I politici italiani sono abituati a scegliere le opere infrastrutturali “sulla base di interessi particolari e localistici”, mentre l’analisi costi-benefici è ancora vista come uno spauracchio
In un recente articolo apparso su Lavoce.info, Roberto Perotti affronta l’annosa questione dell’Expo da una prospettiva interessante, affermando che “il problema di Expo 2015 non è la corruzione né i ritardi. Il vero problema è che non avrebbe dovuto esistere. Quando, in preda ad una ubriacatura retorica collettiva, si rinuncia ad una seria analisi costi benefici, chi ci perde è la collettività”.
La tesi che Perotti sostiene nell’articolo è la seguente: “quando si rinuncia ad ogni considerazione razionale di costi e benefici per la collettività, il rischio è che, passata la sbornia retorica, i simboli di ieri divengano delle zavorre, o addirittura degli incubi”.
Probabilmente il progetto Expo 2015 – così come il Mose di Venezia – sono solo gli ultimi di una lunga serie di progetti nati senza fondamenta solide, ossia senza un’attenta analisi costi-benefici delle diverse alternative in grado di dimostrarne l’utilità economico-sociale, anche sotto il profilo ambientale.
Le fanno compagnia altri grandi progetti, come il Ponte sullo Stretto, che non aveva nei propri documenti progettuali una compiuta analisi costi-benefici in grado di dimostrare, attraverso una comparazione delle differenti alternative progettuali, la convenienza pubblica, in chiave economico-sociale, dell’intervento (1).
Sembra che il nostro paese, a differenza di altri, sia poco avvezzo, se non recalcitrante, all’utilizzo di metodologie finalizzate ad una valutazione quantitativa preventiva dei progetti.
Oltre ai principali paesi industrializzati, anche le principali istituzioni internazionali riconoscono l’importanza strategica dell’analisi costi-benefici dei progetti infrastrutturali. Fra queste, la Banca Mondiale (2), l’Ocse3 e, dulcis in fundo, la Commissione europea che, per favorire la diffusione dell’analisi costi-benefici come strumento per il miglioramento della qualità delle decisioni infrastrutturali, ha rilasciato prima nel 2003 e poi nel 2008 una Guida che definisce la procedura di analisi e uniforma i criteri valutativi e le metodologie per lo svolgimento delle diverse fasi di analisi (3).
Forse il problema è che per la classe politica italiana, abituata a scegliere le opere infrastrutturali, “sulla base di interessi particolari e localistici”, se non per soddisfare interessi personali (come dimostra puntualmente la cronaca giudiziaria), l’analisi costi-benefici è ancora vista come uno spauracchio, invece che come uno strumento essenziale per poter riuscire a decidere sulle opere pubbliche.
La questione è culturale, oltre che tecnica. La classe politica italiana ha radicato il convincimento che un’opera pubblica debba essere realizzata per il semplice fatto che manchi o sia carente nel bacino elettorale di riferimento. Anche la Banca d’Italia ha evidenziato come “le misure di dotazione fisica non sono un indicatore sufficiente a determinare la necessità di un investimento, né a valutare quale tipo di intervento possa avere l’impatto maggiore sul sistema produttivo. Occorre, invece, procedere ad una “sistematica comparazione dei costi e dei benefici di progetti alternativi” (4).
Tale situazione ha impedito che, nel corso degli anni, le risorse finanziarie si focalizzassero sugli interventi strategici individuati con una procedura oggettiva, preferendo – con una dichiarata volontà di procedere ad uno pseudo ri-equilibrio socio-economico dei territori – impegnare risorse finanziarie pubbliche su interventi locali, spesso “a pioggia”, di dubbia convenienza per la collettività e alcuni di questi diventati cattedrali nel deserto con completo spreco di risorse pubbliche.
Sulla stessa linea anche il documento redatto da Astrid, Italia Decide e ResPublica per conto del Ministero delle Infrastrutture, nel quale si legge che, nel processo decisionale, “occorre privilegiare quelle opere che abbiamo un saldo positivo tra benefici e costi, tenendo conto sia dei benefici diretti (ad esempio la riduzione dei costi di trasporto, rimozione di condizioni di scarsità, di estrema congestione o apertura di collegamenti tra mercati) sia di quelli indiretti nei confronti dell’economia nel suo complesso” (5).
