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Apprendisti e stregoni al lavoro

Sono 126mila i quindicenni né-né, fuori da scuola e lavoro. Per maggioranza e governo la soluzione è semplice: vadano a lavorare, con contratti di apprendistato, e addio all’innalzamento dell’obbligo scolastico. Una ricetta irrealistica e retrograda. Ma che non si combatte continuando a mettere steccati tra scuola e lavoro

Con gli irriducibili, gli adolescenti che già dalla media di scuola non ne vogliono sapere, qualche volta la carta vincente è davvero il lavoro. O meglio una formazione che il lavoro sia capace di guardarlo in faccia. Da anni ci sono, anche in Italia, esperienze con buoni risultati. L’Europa le chiama scuole di “seconda opportunità”, qualche volta a inventarle sono i migliori centri di educazione degli adulti. Si rimediano i guasti, anche psicologici, dell’insuccesso scolastico, si evita che si spezzi definitivamente il collegamento con l’apprendimento formale, si ricostruiscono sicurezza, fiducia, motivazione. Sembra poco ma è l’essenziale. Contro gli abbandoni precoci, funzionano del resto da qualche anno anche sperimentazioni meno garibaldine. Sono i percorsi misti di scuola e formazione professionale, tre anni dopo la scuola media, stages in azienda per un terzo almeno dell’orario, alla fine una qualifica professionale del secondo livello europeo con la possibilità, di cui approfittano in molti, di rientro al quarto anno di un istituto tecnico o professionale. Si adempie anche così all’obbligo di istruzione fino ai 16 anni e al diritto-dovere all’istruzione e formazione fino ai 18. Oggi gli allievi sono più di 130.000 e sarebbero molti di più se questi percorsi – avviati da un accordo Stato-Regioni del 2003 – ricevessero più risorse dai ministeri dell’istruzione e del lavoro. E se tutti, negli assessorati regionali affidassero l’impresa a Enti di formazione sperimentati, competenti e motivati.

Ma la strada è stata da sempre contrastata. Con molte responsabilità anche della sinistra “scolastica”, quella che discende giù dai lombi di Concetto Marchesi, non vede altra scuola che quella dei sacrosanti e nobili saperi tradizionali, difende i principi più che i ragazzi, ritiene che nel lavoro non possa esserci apprendimento, o che il sapere tecnico-operativo sia sempre e comunque di minor valore rispetto a quello umanistico. La stessa a cui piace poco anche l’alternanza studio-lavoro nella scuola superiore, che preferisce lezioni e libri di testo ai laboratori, che replica sempre la stessa minestra didattica, anche se non piace o è maldigerita da tanti ragazzi. La si è vista all’opera tante volte, per esempio contro la coraggiosa ma illuministica decisione del ministro Berlinguer, alla fine degli anni novanta, di utilizzare anche un apprendistato formativo – comprensivo di 240 ore di formazione formale (ma in Germania , e anche nella Provincia di Bolzano, se ne fanno 400) – per adempiere , tra i 15 e i 17 anni, all’obbligo formativo fino ai 18 anni. Ma ormai molte resistenze sono cadute, e gli strumenti ci sono per fare di una formazione indirizzata al lavoro una delle possibili vie per una scuola inclusiva che non lasci indietro nessuno. Basta intendersi – e talora non è facile – su cosa significa scuola. E certo, se stato e regioni avessero realizzato, come previsto fin dal 2000, quelle anagrafi con cui si dovrebbero accertare non solo quanti ma chi sono i minori fuori dalla scuola, dalla formazione, dal lavoro, sarebbe più facile costruire interventi efficaci anche per quei 126.000 quindicenni fuori da tutto per cui il ministro Sacconi – tramite emendamento dell’on. Giuliano Cazzola approvato dalla commissione Lavoro della Camera – tira fuori il coniglio di un contratto di apprendistato a 15 anni. Con cui si demolisce la norma dell’ultimo governo Prodi che, introducendo l’obbligo di istruzione fino ai 16 anni, ha coerentemente alzato dai 15 ai 16 anni la soglia di inizio del lavoro regolare.

