Nei primi sei mesi del 2015, Volkswagen ha superato la rivale Toyota che deteneva il vertice da qualche anno, avendo approfittato della crisi di General Motors, tradizionale capofila del settore automobilistico. Ma la corsa del gigante tedesco si è infranta proprio nel mercato su cui più aveva puntato
Misurando a spanne, le automobili prodotte ogni anno nel mondo sono, da qualche tempo, 60 milioni o poco più. 18 milioni in Cina, 15 nell’Unione europea, Germania in testa, 8 in Giappone, 4 in Corea e negli Stati Uniti, 2 in India e in Brasile (dati del 2013). In ogni regione l’industria automobilistica e ciò che la circonda è fondamentale per l’economia: la società nel suo insieme e il lavoro in ogni campo. Così l’auto, motore del capitalismo, è dovunque favorita e difesa; ogni opinione contraria è da condannare, come eretica e malsana. Chi attenta all’auto deve essere posto al confino. Si può aggiungere che la Cina è cresciuta in termini automobilistici in dieci anni, passando da uno o due milioni di inizio millennio al livello precipitoso di oggi; che gli europei si vantano di costruire le auto più sicure, veloci e meno inquinanti di chiunque altro; che i giapponesi costruiscono di fatto le auto nel modo più efficiente e lo sanno, mentre gli americani sono convinti che le auto, problema loro, siano fatte per andare a benzina. Ecco quindi rivelarsi lo spirito dei cinesi in procinto di scalare il mondo; quello degli europei, sicuri della loro superiorità ambientale e umana; quello dei giapponesi sprezzanti con le tecniche altrui; e infine degli americani sicuri del petrolio, una loro amatissima invenzione.
Tre gruppi automobilistici sopravanzano largamente gli altri: Toyota, General Motors e Volkswagen, tra i 9 e i 10 milioni ciascuna. La corsa al primato tra di esse è senza soste, anche se la crisi economica generale l’ha messa spesso in ombra. Da decenni, interi paesi e regioni sono stati invasi dai tre grandi che vi hanno esportato la produzione, comprato o chiuso gli impianti esistenti, prodotto direttamente auto intere o parti di esse, utilizzando lavoro operaio sottopagato.
Winterkorn è il condottiero che ha guidato per anni l’esercito di Volkswagen (VW), decisa a passare da numero tre a due, a uno. Possiamo immaginare che il suo obiettivo fosse quello di farne il primo gruppo automobilistico mondiale in ordine alle vendite e pertanto garantirsi il ruolo di capo dell’impresa numero Uno. Utilizzando il suo potere indiscriminato ha ristrutturato una serie di case automobilistiche del gruppo, compattandole con VW, casa madre. Il primo posto, con il successo di immagine collegato, gli avrebbe dato buone prospettive per vincere la gara con Piëch, portatore delle azioni di una delle dinastie dei Porsche, suo acerrimo rivale al comando di VW. Si deve però tenere conto del fatto che le vendite, certo importantissime per una grande multinazionale automobilistica, non sono tutto. Finché si è il numero 2 o il numero 3, il compito è sempre quello di “try harder”, come dicono loro, per raggiungere la testa. Ma quando si è già il numero 1 si può solo andare indietro. Quella di vertice è, come si può capire, una posizione di estremo rischio. Perdere il primo posto, la pool position, sempre parlando da cultori dell’auto, è disastroso. Inoltre c’era lo scontento degli americani, impermaliti per aver perso il primo posto, loro per meriti storici, acquisiti nella notte dei tempi. Ma su questo scontento torneremo alla fine. Va ricordato che per le case automobilistiche contano anche i dividendi pagati agli azionisti e conta il valore del capitale azionario in borsa. Da sempre banca, finanza, politica nazionalistica contaminano la purezza ingegneristica dell’auto.
Nei sei mesi da gennaio a giugno 2015 VW ha dunque superato, secondo i piani di Winterkorn e secondo le attese, la rivale Toyota che deteneva il vertice da qualche anno, avendo approfittato della crisi di General Motors, tradizionale capofila del settore automobilistico nel corso del tempo. Gm è stata l’auto più venduta al mondo tra 1931 e 2007. Il sorpasso di VW nei confronti dei giapponesi era di una cortissima testa, come direbbero negli ippodromi: 5,04 milioni di auto vendute contro 5,02. I profitti dell’intero 2014 erano però di 14,572 miliardi di dollari contro 19,767 della rivale; il valore di borsa, molto considerato da quei taccagni degli azionisti, era di 80 miliardi contro 184. Inoltre il numero dei dipendenti era di 592.586 persone a fronte di 344.109. L’avere eccessivi dipendenti, da quando lo spirito Toyota (just-in-time, per esempio, più tutto il resto) ha conquistato la scena, non è un buon segno. Molto meglio fare più soldi con meno addetti. Il primo posto nella casa VW di capo Winterkorn era dunque molto a rischio; poteva saltare in ogni momento.
