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Ceci n’est pas une union bancaire

L’accordo raggiunto tra Parlamento e Consiglio europeo sul disegno di unione bancaria dovrebbe diventare definitivo a metà aprile. Ben lungi dal favorire una ricapitalizzazione coordinata del sistema bancario europeo, l’accordo sancisce il principio caro a Berlino & Co dell’“ognun per sé”

Dopo lunghi ed estenuanti negoziati, il Parlamento e il Consiglio europeo hanno trovato l’accordo (1) su un disegno di unione bancaria che riflette quasi interamente le priorità tedesche. Se confermato in seduta plenaria a metà aprile, l’accordo diventerà definitivo. I tre pilastri su cui si regge il nuovo impianto sono il coinvolgimento di azionisti e obbligazionisti (creditori) in caso di fallimento bancario, la centralizzazione della supervisione bancaria a Francoforte e l’istituzione di un mini fondo comune per la risoluzione bancaria.

Possono sembrare temi piuttosto tecnici e complessi, ma la loro straordinaria rilevanza politica impone che si provi a spiegarli al pubblico. Il coinvolgimento di azionisti e creditori consente di limitare l’entità dell’intervento pubblico nel caso di fallimenti bancari. Se una banca è in difficoltà, i primi a dover prestare aiuto saranno gli investitori privati e non il settore pubblico. È uno sviluppo per certi versi positivo, ma largamente insufficiente nel contesto attuale. Essendo il capitale obbligazionario solo una frazione dei passivi delle banche, tale misura ridurrà solo al margine il costo sociale dei salvataggi bancari. Su insistenza dei paesi creditori, inoltre, l’istituzione di una garanzia comune dei depositi è stata totalmente esclusa dalle trattative e rimarrà competenza nazionale. Non si tratta, dunque, di una misura adatta a risolvere crisi di natura sistemica. Per queste, il governo (e il contribuente) di ogni Stato rimarranno garanti.

L’introduzione di un’unica supervisione bancaria per l’area euro rappresenta un cambiamento senz’altro più significativo. Se fino ad oggi sono state le autorità nazionali a vigilare sulle banche dell’area euro, in futuro se ne occuperà un solo organismo federale. Sarà di conseguenza l’Europa, con un ruolo centrale esercitato dalla Banca centrale europea (Bce), a stabilire se una banca in difficoltà deve fallire oppure no. Questo trasferimento di poteri rappresenta una cessione di sovranità di portata storica. Non a caso, sono stati necessari circa cent’anni per introdurre un sistema di supervisione federale negli Stati uniti.

A fronte di una tale cessione di sovranità e della mancanza di una garanzia comune dei depositi, è il terzo elemento dell’unione bancaria – il fondo comune di risoluzione – a risultare gravemente inadeguato. Si tratta di un fondo finanziato dalle banche stesse e già esistente nella maggior parte dei paesi europei. Alcuni parametri saranno armonizzati e il fondo gradualmente messo in comune con l’obiettivo di renderlo pienamente operativo tra ben otto anni. Nel 2022, dovrebbe ammontare a 55 miliardi di euro, una cifra insignificante rispetto al bilancio delle banche dell’area euro e pari a circa l’1% dei depositi. Anche a regime, il fondo non sarà sufficiente a coprire le perdite di più di una banca di media grandezza. Per fare un esempio recente, la garanzia concessa dal governo Belga per la sola banca Dexia è stata di 80 miliardi di euro!

Su proposta del Parlamento, al fondo sarà concesso di finanziarsi sui mercati, ma solo sulla base delle future entrate e senza alcuna garanzia aggiuntiva. È uno sviluppo positivo, ma assolutamente marginale a fronte di stime per la ricapitalizzazione delle banche dell’area euro che vanno dai 500 ai 1000 miliardi. Tali cifre possono sembrare eccessive, ma non lo sono se si considera che i 128 istituti di credito che passeranno sotto la supervisione della Bce detengono più di quattro quinti degli assets del sistema bancario della zona euro, una cifra pari a 26000 miliardi. La crisi dello spread, dunque, potrebbe ritornare in autunno, quando gli esiti dell’asset quality review della banca centrale europea saranno resi noti, evidenziando criticità che non potranno essere risolte da questa unione bancaria.

Non è un caso che durante i negoziati degli ultimi due anni, Francia e Italia avessero proposto a più riprese che il fondo comune di risoluzione potesse attingere direttamente dal Meccanismo di Stabilità Europeo, il cosiddetto ‘fondo salva stati’, che ha una capacità di 500 miliardi. Non sarà così. Come nel caso di Spagna e Irlanda, i costi per il salvataggio delle banche continueranno a gravare sul bilancio pubblico (dunque sul contribuente) e il possibile ricorso al Meccanismo di Stabilità Europeo rimarrà condizionale ad un duro programma di aggiustamento monitorato dalla troika.

Dati gli enormi limiti del compromesso raggiunto, l’espressione ‘unione bancaria’ è ingannevole, per certi versi al limite della disinformazione. L’accordo non favorirà una ricapitalizzazione coordinata del sistema bancario europeo. Al contrario, sancisce il principio molto caro a Berlino & Co. dell’“ognuno va per sé”. Da un punto di vista legale, si tratta in gran parte di una formalizzazione di prassi già consolidate, come il ricorso al fondo ‘salva’ stati. Totalmente estranei al negoziato, infine, sono rimasti la garanzia comune dei depositi, da molti analisti considerato l’elemento centrale di una credibile unione bancaria, e l’introduzione graduale di un safe asset comunitario come eurobond o eurobill su cui un’unione bancaria deve di fatto reggersi.

È sotto il profilo politico, invece, che l’accordo rappresenta un cambiamento di portata storica, ma solo in termini di cessione di sovranità. Come nel caso dell’introduzione della moneta unica, questa non è stata bilanciata da maggiore integrazione sul piano fiscale. Anche in questo caso, purtroppo, l’esistenza di un vero meccanismo di assicurazione comune non è un optional, ma un elemento imprescindibile all’interno del quadro macro-finanziario finemente pensato dagli architetti dell’unione economica e monetaria. In pratica, si sta ricommettendo lo stesso errore del passato. Questa unione bancaria, su cui tanto l’élite di Maastricht aveva puntato, non potrà funzionare e rappresenta solo l’ultima di una lunga serie di prevedibili (e previsti) insuccessi. Continuare a negarlo non serve. Siamo ancora in tempo per cambiare rotta. Si deve ripartire da Strasburgo. Semplicemente dicendo no a questa surreale unione bancaria e mettendone una vera sul tavolo.

(1) www.europarl.europa.eu/news/en/news-room/content/20140319IPR39310/html/Parliament-negotiators-rescue-seriously-damaged-bank-resolution-system