Più che valutare – come sarebbe stato giusto – i progetti in chiave costi-benefici si è scelta la strada più breve: avallare le scelte particolaristiche e personalistiche sulla base del generico supporto alle decisioni costituito da un singolo indicatore di dotazione infrastrutturale, al quale è stato attribuito, spesso in malafede e con finalità prettamente elettoralistiche, un significato eccessivo e sbagliato.
La necessità è ormai evidente: non dovrebbe essere più consentito decidere sulle opere pubbliche se non sulla scorta di un’approfondita analisi di fattibilità che ne dimostri la convenienza per la collettività, tenendo conto di tutte le principali sfere di utilità collettiva di un progetto infrastrutturale: economiche, sociali ed ambientali.
Forse mancano delle norme che sanciscano l’obbligatorietà di questo percorso valutativo? No, l’assurdo è proprio questo. Le norme ci sono! Ma non sono rispettate. Il processo di attuazione previsto dalla normativa principale non è portato avanti con la necessaria attenzione politica. E l’esistenza di queste norme non è divulgata dalle istituzioni stesse, né dai mezzi di informazione.
Da qualche anno, infatti, lo Stato si è dotato di una normativa riformatrice che ha ridefinito i criteri di valutazione degli investimenti in opere pubbliche (Dlgs 228/2011 e DPCM 3 agosto 2012). In sostanza, questa normativa afferma che le opere pubbliche dei Ministeri, ivi incluse e a maggior ragione quelle strategiche, devono essere soggette ad una preliminare valutazione ex ante e successiva prioritarizzazione (in fase di programmazione complessiva) con metodologia costi-benefici, ovvero con una metodologia di analisi economica che secondo le raccomandazioni comunitarie deve includere (non solo i convenzionali benefici socio-economici ma) anche la valutazione dei costi esterni e/o dei benefici esterni di carattere ambientale.
Ma andiamo con ordine, ricostruendo i provvedimenti varati negli ultimi anni.
L’articolo 30, commi 8 e 9, lettere a), b), c) e d), della L. 31 dicembre 2009, n. 196– Finanziaria 2010 – aveva delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi, al fine di garantire la razionalizzazione, la trasparenza, l’efficienza e l’efficacia delle procedure di spesa relative ai finanziamenti in conto capitale destinati alla realizzazione di opere pubbliche.
Nel 2011 è stato emanato il Dlgs 228/2011, che costituisce attuazione del disposto della Finanziaria 2010 visto in precedenza, e che introduce sostanziali novità; in particolare, l’art. 2 del Dlgs 228/2011 prevede che “al fine di migliorare la qualità della programmazione e ottimizzare il riparto delle risorse di bilancio, ogni Ministero, nel rispetto delle procedure di valutazione d’impatto ambientale previste dalla normativa comunitaria, predispone un Documento pluriennale di pianificazione. Tale Documento, redatto con cadenza triennale secondo lo schema-tipo e in conformità alle linee guida di cui all’articolo 8 del Dlgs 228, si compone di tre sezioni:
· la Prima Sezione contiene l’analisi ex ante dei fabbisogni infrastrutturali;
· la Seconda Sezione illustra la metodologia e le risultanze della procedura di valutazione e di selezione delle opere da realizzare e individua le priorità di intervento;
· la Terza Sezione definisce i criteri per le valutazioni ex post degli interventi individuati e sintetizza gli esiti delle valutazioni ex post già effettuate”.
In termini diversi, in base alle prescrizioni del Dlgs 228/2011, i Ministeri sono tenuti a svolgere le attività di valutazione ex-ante ed ex-post per le opere pubbliche e di pubblica utilità a valere sulle risorse iscritte negli stati di previsione dei singoli Ministeri, ovvero oggetto di trasferimento da parte degli stessi a favore di soggetti attuatori, pubblici o privati, in forza di specifica delega, ovvero anche per le opere pubbliche che prevedono emissione di garanzie a carico dello Stato.
L’art. 8, comma 3 del Dlgs 228/2011 prevede, poi, che “al fine di garantire la predisposizione da parte dei Ministeri di linee guida standardizzate, il Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, definisce, con proprio decreto, un modello di riferimento per la redazione da parte dei Ministeri delle linee guida”.
