Un tassello dopo l’altro, i provvedimenti del governo perseguono un indirizzo preciso: quello dello “Stato minimo”, con la cessione ai privati di tutte le funzioni del settore pubblico
Il governo “più di sinistra della storia italiana” (Giuliano Poletti dixit) sta infilando una serie di iniziative che, un tassello dopo l’altro, stanno davvero trasformando l’Italia. Sta costruendo un modello di “sinistra del terzo millennio”? Se è così, bisognerà dare ragione ad Arnold Toynbee e alla sua teoria della circolarità della storia, perché quel modello tende ad assomigliare alla società di fine ‘800: ritirata dello Stato, che cede ai privati sempre più compiti; riduzione delle protezioni del lavoro; depotenziamento dei sindacati; una democrazia sempre meno “governo del popolo” e sempre più guidata dal “pilota automatico” di scelte tecniche trasformate in regole che travestono l’ideologia neoliberista da neutralità pseudo-scientifica.
L’ultima mossa è quella sull’acqua, con il vergognoso tradimento della volontà espressa nel referendum del 2011 da oltre 26 milioni di cittadini che la sua gestione restasse pubblica. L’emendamento del Pd in commissione Ambiente che rovescia il significato di una legge che doveva attuare la decisione referendaria, riaprendo la porta ai privati, è stato semplicemente la conferma di una linea che era già stata decisa e sancita nel Testo unico sui servizi pubblici locali, dove si stabilisce di “ridurre la gestione pubblica dei servizi ai soli casi di stretta necessità” e di “garantire la razionalizzazione delle modalità di gestione dei servizi pubblici locali, in un’ottica di rafforzamento del ruolo dei soggetti privati”, nonché assicurare “l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, altro aspetto bocciato con il referendum.
Un aspetto non secondario, quest’ultimo. Anzi, uno tra i più importanti a favore della gestione pubblica. Il settore idrico ha bisogno di rilevanti investimenti, non solo sulla rete degli acquedotti che in alcune zone arriva a perdere la metà dell’acqua che ci passa, ma soprattutto sulla depurazione, visto che ci sono già due condanne europee a nostro carico e un altro procedimento in corso e se non si provvede dovremo cominciare a pagare multe salate per ogni giorno di ritardo. Se il capitale necessario sarà pubblico non dovrà essere remunerato oltre il costo, che oggi è basso quanto mai lo è stato nella storia, visto che il rendimento dei titoli di Stato decennali è sotto l’1,5%. Se invece sarà privato al suo costo si dovrà aggiungere una “remunerazione adeguata”. E quanto è? Lo decidono le “Autorità di ambito territoriale ottimale”: fino a poco tempo fa era intorno al 7%, poi è un po’ scesa: per esempio l’Ato di Bologna e Modena ha previsto per gli anni 2011-2015 e 2010-2014 rispettivamente il 5,36% e 6,24%: siamo a circa il quadruplo.
Poi, in preparazione c’è il “pacchetto lavoro”, ennesimo provvedimento in questo campo, tanto per ribadire la convinzione del governo che è questo il fattore decisivo per migliorare l’andamento dell’economia. Conterrà la reiterazione della tassazione di favore (10% fino a 2000 o 2500 euro) del “salario di produttività”, che sarebbe quello derivante dagli incentivi erogati in base ad accordi che dovrebbero favorire la produttività delle imprese e anche – come obiettivo implicito ma non secondario – dare una spinta alla contrattazione aziendale. Si tratta di un provvedimento che finora non ha dato risultati per nessuno di questi due scopi. Fu adottato per la prima volta nel lontano 1997 e poi, anche se con qualche discontinuità, più volte reiterato. Da allora, come sappiamo, la produttività non ha fatto nessun progresso e anzi è peggiorata. Quanto alla contrattazione aziendale, “si fa oggi nel 21% delle imprese che occupano il 30% dei dipendenti”, osserva Leonello Tronti, esperto di problemi del lavoro; “meno che nel 1990, nonostante che rispetto ad allora ci siano circa 1.160.000 imprese e 1.700.000 lavoratori in più”. A quanto pare (ma bisognerà verificarlo sul testo) l’agevolazione fiscale non riguarderà gli straordinari, come è avvenuto in passato: una misura demenziale, non solo fonte di iniquità (qui una bella analisi fatta all’epoca da Maria Cecilia Guerra), ma anche deleteria sul fronte dell’occupazione. Come rilevava il sondaggio congiunturale della Banca d’Italia nel 2008, “Il provvedimento diminuisce la necessità di nuove assunzioni per il 29,1 per cento delle imprese dei servizi e per il 24,6 per cento di quelle dell’industria in senso stretto”.
Ma perché si continua a ripetere una ricetta che non funziona? Probabilmente per un terzo obiettivo non dichiarato, cioè ridurre il costo del lavoro, chiudendo un occhio sul fatto che molte imprese faranno passare una parte di salario come erogato in base a uno di questi accordi per sfruttare lo sconto di tassazione. Chi andrà mai a controllare se la produttività è davvero aumentata e se ciò è dipeso dall’accordo? Insomma, tollerando l’elusione fiscale. Grazie a un meccanismo che comunque è svantaggioso per il lavoratore, perché questi soldi non produrranno tutti gli effetti del salario normale.
