Il ministro e il vice premier, leghisti, si rincorrono in dichiarazioni di sovranismo scolastico. Spettacolo penoso sconfessato da studi e percentuali. Ma al di là di ciò occorre affrontare seriamente, con risorse e programmazione, il tema dell’apprendimento dell’italiano per gli studenti con background migratorio.
Il ministro Valditara ha aperto un nuovo capitolo, quello dell’integrazione scolastica degli studenti con background migratorio. Lo ha fatto prima che la tempesta attorno alla scuola di Pioltello scatenasse Matteo Salvini, e che il ministro, da buon leghista, si mettesse a rincorrerlo. Che cosa ne uscirà ora non è chiaro, ma dalle dichiarazioni di questi giorni c’è da aspettarsi il peggio.
Incurante dell’impraticabilità dei tetti alla presenza in classe dei bambini e dei ragazzi con background migratorio (neanche il tetto del 30% della ministra Gelmini risultò applicabile, figuriamoci il 20% proposto dall’attuale vicepresidente del Consiglio) perché le scuole del primo ciclo rispecchiano per lo più le connotazioni della popolazione dei territori di riferimento e perché è la stessa pesante gerarchizzazione degli istituti e degli indirizzi della scuola superiore italiana a determinare l’articolazione degli addensamenti, Valditara un po’ balbetta, un po’ rincara. Pasticciando con le percentuali e proclamando la necessità di avere in ogni classe una maggioranza di “italiani” perché gli “stranieri” possano meglio “assimilarsi”. E via con l’elencazione di musica, letteratura, arte, storia, scienza, tecnologia tutte rigorosamente made in Italy. Spettacolo penoso, quello del sovranismo scolastico, in una scuola che avrebbe invece un gran bisogno di aprire i curricula ai contributi di civiltà e di realtà storiche anche oltre i confini europei.
Molto si sta discutendo, al di là delle contorsioni dell’ultima settimana, delle proposte relative al potenziamento dell’apprendimento dell’italiano che erano state rese pubbliche un paio di settimane prima della buriana di Pioltello. Che cosa uscirà questa volta dal cappello del “ministro del merito” ? Anche se le politiche del governo su migrazioni e immigrati sono tali da suscitare ben più che diffidenze, gli orientamenti espressi dal ministro non sembravano giustificarle. Pur parziale in termini di analisi e di soluzioni, il disegno, emerso da una sua recente pubblicazione e da parecchie dichiarazioni, sembrava a prima vista più pragmatico che ideologico, utile dunque alla riconsiderazione di un tema importante, su cui altri governi, anche di tutt’altro colore politico, hanno più proclamato che fatto. Il problema evidenziato è reale, e molto serio. Si tratta del notevole svantaggio rispetto agli italiani a tutto tondo di questa parte della popolazione scolastica (nel 2023 sono 872.360 studenti, il 10,3% del totale) per risultati di apprendimento e abbandoni precoci. A dirlo sono numerosi studi che vedono anche su questo tema l’Italia collocata assai in basso nelle classifiche internazionali.
A quasi trent’anni dalle prime scuole plurietniche e plurilingue, sono lenti e modesti i miglioramenti da un anno all’altro, tra cui la sempre più estesa partecipazione alla scuola superiore, licei compresi. E correlati più con i processi di stabilizzazione della popolazione immigrata, quindi col peso crescente dei nati in Italia (ormai quasi il 68% del totale, ma solo il 45% nei percorsi per il diploma) che su una migliorata efficacia della scuola italiana.
Le cause sono molteplici (tra cui lo spiccato svantaggio economico sociale e professionale di gran parte delle famiglie immigrate), ma l’accento viene posto sulle difficoltà linguistiche che, se non sono l’unico fattore di criticità, hanno effettivamente un grandissimo peso sui percorsi accidentati, sui ritardi, le bocciature, gli abbandoni degli studenti con storie proprie o familiari di emigrazione. La proposta del ministro Valditara è che le scuole attivino percorsi di apprendimento intensivo della lingua italiana come lingua 2, distinti dall’insegnamento nelle classi comuni (dove gli studenti vengono e devono restare iscritti, come prevede la norma). Le tipologie individuate sono due, le scuole dovranno scegliere tra percorsi aggiuntivi di tipo extracurricolare o percorsi distinti ma integrati nel curricolo comune.
