L’Ecuador esce dalle elezioni del 7 febbraio senza una chiara direzione in attesa del ballottaggio. Nel frattempo il movimento indigeno Pachacutik vince il referendum che proibisce le attività minerarie nelle zone critiche per il regime idrico a Cuenca.
Ci sono state sorprese nelle elezioni di domenica 7 febbraio in Ecuador. E meno male che ancora le elezioni possono riservare sorprese, significa che tutto sommato gli elettori sono ancora capaci di ritagliarsi degli spazi di autonomia e spirito critico, di fronte al potere manipolatore dei mezzi di comunicazione e della retorica politica. Nel Paese andino, 17 milioni di persone in un territorio di 256.000 chilometri quadrati, si è votato per eleggere il nuovo presidente e rinnovare l’Assemblea nazionale ( cioè il Parlamento). Contemporaneamente si è tenuta un consulta popular, un referendum, nella città di Cuenca, la terza del Paese, sulla proibizione di sviluppare progetti di sfruttamento minerario nelle zone di ricarica degli acquiferi da cui la città attinge l’acqua.
Dopo i primi sondaggi, che proiettavano Andrés Arauz, delfino dell’ex presidente Rafael Correa, in vantaggio davanti a Guillermo Lasso, ex banchiere e candidato conservatore, entrambi in lizza per il ballottaggio ad aprile, lo spoglio si è rivelato controverso. Fin dai primi dati parziali, Arauz si é confermato saldamente al primo posto, ma si è assistito ad un testa a testa tra Lasso e Yaku Pérez, il candidato del movimento indigeno “Pachacutik”, per il secondo posto. Nel momento in cui queste righe vengono scritte non ci sono ancora risultati ufficiali; Yaku Pérez é in vantaggio di appena 12.000 voti e sulle reti sociali iniziano a circolare voci di frode, mentre Pachacutik fa appello al Consiglio nazionale elettorale affinché rispetti con trasparenza la volontà popolare. Ci vorranno probabilmente ancora vari giorni prima di avere un verdetto definitivo, dal momento che entrambi gli aspiranti al secondo posto hanno espresso l’intenzione di chiedere di ricontare le schede, prassi che si sta facendo piuttosto frequente, non solo in Ecuador.
Nel frattempo si possono avanzare alcune considerazioni riguardo gli umori del Paese, così come emergono dai dati disponibili. Innanzitutto, la destra di orientamento neoliberale ne esce fortemente indebolita: anche se alla fine Lasso dovesse spuntarla su Pérez, il fatto di aver dovuto lottare voto a voto con un candidato indigeno sarà comunque percepito come un’umiliazione, in una società tutt’ora lacerata da razzismo e discriminazione. E sarebbe difficile per Lasso vincere al ballottaggio, con tutta probabilità, se le forze di sinistra si unissero contro di lui, anche se in parte riluttanti a sostenere un candidato vicinissimo all’ex presidente Correa. Per Lasso sarebbe la terza sconfitta in tre elezioni successive, così come all’inizio del secolo era successo ad Alvaro Noboa, imprenditore bananero, al tempo l’uomo più ricco del Paese, esponente, in sostanza, degli stessi interessi che sostengono Lasso.
E’ un’ulteriore conferma del sentimento anti neoliberale, sviluppato dai più vecchi negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso – gli anni rampanti dell’apertura e dei programmi di aggiustamento strutturale – e che i più giovani hanno rapidamente imparato a conoscere negli ultimissimi anni di austerità post boom petrolifero, durante i quali si sono persi posti di lavoro, sono stati indeboliti i servizi pubblici, hanno ricominciato ad aumentare la povertà e le disuguaglianze e si sono fatti passi indietro in termini di democrazia.
I risultati dei delegati all’Assemblea nazionale sono ancora più chiari: i 49 seggi dell’Unione per la Speranza, la coalizione che sostiene Arauz, più i 27 seggi conquistati da Pachacutik, a cui vanno aggiunti 18 della Sinistra Democrática, che si autodefinisce di centro-sinistra, lasciano pochi dei 137 scanni totali ad esponenti conservatori. Quindi, anche nel caso di una improbabile vittoria di Lasso, un’agenda neoliberale troverebbe non poche resistenze. Per il movimento Pachacutik rappresenta un successo elettorale importante, un momento di riscatto per un gruppo sociale tradizionalmente discriminato, su cui ha inciso in modo determinante la leadership esercitata dalla CONAIE, organizzazione indigena base sociale di Pachacutik, nelle proteste di ottobre 2019 contro un pacchetto di austerità proposto dal governo di Lenin Moreno.
