costituita da iniziative varate da gruppi esteri, in particolare statunitensi.

Lo smart working

Non c’è lo spazio per parlare sia pure brevemente di tutti i temi affrontati nel libro. Diremo quindi qualche parola solo su di uno dei  contributi specifici degli stessi curatori, quello in cui si discute dello smart working.

Si tratta di una forma organizzativa resa possibile dalla rivoluzione digitale e che consente di lavorare dovunque e a tutte le ore, superando anche il lavoro a distanza, rispetto alla quale forma esso rappresenta una discontinuità, perché mette apparentemente in discussione il ruolo di capo e di dipendente proprio del modello organizzativo tradizionale e, più in generale, gli schemi di lavoro gerarchici e burocratici basati sul controllo del comportamento. 

Per altro verso, quella di smart working è un’espressione-ombrello che può far riferimento a diverse configurazioni organizzative e che poggia comunque su tre pilastri: una diversa organizzazione degli spazi fisici, una flessibilità degli orari di lavoro e l’empowerment delle persone e dei gruppi di lavoro, in assenza dei modelli gerarchici tradizionali. Emergono la rilevanza delle relazioni informali, del lavoro di gruppo, dello sviluppo della creatività. 

Per altro verso bisogna stare attenti perché tali forme, mentre per alcuni rappresentano un fenomeno persino rivoluzionario, la formula organizzativa del futuro, come ricordano gli stessi autori, rendono  porosi i confini tra vita personale e vita di lavoro, producendo dei conflitti potenziali tra i due momenti, e potrebbero rappresentare un ritorno all’indietro, all’epoca pre-fordista, caratterizzata dalla cancellazione del lavoro a tempo indeterminato e dall’emergenza del lavoro a progetto o parasubordinato, avvicinandosi alle odierne e perverse attività lavorative che offrono società come Uber, Deliveroo e simili.

Da questo punto di vista il nuovo modello assomiglia, in qualche modo,  alla vecchia strumentazione della cosiddetta “direzione per obiettivi”, che sembrava anch’essa rappresentare, al momento della sua introduzione tanti anni fa, una larga apertura all’autonomia delle persone nell’organizzazione, ma alla fine era anche uno strumento per controllarle e indirizzarle meglio dall’alto.        

Alcune note

Alla fine il testo è certamente da raccomandare per chi professionalmente o per curiosità voglia affrontare, con attenzione (la lettura richiede comunque un certo sforzo intellettuale) e con una copertura molto ampia di argomenti, i mutamenti in atto nel mondo delle imprese in generale e delle attività di formazione e di sviluppo organizzativo in relazione all’avvento delle tecnologie numeriche in particolare. 

Da questo punto di vista il volume è certamente migliore dei tanti manuali “operativi” che circolano nelle librerie. Tra l’altro, esso mostra in maniera precisa un mondo in fortissimo movimento verso direzioni impensabili solo pochi anni addietro.

Se proprio si volesse fare qualche osservazione, si potrebbe ricordare come il libro si occupi in maniera forse troppo “tecnocratica” dell’argomento. Ma questo peraltro succede alla gran parte dei testi di management, anche a quelli migliori, e la cosa non deve sorprendere. Questo aspetto troppo “asettico” si sente in particolare in alcuni degli interventi. In altri termini, quello descritto nel volume è da una parte un mondo uguale sotto tutte le latitudini: quale la connessione, (che noi pensiamo strutturale ed organica), con il mondo del non lavoro e con quello di Uber o di Deliveroo e con le trasformazioni e le specificità sociali dei vari Paesi e delle varie imprese? Esistono anche l’impresa familiare e quella pubblica,  quella Usa e quella cinese: sono tutte uguali per quanto riguarda le tecniche analizzate? La tecnologia e le forme concrete della sua manifestazione costituiscono un fenomeno oggettivo e non modificabile?

Il mondo del lavoro sembra a nostro parere dirigersi per la gran parte – purtroppo – verso direzioni  peggiori di quelle che si intravedono nel libro, che descrive con precisione e competenza quello che avviene nella parte alta dell’edificio. Quest’ultimo era del resto  l’obiettivo dichiarato del testo e non gliene si può far carico oltre misura.

Raoul C.D. Nacamulli e Alessandra Lazazzara,
L’ecosistema della formazione, Egea, Milano, 2019, 412 pagine