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Cosa prevede il nuovo Reddito di Inclusione

La misura introdotta dal governo si pone l’obiettivo di contrastare la povertà ma rischia di aprire la strada ad una nuova frontiera di produzione di lavoro povero, mal pagato e sfruttato

Il Rei – Reddito di Inclusione è legge (ddl S. 2492 “Camera Delega recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali”), è stato approvato in queste ore anche al Senato in via definitiva , dopo essere già stato approvato alla Camera il 14 luglio 2016, dopo un percorso lento che a più riprese ha fatto discutere le diverse componenti politiche.

Iniziamo subito col dire che il Rei sarà la prima misura organica nazionale di contrasto alla povertà approvata dal Parlamento, dopo molti anni, dopo il Reddito Minimo di Inserimento di inizi anni 2000 (che aveva tutt’altre caratteristiche).

Le disponibilità per finanziare il provvedimento sono pari a 1,030 mld di euro per il 2017 e a 1,054 mld a decorrere dal 2018 (corrispondono a quelle già stanziate per il Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale) e la misura sarà rivolta alle famiglie, al di sotto della soglia dei 3000 euro di ISEE con almeno un figlio minore, coerentemente con quanto già previsto nella legge di stabilità 2016 per il SIA (Sostegno per l’inclusione Attiva). Si prevedono dei progetti personalizzati predisposti da un’équipe multidisciplinare, costituita da parte dell’ambito territoriale sociale, in collaborazione con le amministrazioni competenti sul territorio in materia di: servizi per l’impiego; formazione; politiche abitative; tutela della salute; istruzione. La delega prevede il riordino degli strumenti di natura assistenziale, pertanto il Reddito di Inclusione dovrebbe assorbire tutte le altre misure utilizzate finora, maggiormente contingenti e meno organiche (es. social card), il SIA (Sostegno all’Inclusione attiva) nato nel 2013 e riadottato nel 2016.

Alla luce di questi elementi è possibile fare alcune considerazioni nel merito.

In primo luogo secondo l’Istat nel 2015 erano stimate 1 milione 582 mila famiglie residenti in Italia (circa il 6% del totale) in condizione di povertà assoluta: si tratta di 4 milioni e 598 mila individui, il 7,6% dell’intera popolazione. Sulla base dei criteri, come già detto, il Reddito di Inclusione si rivolgerà prioritariamente alle famiglie con minori, che erano nel 2015 circa 618 mila. La platea dei beneficiari, però, si potrebbe restringere all’incirca a meno di 270 mila famiglie in povertà assoluta e con un figlio minore, se l’ammontare dell’assegno mensile del Rei fosse confermato tra i 350 ed i 480 euro a famiglia. Per tali ragioni è evidente che la misura risulta davvero insufficiente a far fronte all’emergenza della povertà nel nostro Paese.

Proprio qualche mese fa lo stesso CILAP – Collegamento Italiano di Lotta alla Povertà (sezione italiana della rete europea EAPN European Anti Poverty Network)  aveva denunciato l’insufficienza del SIA (strumento utilizzato nell’ultimo anno, precursore del REI e che aveva dei criteri simili), affermando come questa misura non stesse dando i risultati attesi a causa di troppi i vincoli richiesti. Denunciava il CILAP: “basta un errore, anche di comprensione, nella compilazione della domanda che l’Inps la rigetta”. Gran parte delle domande per il SIA (dal 40% all’80%), infatti, è stata rifiutata per non aver raggiunto i 45 punti per avere riconosciuto il beneficio, tra queste sono stati esclusi i nuclei familiari più giovani, con un solo figlio, proprio quelle che, nelle intenzioni del Governo, dovevano essere sostenute. Sarà possibile superare questi problemi con il REI?

Secondo il CILAP, inoltre, analizzando le domande consegnate per il SIA, è possibile trarre l’identikit tipo del nucleo familiare che fa domanda per misure di contrasto alla povertà, e quindi che probabilmente farà richiesta anche per il Rei: età media dei genitori 30/35 anni, disoccupati o con bassa intensità lavorativa, uno o due figli in media; in altri termini un pezzo di generazione escluso dal mercato del lavoro stabile. Al contempo, però si può notare come rimanga escluso dall’accesso a misure di contrasto alla povertà proprio quella fetta generazionale che, espulsa dal mercato del lavoro over 50, ha difficoltà a rientrarvi.