Detto questo, uno sguardo un po’ più ravvicinato ai due candidati di sinistra e ai loro programmi rivela un panorama sfaccettato. Andrés Arauz si pone come successore ed erede del governo di Rafael Correa e, dunque, incentra il suo programma in una agenda di investimenti, modernizzazione, e trasformazione della base produttiva del Paese, che risponde ad una necessità di sicurezza sociale ed economica molto sentita. E probabilmente, tra tutti candidati, Arauz, economista di scuola keynesiana ed ex direttore della Banca centrale dell’Ecuador, è forse l’unico che avrebbe le capacità di trovare spazio per una politica fiscale espansiva nelle attuali condizioni, drammatiche dell’economia, ammesso che tale spazio esista. D’altro canto, il blocco politico di Correa si è sistematicamente dimostrato sordo ad altre rivendicazioni sociali, in particolare sul fronte ambientale, femminista – con posizioni feudali sull’aborto – e verso i diritti LGBTQ, che stanno diventando importanti per la società. Anzi, il governo di Correa, che non è mai stato famoso per la sua inclinazione al dialogo, ha più volte scelto di ridicolizzare e delegittimare le proteste di ampi settori sociali contro gli effetti devastanti delle attività petrolifere e minerarie, atteggiamento che gli è valso un conflitto permanente con la CONAIE.
Sul fronte Pachacutik le rivendicazioni ambientali sono il centro del programma di governo di Yaku Pérez, che è diventato famoso sostenendo iniziative contrarie all’espansione mineraria quando era Prefetto della regione dell’Azuay – la regione di Cuenca, in cui più dell’80% della popolazione ha scelto di rispondere affermativamente al referendum e proibire le attività minerarie nelle zone critiche per il regime idrico. Infatti, se il petrolio è una parte importante dell’economia e del bilancio nazionale fin dagli anni ’70, lo sfruttamento minerario è stato introdotto recentemente, con benefici molto modesti in termini macroeconomici e impatti ambientali enormi, che hanno alimentato proteste continue negli ultimi anni e rappresentano una enorme contraddizione in uno dei Paesi con la maggiore biodiversità del pianeta. Pérez si definisce “ecologista ed umanista”, esibendo una sensibilità marcata verso la diversità etnica e culturale del Paese. Peccato poi che quando entra nel merito del programma economico scivola su posizioni apertamente neoliberali, proponendo incentivi tributari per attrarre investimenti (che di fatto esistono e sono già più ampi di quelli proposti da lui), nuovi accordi commerciali con partner che già hanno tariffe bassissime per i prodotti ecuadoriani ed una visione malthusiana dei sussidi proposti da Arauz nel contesto della pandemia (“se si danno soldi ai poveri, li spendono per ubriacarsi…”). Insomma, posizioni non proprio di sinistra. Tanto più che la sua candidatura a presidente ha suscitato non poche polemiche all’interno dello stesso movimento indigeno, per essere stata imposta dalla dirigenza di Pachacutik a scapito di un processo partecipativo di primarie che veniva chiesto da varie delle correnti interne. La dirigenza della CONAIE ha finito, poi, per riconoscere Pérez come il proprio candidato, anche se alcuni dei sui leader carismatici, primo tra tutti Leonidas Iza, eroe delle proteste di ottobre 2019, non hanno mai smesso di insistere sull’importanza del programma di governo più che del nome del presidente e sulla necessità di combattere la destra “venga da dove venga” (sottinteso: anche se viene dal nostro candidato).
Questa divisione tra sinistre, una più fedele alla sua anima materialista tradizionale e una postmoderna, votata alla difesa delle nuove sfide di ecologia e diritti, è artificiale e soprattutto lascia zoppo l’attivismo sociale. Perché una società veramente democratica deve trovare spazio per affrontare tutte queste dimensioni, dato che per il benessere delle persone sono tutte indissolubilmente intrecciate.
La politica è fatta di compromessi, personalismi, interessi complessi che spesso danno forma ad equilibri – o disequilibri – peculiari. Ma le aspirazioni e le aspettative degli elettori, in un regime democratico, devono sempre rimanere ben visibili all’orizzonte. Che cosa sta a cuore alla maggioranza degli ecuadoriani è chiaro: se la politica non saprà dare risposte, ci aspettano ancora anni turbolenti di protesta sociale.