Quale impatto economico e equitativo hanno avuto le varie imposte sugli immobili che si sono avvicendate negli ultimi anni? Uno studio fa i conti
L’introduzione dell’Imu prima e ora della Tasi nel sistema tributario italiano hanno riacceso l’annoso dibattito sull’imposta sugli immobili ed in particolare sulla prima casa. Il dibattito, seppur con diversa intensità, si trascina ormai dal lontano 1993, anno di entrata in vigore dell’Ici. Parallelamente al dibattito politico-elettoralistico, però, l’istituzione di queste imposte ha aperto un confronto, seppur contenuto, sui loro potenziali impatti economici ed equitativi. In ragione della sua più lunga storia, il dibattito scientifico ha riguardato prevalentemente l’Ici.
Nessuno studio, a nostra conoscenza, ha invece analizzato le ricadute dell’Ici sul mercato immobiliare. In particolare, nessuno studio ha cercato di verificare se l’Ici abbia o meno rallentato, come prevedrebbe la teoria (al crescere del prezzo o del costo di gestione di un bene corrisponde una riduzione della domanda), l’offerta di nuove costruzioni. La questione non è di poco conto, perché il fenomeno dell’urbanizzazione ha effetti non trascurabili sull’assetto del territorio e sul consumo di suolo.
La Carta Europea del Suolo dichiara che il suolo è uno dei beni più preziosi dell’umanità. Nonostante ciò, il suolo in molti contesti sembra essere diventato una risorsa monofunzionale, di tipo economico, finalizzata alla generazione di rendita per il privato e, da qualche tempo, di gettito per gli enti pubblici. L’Ispra stima che in Italia negli ultimi decenni il fenomeno dell’impermeabilizzazione ha portato via più di 100 ha di terreno al giorno e che la superficie totale impermeabilizzata copra ormai quasi il 7% del territorio nazionale. Valori particolarmente elevati si riscontrano in Lombardia, Veneto e Campania. Il dato, in realtà, assume maggior rilevanza se si considera che circa il 35% del territorio nazionale è costituito da montagne e che la maggior parte delle trasformazioni di suolo legate all’attività edificatoria si concentrano in aree di pianura.
Il cambio di destinazione d’uso dei suoli, che rappresenta spesso il primo passo verso la cementificazione, e l’avanzamento delle aree edificabili sono anche tra le cause dell’abbandono delle terre da parte degli agricoltori. L’Istat stima che dal 1982 al 2010 l’Italia abbia perso più di 3,1 milioni di ettari di superficie agricola utilizzata (Sau), una superficie pari alla somma di Lazio e Campania. Dei terreni persi nel periodo 1990-2006 per insediamenti di tipo residenziale e di tipo produttivo-commerciale, la quasi totalità (circa il 94%) delle trasformazioni ha riguardato terreni in origine agricoli.
Un tempo la crescita degli insediamenti abitativi era legata alla crescita della popolazione. Questo non sembra più essere vero oggi. Il fenomeno è del tutto evidente in Italia. Nel periodo post-bellico la popolazione è cresciuta di circa 1/4 mentre il numero delle abitazioni è più che raddoppiato, superando i 29 min, il 20% delle quali non occupate. Tutto ciò lascerebbe presupporre che l’offerta residenziale, pur risentendo dell’andamento delle più tradizionali variabili socio-economiche, ormai risponda in prevalenza a finalità diverse da quelle abitative. Questo elemento è evidente nell’ultimo ciclo espansivo iniziato nel 1995. Tra le ragioni che lo spiegherebbero c’è l’andamento dei tassi di interesse.
La dinamica dei tassi di interesse in Italia, però, ha mostrato una costante tendenza alla riduzione dai primissimi anni ’80 fino alla fine degli anni ’90, quando è cominciato un periodo di maggiore stabilità. Il dato interessante è rappresentato anche dal fatto che, nonostante l’aumento considerevole dello stock di abitazioni, i prezzi delle case siano continuati ad aumentare (figura 1).