Questo perché viene reiterata la scelta politica di non tutelare l’autonomia individuale, subordinando le necessità delle persone a quelle del proprio nucleo familiare di appartenenza, nonché alla condizione “prioritaria” di avere almeno un figlio minore, escludendo automaticamente tutte le famiglie senza figli, o con figli maggiorenni (magari disoccupati o NEET), nonché di tutte le coppie di fatto anche se stabili.

Si ipotizza, inoltre una restrizione non ben definita, dei criteri di “residenza qualificata” (residenza protratta per diversi anni), con la conseguenza che per molti stranieri potrebbe essere più difficile l’accesso.

In attesa di conoscere il contenuto dei decreti legislativi convince poco anche l’approccio che lega l’erogazione di reddito diretto e indiretto ai c.d. “progetti personalizzati, predisposti da un’équipe multidisciplinare”, perché al di là della vaghezza del contenuto è utile interrogarsi sul senso di tali “progetti”, sempre più sovente utilizzati nell’ambito dell’erogazione di misure di sostegno al reddito (si pensi alle ultime leggi regionali come ad esempio quella pugliese sul Reddito di Dignità). Ci si chiede, infatti, se questi progetti siano davvero uno strumento utile per reinserire i beneficiari all’interno del tessuto lavorativo o siano invece uno strumento più utile alle amministrazioni comunali, alle imprese, al Terzo Settore per poter usufruire di ulteriore manodopera a un costo più basso. Il tema non è scontato, perché potrebbe sottendere un’idea di creazione di lavoro povero e instabile e un’idea di workfare più simile, per intenderci, a quella che abbiamo visto nel film “Io Daniel Blake” di Ken Loach.

In questo confuso dibattito sui temi del lavoro di cittadinanza vs reddito di cittadinanza, il Reddito di Inclusione sembrerebbe aggiungere ulteriore confusione.

Sembrerebbe però maggiormente in linea con l’idea che i soggetti più vulnerabili, debbano accettare un lavoro “qualsivoglia”, anche povero, instabile e non tutelato. In altri termini il REI potrebbe aprire la strada a un’ulteriore frontiera di produzione di lavoro povero, mal pagato e sfruttato?

Nel frattempo sorge spontanea una domanda: perché il parlamento non ha mai voluto discutere le diverse proposte di legge presentate dalle diverse forze politiche in questi anni? L’Istat nel 2015 aveva anche espresso parere favorevole dopo un’analisi di fattibilità. È possibile tornare a parlare in modo corretto e sensato di misure di reddito minimo in Italia, senza che ne venga fuori un dibattito distorto?

Il tema fondamentale, ora, non è solo dichiararsi a favore o contro il “reddito minimo” o “reddito di cittadinanza” ma capire di cosa stiamo parlando: quali sono i criteri, chi sono i beneficiari, quali sono (se ci sono) i parametri di condizionalità, dove si trovano le risorse. Se non si ha in mente questo, non si comprendono le enormi differenze di paradigma politico che si nascondono dietro le diverse proposte. Distinguere le proposte che hanno alla base un’altra idea di modello produttivo e che vogliono liberare le persone dal ricatto dello sfruttamento del lavoro povero, precario e mal pagato, da quelle proposte che sono funzionali al mantenimento dello status quo e pongono gli esclusi, i poveri, in condizione di coercizione.

È possibile, ad esempio, tornare a parlare di un reddito minimo a titolarità individuale, adeguato, rivolto a poveri disoccupati e working poor, non condizionato ad attività paralavorative? È possibile parlare di un reddito contro le disuguaglianze, finanziato tassando i patrimoni dei cittadini italiani appartenenti al 10% più ricco del paese? È possibile tenere insieme il tema del reddito minimo con quello degli investimenti pubblici e della riduzione dell’orario di lavoro?

Chi scrive spera che l’approvazione del REI non impedisca la riapertura di un dibattito più ampio che provi a dare risposte a queste domande e ponga fine alla politica degli annunci e degli spot.