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I fondi strutturali e la Madonna delle TreErre

Se con i fondi strutturali si puntava ad aumentare la produttività e competitività delle aree meno sviluppate del paese, oggi è chiaro che, a distanza di oltre 25 anni, qualcosa non ha funzionato

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Ci siamo, una manciata di giorni e il ciclo di programmazione dei fondi strutturali 2007-2013 può essere dichiarato “quasi” ultimato. L’eventuale disimpegno delle risorse avviene solo a chiusura, cioè dopo l’istruttoria della Commissione sui documenti presentati entro il 31 marzo 2017. Il 31 dicembre 2015 suona, quindi, come l’ultimo campanello d’allarme; la deadline entro la quale comprendere se e quanto siamo distanti dai target di spesa prefissati. Tirata la linea, si paleserà di quante certificazioni avremmo bisogno nei successivi 15 mesi per chiudere la partita almeno in parità. Le autorità di gestione, audit e certificazione avranno il loro bel da fare a rintracciare progetti sponda, coerenti, retrospettivi per non rimanere con il cerino in mano. Nessuno si ricorderà più di programmi e progetti e pochissimi parleranno di risultati raggiunti perché l’unica cosa che conterà sarà quella di non perdere risorse. E poi? E poi tutti pronti a ripartire. Anzi, si è già ripartiti con la sarabanda dei Comitati di Sorveglianza del nuovo ciclo di programmazione 2014-2020 pronti a garantire, almeno una volta l’anno, l’inchino della Madonna delle TreErre – Regole, Risorse, Risultati – davanti ai balconi delle istituzioni comunitarie e nazionali.

Innanzitutto le Regole. Tante e, se possibile sufficientemente elastiche nell’interpretazione perché il controllore e il controllato possano trovare, sempre nella commedia delle parti, un accordo in extremis. Dietro ogni passaggio di programmazione, impegno e spesa dei fondi strutturali c’è quasi sempre un articolo dei Regolamenti comunitari e/o una normativa nazionale da seguire. Anzi le modalità attuative dei fondi UE sono piaciute così tanto che le abbiamo estese anche ad altre risorse nazionali: circa 18,3 miliardi di euro del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione (ex Fondo per le Aree Sottoutilizzate) con una performance del 16,9% e 10,3 miliardi di euro del Piano di Azione e Coesione, con un avanzamento del 23,4%. E non ce l’aveva chiesto nessuno; tanto più che non hanno contribuito all’accelerazione della spesa. D’altra parte poco importa se poi la Corte dei Conti ci ricorda che, nonostante le vagonate di regole, la spesa irregolare sui fondi strutturali, dal 2007 al 1° semestre 2014 sia stata di oltre 816 milioni di euro, circa il 3% dei 29 miliardi di euro di pagamenti 2007-2013, ben al di sopra della media europea. Ciò che conta è che tutto sia trasparente, accessibile e che la macchina burocratica-amministrativa della politica di coesione faccia il possibile per semplificare al massimo l’accesso ai fondi da parte dei potenziali beneficiari. Che poi dietro ogni euro di soldi pubblici da spendere vi siano altre regole, più o meno complesse e più o meno comprensibili fa solo parte di un gioco in cui conta più partecipare che vincere. Un gioco in cui più sono gattopardesche le regole di ingaggio e più gli azzeccagarbugli del fondistrutturalismo salgono in cattedra, vestendo di aurea mistico-eurocratica la strada da seguire. Raramente la politica, soprattutto quella nostrana, ha compreso la vis di questi impianti giuridico-regolamentari anzi si è arresa a subirli proprio mentre si illudeva di cavalcarli con l’istituzione di tavoli, comitati, unità tecniche, programmi di missioni, nuclei, agenzie. A loro volta, soggetti tutti ben disciplinati da altrettante regole.

Passiamo alle Risorse. 30.642 milioni di euro di risorse comunitarie per il periodo 2000-2006, 37.384 milioni di euro per il periodo 2007-2013, 42.653 milioni di euro per il periodo 2014-2020. Se siano tanti o pochi i soldi dei fondi strutturali verrebbe da dire, rispetto a quanto sin qui trattato, che è questione che non rileva. Tanto più se consideriamo che dal 2000 l’Italia a sua volta ha versato al bilancio dell’UE circa 213 miliardi di euro, ovvero siamo un contributore netto per 72 miliardi di euro. Ciò che, invece, rileva è la plasticità figurata del via vai di risorse. Mentre in uscita i versamenti dall’Italia all’UE seguono un normale flusso di cassa come avviene per qualsiasi trasferimento a titolo di policy, specificatamente per l’appartenenza alla grande casa comune europea, in entrata le cose cambiano radicalmente. Anche gli accrediti dall’UE all’Italia, e agli altri Stati membri, avvengono a titolo di policy ma questi ultimi sono in fase discendente e quindi in quanto tali si vestono di un’impalcatura programmatica che in qualche modo deve andar bene per tutti i Paesi convolti. E così iniziano le problematiche dove il primo fattore di criticità non è tanto “quanto redistribuire per fare cosa” ma “come redistribuire per raggiungere chi”. Che i fondi strutturali siano uno strumento di politica economica trova consenso unanime; su che tipo di strumento siano, qui incominciano pareri discordanti. Di certo si tratta di risorse che per regola comunitaria sono addizionali e non sostitutive di quelle nazionali. Risorse, quindi, che dovrebbero rafforzare politiche economiche nazionali e complementarle. Risorse che, nella convinzione dei policy maker, avrebbero dovuto spingere verso la ripresa quelle regioni d’Europa ad economia stagnante, la cui causa è da rinvenirsi proprio in difetti strutturali quali: bassa produttività, scarsi investimenti (soprattutto in ricerca e innovazione), inefficienti servizi pubblici, carenze infrastrutturali, mancato rinnovamento di un tessuto imprenditoriale fortemente frammentato, ecc. Insomma una visione di politica economica unitaria come se l’Europa fosse uno stato confederale a cui si deve accompagnare l’azione regolatoria dei singoli Stati membri cui spetta il compito di definire al meglio le regole del gioco economico. Perciò alle politiche monetarie e fiscali, a marchio sempre più comunitario, il compito di rispondere nel breve periodo agli scossoni congiunturali, non più episodici, influendo sul lato della domanda; alle politiche di riforma la funzione di operare nel medio-lungo periodo sul lato dell’offerta per aumentare la produttività del sistema economico nel suo insieme. Che questo secondo aspetto abbia rappresentato il punto più critico della politica economica italiana degli ultimi trent’anni è sotto gli occhi di tutti e la politica di coesione, la cui nostrana regia è apparsa da subito tanto incerta quanto confusa, ha dovuto fare i conti con una lunghissima e fiacca stagione di riforme che non ne ha certo favorito i potenziali punti di ricaduta. Anzi, talvolta, le risorse sono state utilizzate in maniera distorta quali potenziali catalizzatori di processi di riforma poi abortiti o che hanno avuto tempi ben più lunghi delle disponibilità finanziarie messe in campo; basti pensare a tutti i programmi di miglioramento delle performance organizzative della PA fino ad arrivare al Programma Operativo per le città metropolitane sulla scia dell’approvazione della legge 56/2014.