È utile ricordare, però, che, dato il regime autorizzativo, affinché l’offerta di abitazioni possa crescere è necessario vi sia una politica urbanistica accondiscendente. Diversi studi scientifici sull’argomento dimostrano che la regolamentazione, più di altri fattori (quali dinamica demografica, prezzo degli immobili, costo di costruzione, accesso e costo del credito, oneri di urbanizzazione), è l’unico (o comunque il più incisivo) elemento in grado di attenuare l’impatto delle dinamiche di mercato (shock di domanda) sulla crescita urbana e, di conseguenza, contrastare le conseguenze economico-ambientali dei cicli espansivi o delle bolle immobiliari.
Un ruolo molto più contenuto sembrano svolgere le imposte, comprese quelle di proprietà. Su tale aspetto, anche se con risultati non sempre statisticamente significativi, gli studi evidenziano, come atteso, una relazione negativa, seppur contenuta, tra imposizione e investimento in nuove costruzioni.
In Italia, invece, l’introduzione dell’ICI non ha avuto alcun effetto depressivo. Questo dato è confermato anche dai risultati del modello empirico stimato nel lavoro. Da questo emerge che l’ICI non ha in alcun modo rallentato il mercato primario delle abitazioni. Anzi, dopo la sua introduzione, paradossalmente, l’offerta di costruzioni ha subito un’accelerazione (figura 2). L’ipotesi è che il processo di decentramento fiscale e deregolamentazione realizzatosi negli anni ’90 abbia facilitato o contribuito ad amplificare gli effetti di mercato.
Figura 2: Numero nuove abitazioni 1981-2008 (1981=100).
Figura 3: Indicatori sull’andamento delle entrate correnti dei Comuni (1990-2010).
La forte riduzione dei trasferimenti statali verificatasi negli anni ’90 ha fatto sì che per molti comuni l’Ici diventasse la principale fonte di gettito (figura 3). Per far fronte alla riduzione dei trasferimenti statali, i comuni hanno inizialmente fatto affidamento sull’aumento delle aliquote, come mostrano i dati sulle aliquote medie applicate passate dal 4,78%o del 1993 a circa il 6%o a metà degli anni duemila. Questa politica, però, incontrava due limiti: il primo è dato dai vincoli di legge sulle aliquote e detrazioni massime praticabili; il secondo è di tipo politico-elettoralistico. Esaurito il margine di autonomia loro concesso dalla legge e dall’opportunità politica, l’unico modo che i comuni avevano per aumentare il gettito era costituito dall’ampliamento della base imponibile. La nostra ipotesi è che, in generale, i comuni abbiano “sfruttato” tale opportunità allentando i controlli e/o adottando una pianificazione territoriale meno rigida, incentivati in ciò anche dalla possibilità di riscuotere il contributo sul costo di costruzione e di finanziare parzialmente la spesa corrente con gli oneri di urbanizzazione. In sintesi, nel trade-off tra necessità finanziarie e obiettivi di gestione del territorio, sembra che l’effetto imposta abbia prevalso sull’effetto regolamentazione. I comuni hanno così creato le premesse per futuri squilibri di bilancio e, soprattutto, ambientali.
Se l’ipotesi qui avanzata è corretta, si potrebbe dire che una delle conseguenze del decentramento fiscale, così come è stato realizzato in Italia, è stata la creazione di una perversa alleanza tra controllati e controllori, il cui risultato è stato una velocizzazione nel cambio di destinazione d’uso dei suoli e, quindi, della loro impermeabilizzazione. Se così fosse, si imporrebbe una riflessione sulla struttura delle imposte sul patrimonio immobiliare e/o sull’efficienza ed opportunità di lasciare in capo all’ente locale la titolarità della programmazione urbanistica.
Questo lavoro sarà pubblicato a breve su Politica economica Rivista di studi e ricerche per la politica economica – Il Mulino