L’idea non è così nuova come si pretende, e il fatto che venga proposta senza riferimento alla vasta gamma di altre azioni di sistema necessarie al successo dell’integrazione, che non contempli modulazioni per grado e tipo di scuola, che non accenni neppure alle numerose variabili soggettive e di contesti territoriali, costituisce indubbiamente un grave limite, di tipo anche culturale. Ma che si ipotizzino azioni di rafforzamento linguistico parzialmente e temporaneamente separati non dovrebbe essere un tabù per nessuno. Chi evoca il fantasma delle “classi differenziali”, chi si interroga pensoso sulle pagine dei giornali se l’idea sia di destra o di sinistra, sembra ignorare che pratiche di questo tipo fanno già parte a pieno titolo dell’esperienza italiana di accoglienza e integrazione di alunni che, di prima o di seconda generazione, non hanno l’italiano come lingua materna. Sia nella forma, più facile da attuare, dei doposcuola o di altre opportunità fuori dall’orario scolastico (e talora, molto positivamente, anche tra giugno e settembre ). Sia in quella, più complessa, di laboratori linguistici che sostituiscano, in modo temporaneo e con andamento a scalare, una parte degli insegnamenti comuni (tipicamente quelli di italiano e delle discipline cui è troppo arduo accedere in presenza di forti deficit linguistici, quindi non matematica, tecnologie, lingua straniera, musica, educazione artistica e motoria). Questa seconda forma, che è molto importante ed anzi indispensabile per i “neo arrivati” con nessuna familiarità con l’italiano – soprattutto minori “ricongiunti” e “non accompagnati” iscritti nelle due secondarie, ma anche profughi come si è ben visto con i ragazzi ucraini in fuga dalla guerra – è sempre stata assai più rara della prima. E oggi, a frontiere semichiuse, lo è più che dieci anni fa. I neo arrivati, infatti, sono oggi una quota minoritaria (nel 2023 erano poco più di 19.000, di cui 14.000 nelle due secondarie). Richiede inoltri delicati equilibri tra insegnamenti comuni e speciali, postula mediatori linguistici e insegnanti specialisti, esige metodologie e strumentazioni didattiche specifiche, e non tutte le scuole in cui sarebbe necessaria sono disponibili o capaci o in grado di attivarla.
Di tutto ciò finora Valditara non dice un bel niente. Ma a chi sa cosa ha potuto finora fare la scuola italiana, e attingendo a quali risorse, non può sfuggire che la novità, almeno teorica, della sua proposta, consiste nel prevedere che i percorsi distinti – che si chiamino doposcuola, laboratori linguistici, percorsi a scalare – dovrebbero essere attivati dalle scuole in modo ordinario e con proprie risorse. Se fosse così, se sarà così, sarebbe un passo avanti. Perché finora la realtà è stata per lo più un’altra. Infatti è raro che si sia potuto operare con continuità e sistematicità, sedimentando prassi, metodologie, ricerca didattica, competenze professionali in molte scuole, soprattutto nella secondaria di II grado; non si è attivato niente di simile né in forma extracurricolare né in forma integrata nel curriculum comune, anche nella maggior parte di quelle in cui invece ci sono state esperienze, anche eccellenti, di cura dell’italiano lingua2 non solo come lingua della comunicazione ma anche come lingua per lo studio. Non si può farlo quando ci si deve arrangiare con finanziamenti speciali, progetti temporanei, volontariato professionale, contributi dell’associazionismo, variabili interventi degli enti locali eccetera. E neppure se ogni istituto autonomo, fuori da un’organizzazione e da un governo territoriale del sistema, è costretto a far da sé e per sé. Sono relativamente poche, e solo in alcuni ambiti territoriali, le esperienze che, per un insieme di fattori favorevoli – tra cui l’impegno di alcuni Comuni, come quello notissimo di Prato, o quello di Verona dove agisce da anni un forte impegno finanziario e organizzativo della Fondazione San Zeno – hanno potuto sviluppare sistematicità e continuità da un grado di istruzione scolastica all’altro, coinvolgimento dello zerosei, convergenza tra le azioni sulle competenze linguistiche e le altre, necessarie all’integrazione. Il passaggio “all’ordinario” implicherebbe una diffusività e un’omogeneità preziosa, con la possibilità di superare il solito andamento a macchia di leopardo dell’innovazione scolastica italiana.
