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Il welfare urbano, terreno di ricostruzione della sinistra

Le città/ Non solo Milano, il fallimento dell’housing sociale certifica il trionfo delle assicurazioni e della privatizzazione del tessuto urbano. La prospettiva della ricostruzione del welfare delle città.

L’articolo di Veronica Pujia “Il nuovo welfare abitativo lombardo. Opportunità per chi?” apparso su questa stessa rivista on line di Sbilanciamoci merita grande attenzione. E’ infatti un’analisi puntuale e documentatissima sugli effetti della cancellazione delle politiche abitative a sostegno della classi più povere che storicamente si chiamavano “case popolari”. Veronica Pujia ci dimostra che il dominio economico e ideologico del neoliberismo è riuscito a demolire uno dei pilastri più importanti su cui si reggeva il welfare urbano e che questa azione demolitrice non ha incontrato resistenze da parte della sinistra che –anzi- con le leggi approvate dal governo Renzi ha completato lo scellerato disegno.

L’autrice parte dalla più efficace arma che è stata utilizzata in questi venti anni, per cancellare lo Stato sociale, quella dell’indebitamento della pubblica amministrazione. Nel 2013 si “scopre” che l’Aler (questo l’acronimo che ha sostituito gli storici istituti per le case popolari) di Milano viaggiava con un deficit di bilancio di 500 milioni. Occasione ghiotta per far passare qualsiasi legge: nel 2016 la regione guidata da Roberto Maroni approva la “Disciplina regionale sui servizi abitativi”. Invece di intervenire sulle vere cause del collasso finanziario, ad iniziare, come richiama Pujia, dagli assetti di potere e da sistemi di appalto che favoriscono le imprese legate alla politica, si cerca di risolvere il problema con l’ingresso nel comparto delle case pubbliche dei Fondi immobiliari.

Il tentativo di cancellare l’intervento pubblico nel settore degli alloggi pubblici viene da lontano. Nel 2009 il governo Berlusconi approva il “Piano casa” in cui viene prevista la costituzione del FIA “Fondo di investimento immobiliare” gestito dalla Cassa depositi e prestiti. Tutte le Regioni a guida centrosinistra -la stragrande maggioranza – non obiettano nulla e un ulteriore impulso a questa modalità di intervento viene data dal governo Renzi che con lo “Sblocca Italia” potenzia e favorisce in ogni modo l’accesso dei fondi immobiliari nelle trasformazioni urbane. Veronica Pujia ci dice che nell’ultimo periodo a fronte di 244 sfratti eseguiti a Milano solo nel 2016, con il meccanismo dei fondi immobiliari sono stati costruiti dal 2003 in totale 1939 alloggi, ma soltanto 200 da destinare a canone sociale. Un fallimento gigantesco.

Se si fosse operato con le usuali politiche rottamate dall’economia di rapina dominante e dalla politica succube, avrebbero dovuto essere stanziati circa 20 milioni: una cifra irrisoria se confrontata con il bilancio della regione Lombardia o con il fiume di denaro pubblico sperperato per l’avventura effimera dell’Expo 2015 dove si è superato l’esborso di tre miliardi di euro e tanti altri dovranno essere previsti per dare un destino a quella folle espansione urbanistica. Ma non è la ragionevolezza e il rigore che interessano all’economia neoliberista. Interessa soltanto mettere le mani su un segmento che consente ancora grandi guadagni. Come accennavamo, gli alloggi pubblici realizzati a Milano sono stati 200 a fronte di un totale di 1939: con il meccanismo dei fondi immobiliari sono stati dunque messi sul mercato 1739 alloggi costruiti per giustificare la realizzazione di quelli interamente pubblici. Si è in buona sostanza inventato un meccanismo moltiplicatore del mercato immobiliare: per costruire 1 alloggio di edilizia pubblica si deve alimentare una speculazione infernale e costruirne 10 in totale!