La strategia scelta da capo Winterkorn e dai suoi generali fu quella di conquistare altro spazio di vendite sul mercato americano, mai sazio di automobili nuove, agli occhi dei fabbricanti e considerato ormai fuori dalla crisi. Il mercato delle automobili straniere costose era molto affollato sulle piazze americane. Mercedes e Bmw, Toyota-Lexus e poi Volvo e Jaguar a riempire le nicchie. E poi ibride ed elettriche, auto a metano e a idrogeno, jeep e limousine, auto sportive e pick-up. Il mercato delle auto andanti ancor più affollato, per la presenza di coreani e giapponesi, auto locali ed europee; automobili per tutti i gusti. La scelta di VW fu allora di puntare sulle auto a gasolio, una specialità della casa, imposta ormai anche su alcuni modelli della marca di lusso, la famosa Porsche. La vendita non andò benissimo ma fu considerata un inizio promettente. Lo prova, in ogni senso, la cifra delle auto da richiamare, indicata dall’Epa (Environmental Protection Agency, agenzia ambientale del governo americano) si tratta di poco meno di mezzo milione di auto vendute (480 mila) .
Per gli americani, a gasolio vanno i camion, mentre le auto, tutte le auto, vanno a petrol, come dice The Economist, a gasoline come dicono, facendo un po’ di confusione, gli americani, cioè a benzina. L’auto a gasolio per gli americani è contro natura, un errore di logica e buonsenso, forse di libertà. Gran parte del mondo dell’auto – chi la fabbrica, chi la vende, chi la compra, chi l’aggiusta – la pensa così ed è una parte notevole della popolazione. Lo sostiene con ancor più vigore il mondo del petrolio che tornato negli Usa in testa tra tutti produttori del mondo, a furia di Shale Oil, si sente in grado di disporre del Parlamento e dell’esecutivo a tutti i livelli.
I petrolieri pensano sempre che l’auto sia cosa loro, hanno guidato ogni cauto cambiamento, hanno però distrutto in varie occasioni ogni prospettiva di auto elettrica.
L’auto inquina e questo è un fatto. Si dà importanza all’emissione di CO2 (anidride carbonica) e in misura minore di NOx (ossidi di azoto); l’auto a gasolio, diesel come diciamo noi, emette meno CO2 e quindi ha conquistato ormai metà della clientela in Europa. Sul diesel VW ha truccato un po’ le carte come un prestidigitatore particolarmente abile, ma in genere le case dell’auto fanno trucchi, come studenti pieni di inventiva agli esami. Abbiamo letto di esami, sia pure stradali, ma fatti su percorsi in discesa o gonfiando le gomme in modo esagerato. Ogni casa europea lotta contro gli inganni delle altre, ma in silenzio. Dopo tutto è un gioco a tre: produttori, autorità europee, pubblico degli automobilisti. I paesi di riferimento di ogni casa europea proteggono la propria creatura, finché possono e quindi VW se la cava benissimo nel contesto della Germania allargata. Più difficile superare gli esami americani che invece sono severi ed erano particolarmente importanti per la strategia scelta da VW e Winterkorn. Si può pensare che davanti all’Epa si siano scontrate due lobby agguerrite, alimentate da spioni di ogni colore. Alla fine è risultato che VW abbia inserito in svariati modelli diesel un software truffaldino che agisce in termini di ridurre le emanazioni di Nox durante gli esami e poi, superati quelli, rilascia in atmosfera tutto l’azoto inevitabile per le prestazioni di velocità, ripresa, consumi garantiti ai compratori. A Bruxelles non ne sapevano nulla; nel senso che alcuni funzionari erano obiettivamente all’oscuro di tutto; altri, più o meno al corrente, erano spinti da amor di Europa o da amor di carriera.
Non abbiamo dimenticato un ultimo punto, lo scontento americano. Gli Usa, popolo e governo, sono molto contrariati per aver perso la primazia nell’auto. Rivogliono il primo posto. Sarà capace Mary Barra, Ceo di General Motors (GM) di restituirglielo? No o forse sì. No, se si intestardirà nel negare la fusione tra la sua impresa, GM e la Fca (ex Fiat Chrysler) di Marchionne. Forse sì, se accetterà la fusione tra le due società automobilistiche, accontentandosi di fare il numero due finché Marchionne deciderà di andarsene, lasciandole il comando.