Con l’emanazione del DPCM 3 agosto 2012(d’ora in poi, il DPCM) dal Titolo “Attuazione dell’articolo 8, comma 3, del decreto legislativo 29 dicembre 2011, n. 228 in materia di linee guida per la valutazione degli investimenti relativi ad opere pubbliche e del Documento pluriennale di pianificazione degli investimenti in opere pubbliche” si è chiuso il cerchio, in quanto è stato definito il modello di riferimento per la redazione, da parte dei Ministeri, di linee guida standardizzate relative:
· alla valutazione ex ante dei fabbisogni infrastrutturali;
· alla valutazione ex ante ed ex post dei progetti di investimento infrastrutturali.
Il DPCM ha delineato, in maniera coraggiosa, il “Framework di riferimento” che i singoli ministeri dovranno adottare per la redazione delle linee guida di valutazione per le opere pubbliche di propria competenza da inserire nei propri documenti di programmazione.
Fra le diverse metodologie disponibili, il DPCM effettua una scelta precisa a favore dell’analisi costi-benefici. Nel testo, infatti, si legge che “L’analisi costi-benefici è utilizzata come principale metodologia per la valutazione degli investimenti pubblici proposti e realizzati dalle amministrazioni centrali dello Stato”.
Non si limita, però, ad enunciare un principio o una modalità di valutazione, ma va oltre, lì dove prevede che “I Ministeri garantiscono che soltanto progetti valutati e approvati saranno selezionati per essere finanziati con le risorse di bilancio”. Infine, è previsto che “I progetti non finanziati per mancanza di disponibilità finanziarie saranno identificati e classificati in un apposito inventario dei progetti favorevolmente valutati con un ranking che ne rappresenta la priorità di accesso a futuri finanziamenti”.
Le scelte effettuate dal DPCM sono importanti e, in un certo senso, innovative per le modalità decisionali tipiche della politica, almeno per tre motivi:
· i ministeri inseriranno nei loro documenti programmatici solo le opere che sono state preventivamente valutate in chiave economico-sociale (valutazione ex ante); infatti, la valutazione ex ante delle singole opere è “l’attività di valutazione effettuata, di regola, attraverso tecniche proprie dell’analisi costi-benefici, finalizzata ad individuare le soluzioni progettuali ottimali per il raggiungimento degli obiettivi identificati nella valutazione dei fabbisogni infrastrutturali”. In questo modo viene sancita la necessità di valutare le opere pubbliche da un punto di vista del benessere collettivo, e non solo privatistico. Saranno proposte per la finanziabilità le opere che arrecano la maggiore utilità economico-sociale. Questo dovrebbe evitare che le opere da realizzare vengano selezionate sulla base di “meccanismi decisionali irrazionali”;
· la procedura valutativa introdotta è trasparente e verificabile, in quanto basata su linee guida e procedure di calcolo definite dalla Pubblica Amministrazione;
· le valutazioni ex ante hanno l’obiettivo di definire un criterio ordinamentale, nel senso che le opere dovranno essere realizzate secondo una priorità che ne rispecchi il grado di convenienza economico-sociale. In una situazione di risorse scarse, dovrà essere attribuita priorità realizzativa alle opere pubbliche che presentino maggiori livelli di utilità economico-sociale. Questo eviterà che progetti non supportati da un evidenza scientifica di convenienza dal punto di vista della collettività possano essere sviluppati e realizzati.
In tale contesto, il DPCM trasforma, in maniera ottimale, le enunciazioni di principio contenute nella legge 31 dicembre 2009, n. 196 (trasparenza, efficienza ed efficacia della spesa) in processi valutativi puntuali e definiti, finalizzati alla razionalizzazione (e all’ottimizzazione) della spesa pubblica per investimenti.
Il complesso normativo in sostanza dice due cose semplicissime:
· non si possono spendere risorse pubbliche se l’opera che si vuole realizzare non crea benessere sociale, ossia se l’opera non incrementa l’utilità collettiva intesa come entità misurabile in termini quantitativi e valutabile con indicatori propri dell’analisi costi benefici (valore attuale netto per la collettività, il tasso interno di rendimento per la collettività, il rapporto fra i benefici e i costi per la collettività, per ricordare i principali);
· in una situazione di risorse finanziarie limitate, è opportuno e necessario prioritarizzare gli interventi infrastrutturali sulla base del beneficio netto che le stesse sono in grado di arrecare, preventivamente quantificato dai proponenti di progetto e validato dai nuclei di valutazione delle amministrazioni stesse.
Peccato che, allo stato attuale, il testo normativo sia rimasto lettera morta e le decisioni sulle infrastrutture sono prese esattamente come venivano prese nel passato.
