Summit di basso profilo, nel pieno della crisi mondiale. Mentre attivisti e contestatori continuano a chiedere: “Perché ci teniamo la Wto”?
“Sono determinato ad andare avanti sulla via del commercio libero e della crescita economica, assicurando che l’economia globale abbia un volto umano”: con questo slogan Bill Clinton ormai 10 anni fa inaugurò il vertice ministeriale dell’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto) di Seattle. Come in una coppia che non va il settimo anno di vita insieme decreta spesso, almeno nell’immaginario comune, la fine dell’iniziale idillio, il settimo Vertice Ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) che ha riunito a Ginevra dal il Gotha dei Governi dei 153 Paesi membri ha rivelato, e con particolare evidenza, tutto quello che da 10 anni ha portato centinaia di migliaia di contadini, senza terra, produttori di cibo ma non solo, lavoratori, operai e sindacalisti, esperti, studiosi e studenti, e da ultimo anche tanti imprenditori, a organizzarsi per opporsi con grande nettezza ai successivi cicli di negoziati di liberalizzazione commerciale. A Seattle, esattamente 10 anni fa, tutti questi soggetti sociali si riversarono in piazza. Non era la loro, come pure qualcuno tentò di etichettare al tempo, una epidermica ribellione giovanile o metropolitana, ma l’emersione della paura contro i primi impatti delle teorie e delle pratiche del vantaggio comparato, del liberismo con conseguente fuga delle imprese (capitali e posti di lavoro al seguito) verso i paradisi fiscali e gli inferni dei diritti e dell’ambiente.
Oggi, a danno avvenuto e cioè in piena crisi finanziaria, economica, sociale ed ambientale, non si può far finta di niente anche se i registi del Vertice di Ginevra ci hanno provato abbassando le aspettative collettive. In una lettera inviata a tutti i giornalisti, e per conoscenza a tutti i delegati al Vertice, il direttore generale della Wto Pascal Lamy ha chiarito infatti che la ridente località svizzera avrebbe fatto da cornice ad una verifica collettiva da parte dei 153 Paesi membri, di come funziona in concreto la Wto e di che cosa abbia bloccato fino ad oggi l’approvazione di quei provvedimenti che nel 2001 vennero lanciati con la pomposa definizione di Round dello Sviluppo, e l’ambiziosa missione di ristabilire pace e prosperità dopo l’attentato alle Torri gemelle.
Che ne è stato di cotanta responsabilità? Ben poco, se si pensa che la stessa Banca Mondiale, che in qualche modo ne è il campione, valuta che in uno scenario di liberalizzazione ampia e articolata dei mercati, entro il 2015 il Pil mondiale potrebbe crescere al massimo di 96 miliardi di dollari, dei quali solo 16 andrebbero ai Paesi in via di sviluppo. In altre parole, i Paesi più poveri guadagnerebbero appena lo 0,16% rispetto al loro Prodotto interno attuale, una cosa come 3,13 dollari in più al giorno a cittadino, cosa che si tradurrebbe in un piccolo scavalcamento della linea della povertà – la soglia psicologica dei due dollari al giorno – per appena lo 0,3% di quelli che oggi vivono in miseria in tutto il mondo. Per di più, ammesso, come noi contestiamo, che il commercio globale costituisca un vero valore aggiunto per le comunità locali, la Wto proprio nei giorni della ministeriale ha dovuto rivedere per la seconda volta al rialzo le previsioni di perdite commerciali per il 2009. A marzo scorso le proiezioni bloccavano le perdite al 9%. La crisi finanziaria e il successivo crollo della domanda in Europa e Nord-America hanno causato un calo di oltre il 10% del commercio mondiale nel 2009, riportando il mercato alle dimensioni del 2005. Se far girare derrate e cassette, insomma, è il core business della Wto, i fatti dimostrano che non sa fare neanche quello.
Ma c’è di più: la stessa Banca Mondiale avverte che alcune aree del pianeta come l’Africa Subsahariana, ma anche le fasce sociali marginali e i lavoratori non specializzati dei paesi più sviluppati, potrebbero risentire direttamente e ancor più pesantemente di un’apertura incontrollata dei mercati. La domanda che in questi anni ha tormentato chi ha avuto l’esatta percezione – e conoscenza – di questi numeri, oltre all’esperienza diretta della crisi che ha colpito tutti noi, è: perché, allora, ci teniamo la Wto? L’assillo di questa domanda, e anche una certa esigenza democratica, di giustizia e di scarsa fiducia nell’auto-riformabilità di organizzazioni infiltrate a tal punto dai poteri forti da aver trasformato in coefficienti esatti di apertura di mercato gli interessi di bottega delle élites a Nord e a Sud, ha portato la società civile, in questi dieci anni, a specializzarsi e ad organizzarsi. Succede così che a Ginevra, mentre alcuni ministri al commercio si fermano lo stretto tempo necessario per lamentare l’assoluta inefficienza, non trasparenza e macchinosità di tutta la macchina negoziale, oltre 200 di quei rappresentanti sindacali, contadini, attivisti e semplici cittadini, che non arrivano più soltanto dagli Stati Uniti e dalla vecchia Europa, ma dalle Mauricius, dalle Filippine, dall’Argentina, dall’Indonesia, dalla Nigeria, dal Togo, dal Sudafrica, dal Kenya, e via così fino a contare oltre 50 nazionalità, dati alla mano, li hanno stretti, incalzati, consigliati, informati.
Ne ha fatta di strada in questi 10 anni la rete Our World is not for sale, nata dall’esperienza di Seattle. Oggi ha le scarpe da ginnastica ma anche il badge da delegato nazionale, ha il velo in testa, la messa in piega o un bel fazzoletto africano. Succede così che, mentre il suo neo-negoziatore mostra i muscoli in plenaria, Lori Wallach di Public Citizen si alzi in piedi, come a Seattle, e sventoli sotto al naso del direttore generale della Wto Pascal Lamy dei testi negoziali segreti dove si dimostra che, nonostante gli altisonanti impegni assunti da Obama nei vertici G20, il suo Paese stia tentando insieme a Europa e qualche emergente di liberalizzare ancor di più i servizi finanziari, mandando di fatto fuori legge tutte le ipotesi di limiti alla finanza tossica messe in campo fino ad oggi. “Nessuno ha mai affermato che la Wto sia la causa della crisi”, le ha risposto Lamy distogliendo gli occhi mentre oltre 300 tra attivisti, contadini e imprenditori scoppiavano a ridergli in faccia e uno dopo l’altro gli raccontavano la storia vera dei contadini suicidi in India perché ridotti al lastrico dai prezzi bassi imposti dai giganti dell’agrobusiness, dei lavoratori messicani lasciati a casa dopo anni di maquiladoras, dei sem terra brasiliani che lo rimasero, degli impiegati giapponesi dei servizi cronicamente in miseria, degli operai della nostra Europa con stipendi cinesi. “Semplicemente non sappiamo”, rispondeva John Maynard Keynes quando gli chiedevano di partire dai suoi conti per immaginare il domani. Noi, purtroppo, ciò che ci sta succedendo lo sappiamo fin troppo bene. Siamo capaci di futuro, lo immaginiamo, lo stiamo costruendo.
*vicepresidente di Fair