Una decisione sbagliata, cinica, inaccettabile. Non perché non si debbano trovare rimedi diversi da un’imposizione formale di obbligo di istruzione (il sistema scolastico italiano perde per strada più del 19% dei ragazzi, quasi il doppio della media Ue), e neppure perché la ricetta Sacconi- Tiraboschi – Cazzola ricorra al lavoro. Ma perché c’è una differenza abissale, in via di principio e di fatto, tra il lavoro come contesto di apprendimento che serve a proseguire gli studi fino a un diploma o a una qualifica professionale, e l’apprendistato. Almeno nel caso italiano. Oggi, dopo gli sventatissimi plausi della presidente di Confindustria, arrivano distinguo e perplessità di non pochi esponenti delle associazioni di impresa. E soprattutto i numeri, che spiegano bene come stiano le cose. In Italia l’apprendistato formativo, anche nelle due tipologie dell’apprendistato di specializzazione e di alta formazione – è un’esperienza assolutamente minoritaria: solo nel 17% dei casi – e solo dove le regioni investono molto – gli apprendisti usufruiscono di una formazione di tipo formale, che non si limiti cioè a imparare le prestazioni per imitazione . Gli apprendisti con meno di 18 anni non sono più di 6.000 (su un totale di 645.000), e quasi tutti sono nel Nord. Quando Berlinguer introdusse l’apprendistato tra le vie dell’obbligo formativo, le previste 240 ore di formazione produssero immediatamente una quasi completa sparizione degli apprendisti sotto i 18 anni, e anche oggi regioni e parti sociali non lo regolamentano. Le imprese, in particolare le piccole che sono il grosso del nostro sistema produttivo e dei servizi, non amano affatto che, come succede in altri paesi, gli apprendisti lavorino di meno per andare a formarsi. Non solo. Tranne quelle che i giovanissimi li impiegano in lavori irregolari e sottopagati, non sono propense ad assumere minorenni che, per la legislazione vigente, non possono essere utilizzati in lavori faticosi e nocivi, né lavorare di notte e nei festivi, né fare straordinari. Un impaccio, insomma, più che un vantaggio, anche se con l’apprendistato si risparmia e non poco in tasse e costo del lavoro. Tanto più che oggi i ragazzi, a differenza che in passato, crescono senza familiarità con gli strumenti del lavoro, faticano a seguire regole e discipline, sono distratti e più esposti al rischio di incidenti. Inoltre perché dovrebbero essere le imprese a farsi carico delle sconfitte dell’istruzione? L’apprendistato è un contratto regolare di lavoro, che si stipula tra due parti. E, anche ammesso che i quindicenni volessero entrare immediatamente nel lavoro, c’è pur sempre bisogno che l’altra parte sia d’accordo. Ci ha pensato Sacconi, o quello che davvero ha in mente è qualcosa d’altro?

Ma naturalmente la trovata di Sacconi non è irricevibile solo per problemi di fattibilità. Anche se tanti ragazzi non lo sanno, con un lavoro non qualificato non si fa una gran strada. Si può magari trovarlo una volta, ma basta una crisi aziendale o una cattiva congiuntura per ritrovarsi nei guai. La possibilità di un’altra occupazione, di passare dal lavoro dipendente a quello autonomo, di avere uno sviluppo di carriera è sempre di più appesa al filo di competenze di base solide, di abitudine all’apprendimento anche in età adulta, di conoscenze tecniche e professionali. Lo sanno anche le imprese migliori che vedono spesso impraticabili, per i lavoratori di bassa scolarità (da noi in circa la metà delle forze di lavoro ha al massimo la licenza media), le possibilità di aggiornamento professionale e di cambiamento delle mansioni. Senza la base – sempre di più – non si può suonare. Di tipo tutto diverso è la disoccupazione o sottoccupazione dei giovani laureati che hanno competenze, magari alte e complesse, ma poco spendibili, e chi non vuole distinguere imbroglia, e sa di imbrogliare. Il conseguimento per tutti di diplomi e di qualifiche professionali almeno del secondo livello europeo resta in Italia il problema centrale per l’istruzione iniziale, e anche per la formazione permanente.

Ma Sacconi, e il suo consigliere Tiraboschi, sembrano determinati ad andare avanti. Per chi conosce i suoi manifesti politico-ideologici più recenti – ce n’è uno molto esplicito, a firma congiunta con il ministro Gelmini che riguarda, appunto, la transizione dalla scuola al lavoro dei giovani – e la perentorietà con cui cerca di imporli a regioni e parti sociali, non è difficile riconoscere in questa decisione non solo i segni di una rancorosa rivincita contro una parte della cultura di sinistra che ha troppo spesso, a lungo e anche ottusamente contrapposto l’acqua santa dell’istruzione al diavolo del lavoro, ma anche un tassello della sua attuale battaglia contro la formazione professionale e gli enti che la gestiscono. Quelli di emanazione sindacale, e anche gli altri che si rifanno all’associazionismo cattolico. Tutta roba da buttare, secondo il ministro, insieme alle politiche pubbliche della formazione. E tutte le risorse – di conseguenza – dovrebbero essere destinare piuttosto alle imprese. Un affondo a tutto campo contro un settore che ha indubbiamente molte pecche, ma che occorrerebbe risanare, indirizzare, controllare piuttosto che distruggere.

Quanto al dibattito attuale sulla scuola, chissà se Galli Della Loggia, Mastrocola, Montezemolo e i tanti altri cantori del ritorno alla scuola del passato, quella seria, fondata solo sull’istruzione e non sull’educazione, quella dei saperi culturali fondamentali e del rigore della valutazione, si rendono conto che quello che vuole Sacconi non è se non l’altra faccia della medaglia. Perché quella scuola a cui si guarda con tanto rimpianto e nostalgia era la stessa che, ai figli dei ceti più disagiati, a chi inciampava o non stava al ritmo, a chi non si ritrovava nei linguaggi astratti dell’insegnamento, non sapeva consigliare se non la zappa e l’officina. Siamo ancora lì?

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