In ultimo i Risultati. È sempre difficile comprendere quali possano essere i risultati di una politica pubblica ma questi, positivi o negativi, attesi o inattesi ci sono sempre anche se gli effetti si possono manifestare lontani nel tempo. Certamente la declinazione della politica di coesione in una pletora di programmi operativi nazionali e regionali che a loro volta si sostanziano in una ipertrofica progettualità locale, fanno senz’altro sfaldare la portata complessiva della policy. Ma nell’insieme se con i fondi strutturali, fin dalle origini delle politiche di coesione, si puntava a finanziare prevalentemente investimenti con l’obiettivo strategico di aumentare la produttività e competitività delle aree meno sviluppate del paese, beh, allora, a distanza di oltre 25 anni qualcosa non ha funzionato. Tali investimenti dovrebbero essere fatti con risorse comunitarie addizionali rispetto a quelle nazionali; dovrebbero avere una precisa durata pluriennale e dovrebbero essere cofinanziati con fondi nazionali e regionali. Questi pochi, ma fondamentali principi, fanno emergere un legame a doppio filo tra gli indirizzi di investimento comunitari, e quindi crescita, e quelli di ciascun Stato membro mutuandone, altresì, onori e oneri ossia finalità e regole. Un legame, invero, che in termini di contabilità è molto più evanescente da individuare con nettezza di quanto non lo sia in termini di politiche pubbliche. In ogni caso, dall’andamento della spesa in conto capitale e degli investimenti è possibile trarre un’indicazione dell’azione pubblica a sostegno dello sviluppo e della crescita locale che ha accompagnato le politiche di coesione. In particolare se dal 1996 al 2001 e dal 2011 e 2013 la spesa in conto capitale in termini pro capite è stata molto prossima sia nel Mezzogiorno (1.300 euro) che nel centro-nord (1.316 euro), è tra il 2002 e il 2012 che si palesa un evidente gap redistributivo (in media 1.441 euro pro capite al sud contro 1.691 euro al centro-nord) con le regioni del centro-nord che vedono crescere complessivamente la quota pro capite della spesa in maniera molto più consistente rispetto a quelle del Mezzogiorno. Nel 2013, poi, la spesa in conto capitale ritorna addirittura ad essere, sia per il centro-nord che per il Mezzogiorno, inferiore a quella del 1996. Resta che un differenziale pro capite così forte tra due aree del paese, non episodico, ma duraturo e concentrato in un arco temporale pari a poco meno di due cicli di programmazione comunitaria non può non lasciare un segno. Anzi è del tutto plausibile, come in parte sottende la stessa Commissione nella “Sesta relazione sulla coesione economica, sociale e territoriale”, immaginare che nel tempo si sia tacitamente perpetrato un autentico effetto sostituzione tra risorse straordinarie e ordinarie e che addirittura le prime abbiano contribuito a tenere vivi gli investimenti non in maniera addizionale ma esclusiva. Insomma una politica senza risultati evidenti ma con tanti progetti in pancia (888.341 interventi ascrivibili ai fondi strutturali nel periodo 2007-2013 con un importo medio di 62mila euro).

Spesa in conto capitale pro capite del settore pubblico allargato

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Fonte: elaborazione IFEL-Dipartimento Studi Economia Territoriale su dati CPT, anni vari

Da queste sintetiche riflessioni viene da pensare che la geopolitica dei fondi strutturali valga molto di più delle regole, delle risorse e dei risultati messi in scena da migliaia di fedeli in adorazione, la maggior parte dei quali senza colpe, costretti a recitare loro malgrado una parte da comprimari. Ma se di valenza geopolitica si parla allora almeno chiamiamo le politiche con il loro nome: politiche di integrazione, di prossimità, di pace, di fratellanza, ma non lasciamo l’alibi a qualcuno di vestire le politiche di coesione di misericordia. Sarebbe meglio a quel punto utilizzare i fondi strutturali per un megaErasmus dei popoli d’Europa; o magari un sussidio di disoccupazione europeo, un contributo alle pensioni minime, un reddito di cittadinanza. Più di qualche economista del secolo scorso teorizzerebbe lo stesso effetto sulla domanda di consumi, e quindi sulla crescita dell’intero sistema economico, senza tutta la devozione alla Madonna delle TreErre.