L’economia dominante pensa dunque di sanare i bisogni della fascia più povera della società alimentando un meccanismo dissipativo che aumenta il gigantesco stock immobiliare inutilizzato (7 milioni di alloggi vuoti). Non c’è alcuna logica nel capitalismo declinante, continuano ad applicare ricette che aggravano il morbo.

Nel 2009 la legislazione nazionale ratifica il capovolgimento culturale: nasce l’housing sociale invece delle case pubbliche e inizia la contesa tra istituti di credito e fondazioni bancarie per inserirsi nel mercato. L’offensiva neoliberista si appropria del mercato dell’edilizia per le famiglie a basso reddito. Per alimentare il fondo sull’housing sociale, oltre a Cassa Depositi e Prestiti, si inseriscono i colossi del credito, dalle Assicurazioni Generali a Unicredit, da Allianz a Intesa San Paolo.

La macchina della privatizzazione del comparto delle case popolari sembrava destinata al trionfo. La crisi globale, nata proprio per l’eccessiva esposizione immobiliare iniziata nel 2008, cambia ogni orizzonte e il castello di carte crolla proprio quando il governo Berlusconi cerca attraverso il Piano casa di mettere qualche toppa. Siamo oggi di fronte ad un generale impoverimento del ceto medio e ad una sempre più accentuata precarietà del lavoro dei giovani, dinamiche che rendono pressoché impossibile acquistare casa attraverso il meccanismo dell’housing sociale.

Il tragico bilancio della privatizzazione della città è un numero sempre più grande di famiglie in stato di disagio abitativo, della ricomparsa delle baracche, delle tante occupazioni. Un dato ci dice molto di quanto accaduto: fino al 1990 venivano costruiti in media 18 mila case popolari all’anno. Negli anni ’90 il valore scende a 10 mila. Nel decennio 2000 – 2010 si è arrivati a poco più di 5 mila.

L’azione riformatrice degli anni ’70 aveva strappato provvedimenti legislativi a favore delle classi deboli. Nel 1971 venne approvata dal Parlamento la legge sulla Casa (n. 865). Nel 1977 la legge “Bucalossi” (n.10) che facilita il governo pubblico delle città. Nel 1978 il piano decennale sulla casa. Nell’agosto di quello stesso anno la legge sull’equo canone. Pezzo dopo pezzo, tutta l’architettura che dava una risposta ai bisogni delle fasce popolari è stata demolita. Nel 1998 viene chiuso il capitolo dei contributi Gescal che avevano consentito di finanziare l’edilizia pubblica mentre negli anni ’80 due sentenze della Corte costituzionale limitarono le possibilità dei comuni a costruire nuovi quartieri popolari.

La questione decisiva -e fa bene l’autrice a concludere il suo lavoro con la parte construens– è dunque come può rispondere una sinistra sempre più muta. Tre sembrano le strade da seguire per ripartire. Ricostruire pezzo dopo pezzo la legislazione in grado di dare risposte alla società impoverita e all’immigrazione.

La seconda è quella della certezza dei finanziamenti: poche centinaia di milioni di euro servirebbero per sanare le emergenze. Occorre dunque tornare a finanziamenti certi e duraturi: il segnale potrebbe partire dal far pagare l’Imu alla grande proprietà. Calcolando che sono almeno 300 mila gli alloggi nuovi invenduti, ogni anno la potente lobby risparmia 300 milioni. I sostenitori del “libero mercato” hanno stabilito che chi costruisce case e non le vende è esentato dalle tasse che tutti gli altri cittadini pagano. Basta un articolo di legge per chiudere questo scandalo inammissibile.

Infine, la sinistra potrà riprendere il cammino se saprà indicare la prospettiva della ricostruzione del welfare urbano selvaggiamente cancellato. Era una delle più innovative conquiste del movimento riformatore e va ripresa. Il fallimento dell’housing sociale ci offre la grande possibilità di ricostruire un pensiero nuovo fondato sulla solidarietà sociale e sulla città come bene comune.