Sarà così? E’ davvero questa, e solo questa, l’idea originaria del ministro Valditara? Impossibile dirlo finché non ci sarà quel piano attuativo a cui, si dice, stanno lavorando gli uffici di viale Trastevere. Per il momento non rassicura che il ministro in questione abbia fatto riferimento a un investimento di poche decine di milioni, tra risorse del MIM e fondi FAMI, questi ultimi peraltro non tutti destinabili alla scuola e di cui è titolare il ministero degli Interni. Non rassicurante è anche la completa assenza, nei suoi proclami, di un’ipotesi di sviluppo di un corpo professionale specialistico, gli insegnanti della classe di concorso cosiddetta A23, finora assegnati solo ai centri di istruzione degli adulti e a cui, nell’ultima ondata di concorsi, è destinato il numero – ridicolmente esiguo – di 51 posti (sui 40.000 per insegnanti di italiano nella secondaria). Con quali risorse economiche e professionali dovrebbero essere attivati i nuovi percorsi? Si pensa di fare il bis – risorse scarse, nessuna figura professionale stabile, improvvisazione organizzativa e formativa – di ciò che è stato malauguratamente predisposto per l’orientamento?
Ci sono anche altre questioni su cui fare chiarezza, dentro e fuori le scuole, con gli insegnanti e nell’opinione pubblica. Tra i motivi per cui attivare percorsi temporaneamente distinti o separati, limitatamente all’apprendimento dell’italiano, non può esserci l’argomento secondo cui i deficit linguistici degli studenti con background migratorio sarebbero causa di peggioramento dell’apprendimento degli studenti italiani. E’ imperdonabile che a sostenerlo, come è successo già prima di Pioltello, sia un ministro della Pubblica istruzione. Non solo perché smentito da tutti i dati, a partire dai migliori risultati medi delle scuole del Nord e del Centro dove la presenza dei figli dell’immigrazione è spesso sopra il 20% rispetto al Sud, dove è sempre molto al di sotto del 10% (3% in Campania, 2% in Sardegna ). E neppure perché è assolutamente intuitivo, ma anche scientificamente accertato, che per superare in fretta i deficit linguistici è decisivo lo scambio comunicativo tra pari nelle classi multilingue e che tale scambio linguistico, che è sempre anche culturale, fa bene a tutti.
Il problema è che si tratta di un argomento decisamente, e forse anche intenzionalmente, maligno. Perché è lo stesso che viene utilizzato dalle tante famiglie italiane del ceto medio che fuggono dalle scuole con “troppi” studenti stranieri verso scuole, private e pubbliche, in cui non ci sono, contribuendo così a quelle scuole polarizzate per omogeneità di composizione etnica e sociale che secondo le norme e i regolamenti bisognerebbe in ogni modo evitare. Non solo per ragioni di equità sociale ma perché è accertato da tutti gli studi, Invalsi compreso, che le classi omogenee (sia dei “migliori” che dei “peggiori”) sono, per più motivi, meno efficaci in termini di risultati di apprendimento.
A chi e a cosa guarda, dunque, la proposta Valditara dei percorsi distinti: a una migliore efficacia dell’integrazione scolastica o piuttosto a rassicurare chi nelle scuole e fuori rifiuta di considerare quel 10% e oltre di ragazzi di altre lingue e altre provenienze come una ricchezza da far crescere e da valorizzare proprio come tutti gli altri (e tanto più in un Paese dove i giovani scarseggiano )?
Ogni testo, certo, va visto nel contesto. E indubbiamente il contesto non è dei migliori se, come è appena successo, la decisione di un istituto comprensivo dell’hinterland milanese, i cui studenti sono per il 43% di cultura musulmana, di festeggiare la fine del Ramadan chiudendo la scuola per un giorno (da recuperare con un inizio anticipato dell’anno scolastico) è stata sottoposta ad un attacco forsennato da più parti. Non solo da associazioni di destra estrema, secondo cui quella decisione altro non era che il segno del deplorevole “cedimento continuo all’islamizzazione” della nostra società, ma anche da autorevoli esponenti politici e istituzionali, che se non l’hanno detta proprio così, poco ci manca. Forti delle contrarietà e delle paure a proposito di immigrazione e di Islam che ci sono nella società italiana. L’istituto Iqbal Masih di Pioltello – si sa – ha tenuto il punto, sostenuto oltre che da parte del mondo della scuola, dalla Chiesa milanese, dal vescovo ai tre parroci del territorio. E poi, col garbo istituzionale che gli è proprio, quindi solo dopo la formale conclusione del caso, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma non è un buon momento, si direbbe, per lo sviluppo dell’educazione interculturale, della conoscenza e del rispetto reciproci anche attraverso la condivisione delle feste religiose e delle culture di tutti. E neppure per l’autonomia degli istituti scolastici. Non lo si migliora, però, se non si riesce a discutere con buon senso ed equilibrio su qual è lo stato effettivo delle cose, superando inerzie, tabù, retoriche che portano acqua ai mulini che macinano odio.