Il rischio che si corre è grande: se i Ministeri non danno attuazione al complesso normativo richiamato, e se non lo attuano con la necessaria consapevolezza, questa riforma osteggiata non solo dai “poteri forti sulle infrastrutture”, ma anche da una cultura politica poco orientata alla misura oggettiva delle sfere del benessere collettivo e recalcitrante verso strumenti di supporto che potrebbero invece aiutarla a sbloccare interventi essenziali per rilanciare lo sviluppo e l’occupazione, rimarrà insabbiata e finirà per essere dimenticata, come sta accadendo.
In tale contesto, l’analisi costi-benefici ha proprio questo compito: quello di quantificare le diverse voci di costi e di beneficio (economici, sociali ed ambientali) di una specifica infrastruttura, e di dire no se i conti per la collettività (cittadini e imprese) non tornano, ossia se i costi sociali ed ambientali superano i benefici.
In altri termini, dire no se l’opera serve solo al proponente o all’amico del politico, dire sì solo a quei progetti che dimostrano, sulla base di un procedimento di calcolo trasparente e uniforme per tutti i progetti, un incremento netto e sostanziale di benessere collettivo.
Probabilmente l’analisi costi-benefici non è la panacea di tutti i mali, ma sicuramente l’adozione sistematica di questa metodologia potrebbe contribuire a cambiare il modo di fare politica e di interpretare la rappresentanza pubblica nelle procedure di spesa per infrastrutture, migliorandone l’efficacia e l’efficienza.
E l’efficacia della nostra spesa per le infrastrutture è un punto fondamentale, visto che l’Italia ha avuto, nel corso degli ultimi anni, una spesa per infrastrutture in linea con gli altri Paesi europei (pari al 2,4% del PIL, quasi in linea con l dato registrato dalla media dei Paesi UE – 2,5% – e superiore a quelle di altri Paesi europei (Germania 1,9%, Gran Bretagna 1,8%), ma tale spesa in investimenti fissi da parte dello Stato, però, non si è trasformata in un sistema infrastrutturale efficiente, capace di accrescere i livelli competitivi del Paese (6).
Inefficacia delle procedure di spesa in infrastrutture, scarsa competitività del sistema infrastrutturale e – parafrasando Perotti – la sindrome da “ubriacatura retorica collettiva” hanno sinora compromesso le capacità di ripresa del nostro Paese ed ipotecando il nostro futuro.
Noi speriamo che ci sia la volontà di un risveglio della politica più sana. Ma chi è “sano”? Forse il segnale di questa “salubrità” sarà dato proprio dall’emergere di una classe politica decisa ad occuparsi seriamente di queste questioni, disponibile a rafforzare la propria capacità di decidere promuovendo una nuova cultura della quantificazione operativa del benessere per la collettività, promuovendo un processo di valutazione sistematico e trasparente, condizioni necessarie per ristabilire il necessario rapporto di fiducia con i cittadini: che in definitiva sono al tempo stesso contribuenti, consumatori, lavoratori, inquinati e purtroppo anche inevitabilmente inquinatori.
(1) A tal riguardo, nel paper Le infrastrutture in Italia: dotazione, programmazione, realizzazione di Banca d’Italia si legge: “per il ponte sullo stretto non è stata condotta la tradizionale analisi costi-benefici da parte dell’advisor non prevista nel bando. Non sono stati analizzati i diversi scenari sul traffico atteso, né le varie alternative, costituite dai traghetti veloci sulle lunghe distanze, dalle autostrade del mare e dal traffico aereo sulle lunghe distanze”.(2) Nel document Methods Of Project Analysis: A Review, World Bank Staff Occasional Papers, 1974, si sottolinea l’importanza dell’ACB evidenziando come “cost-benefit analysis is undoubtedly the most used and the most useful form of applied welfare economics”
(3) Guide to cost benefit analysis of investment project, DG Regio, European Commission, 2008
(4) Le infrastrutture in Italia: dotazione, programmazione, realizzazione, Seminari e convegni, Banca d’Italia, Aprile 2011.
(5) Le infrastrutture strategiche di trasporto. Problemi, proposte, soluzioni, redatto da Astrid, Italia Decide e ResPublica
(6) Il Global Competitiveness Report 2013–2014 del World Economic Forum, che ha analizzato la qualità delle infrastrutture di 144 Paesi, colloca il nostro Paese alla 53° posizione per quanto riguarda la competitività del suo sistema infrastrutturale.