La stella polare resta comunque quella di aumentare la flessibilità del lavoro e ridurne le protezioni, nella convinzione che sia questa la via per aumentare la produttività. Poco importa che vari studi dicano che non è così, le convinzioni ideologiche non si lasciano intimidire dalla realtà, come abbiamo visto per le ricette sull'”austerità espansiva”. Alcuni di questi studi sono citati in un saggio dell’economista Pasquale Tridico, da cui abbiamo tratto questi due grafici che mostrano come flessibilità e protezione dei lavoro non evidenzino alcuna correlazione con il livello dell’occupazione e – il secondo – che ridurre le protezioni non solo non fa aumentare la produttività, ma sembra addirittura danneggiarla.
Magari sarebbe meglio concentrarsi su altri fattori, per esempio gli investimenti, che in Italia sono crollati in modo disastroso, ben più della media dei paesi Ocse. Ma i dettami dell’ideologia (e le regole europee) dicono che gli investimenti devono farli i privati, non lo Stato. Ma i privati, guarda un po’, se non vedono che l’economia si muove non li fanno, e allora ecco quello che succede.
Per il “salario di produttività” è prevista anche un’alternativa. Quella somma, a scelta del lavoratore, potrà essere destinata al “welfare aziendale”, e in questo caso sarà completamente detassata. Ecco un altro tassello per la de-costruzione dello Stato sociale. Invece di provvedere (per esempio) a un numero sufficiente di asili nido lo Stato ti detassa una parte della retribuzione in modo da spingerti a ricorrere ad uno privato. Certo quella parte di salario è la più “ballerina”, non è detto che ci sia sempre e sicuramente sarà la prima a sparire se i conti aziendali andranno meno bene. A quel punto l’asilo nido ti toccherà continuare a pagarlo e per giunta con lo stipendio ridotto. Che sfortuna. Ma intanto lo Stato ha impiegato soldi per detassare invece che per costruire asili nido.
Ma il capolavoro di questa strategia è l’idea che è venuta al fresco sottosegretario alla presidenza del Consiglio, l’economista Tommaso Nannicini. L’idea è quella di ridurre di ben sei punti il cuneo fiscale. Riducendo le tasse? No, riducendo i contributi. Ma come, se si continua a dire che le pensioni future saranno misere, vogliamo farle diminuire ancora? No, assicura Nannicini, non succederà. Il meccanismo sarebbe questo: 3 punti percentuali vanno all’impresa, e 3 al lavoratore. E già qui c’è qualcosa che non quadra: quei tre punti sono soldi del lavoratore, perché dovrebbero essere dati all’impresa? E’ come dire “ti riduco lo stipendio del 3%”. Ma andiamo avanti: gli altri 3 punti si può scegliere di averli in busta paga, ma in questo modo vanno a tassazione ordinaria (mentre i contributi come tali non sono tassati). Volete pochi maledetti e subito? Accomodatevi. Altrimenti c’è un’altra opzione: destinarli ad un Fondo pensione. Che – secondo questa teoria – renderà di più, e così alla fine la pensione non ne risentirebbe.
Ora, a parte che anche il Fondo pensione è tassato, meno della busta paga, certo, ma sempre più dei contributi “normali”, che tassati non sono. E poi il fatto che renderà di più è una speranza, non una certezza: può darsi, e può darsi di no; e potrebbe persino avere un rendimento negativo, se uno è sfortunato, o comunque rendere meno che nell’Inps. Quindi, riassumendo: ti tolgo 6 punti di contributi; 3 li regalo al datore di lavoro; gli altri 3 te li tasso più di adesso; e per chi sceglie il Fondo pensione sostituisco la previdenza privata a quella pubblica, e buona fortuna. Un affarone per il lavoratore.
Però in questo modo si attacca quello che da qualche tempo sembra essere la fonte di tutti i mali, il cuneo fiscale. E’ davvero così? Dal grafico tratto da quest’altro saggio non sembrerebbe, visto che il nostro cuneo è più basso (e negli ultimi anni è sceso ancora) di quello di Francia e Germania che a produttività se la cavano molto meglio di noi.
Ma non è mica finita. “Entro un mese sarà approvata la legge delega per il Terzo settore”, ha annunciato Poletti. E con quella si potrà dare il colpo finale allo Stato sociale. I servizi pubblici sempre più affidati a tante belle cooperative che pagano i soci un terzo in meno di uno statale (quando va bene), tanti appalti da affidare, e magari qualcuna sarà riconoscente con chi glieli affida. Già oggi oltre la metà dei servizi di assistenza dei Comuni sono esternalizzati, piano piano si penserà anche al resto, compresi scuola, sanità, università. Alla “sinistra” del terzo millennio lo Stato sta proprio antipatico.