Il Recovery Plan varato prima della crisi di governo non appare un testo definitivo. Almeno alla “missione” Istruzione e ricerca. Ci sono novità per asili e tempo pieno ma manca una strategia, una governance e l’attenzione alla formazione permanente per le sfide dell’innovazione nel mondo del lavoro.
Anche se molto migliorato rispetto alle bozze precedenti (sono diminuti bonus e sussidi a favore degli investimenti, aumentate le risorse per sanità e istruzione, eliminate incongruenze), è certo che il Recovery Plan varato il 12 gennaio non può essere la versione definitiva. Per essere più convincente, e più coerente con le indicazioni della Commissione europea, sono necessarie altre modifiche. La parte delle politiche attive e del lavoro dei giovani, per dirne una, è del tutto inadeguata agli sconquassi che sono alle porte. Ed è poco più che un titolo, perché affidata quasi solo alla “digitalizzazione”, la parte relativa all’efficientamento della Pubblica Amministrazione. Sono solo due degli esempi che si potrebbero fare.
Manca, inoltre, la definizione della governance, rinviata a un futuro decreto “che identifichi le responsabilità della realizzazione, garantisca il coordinamento con i ministri competenti e gli altri livelli di governo, monitori i progressi di avanzamento della spesa”. Non sono dettagli per un Paese dove nell’ultimo settennato non si è stati capaci di spendere neppure il 40 per cento dei Fondi UE, con un asse decisionale Stato-Regioni-città che funziona male e una “diserzione amministrativa” piuttosto diffusa. Un piano è un piano solo se i suoi contenuti non sono solo progetti, ma investimenti fondati oltre che sulle risorse disponibili, su norme, regole, responsabilità precise che mettano in grado di “aprire i cantieri”. Non solo. Per innescare cambiamenti decisivi in un Paese già sfibrato prima della pandemia e suscitare condivisione e sentimenti sociali positivi, il Piano dovrebbe essere costruito in modo trasparente, ascoltando e tenendo conto di critiche e proposte. Siamo in ritardo, ma c’è ancora un po’ di tempo. Anche per questo può essere ancora utile mettere a fuoco la coerenza tra priorità e progetti, e tra progetti e risorse.
Istruzione e Ricerca è la quarta delle sei Missioni contenute nel Piano, articolate in 16 linee d’azione e 47 progetti. Il finanziamento è di 28,5 mld, di cui 16,7 vanno a “potenziamento delle competenze e diritto allo studio”, 11,7 miliardi sono per la linea “dalla ricerca all’impresa”. Pur essendo il finanziamento pubblico in educazione più consistente dopo il piano di ricostruzione post-bellica delle scuole e quello di sviluppo del sistema successivo alla riforma della scuola media, i 16,7 miliardi sono ancora insufficienti rispetto alle criticità educative del Paese e anche alla piena attuazione di tutti progetti elencati. Considerato che la nostra spesa pubblica per l’istruzione è la più bassa in ambito europeo ( e che a regime bisognerebbe arrivare al 4-5% del PIL ), che siamo tra i Paesi con il tasso più alto di early school leavers, di dispersione implicita ( mancato raggiungimento delle competenze pure per chi è in possesso dei titoli di studio ), di giovani adulti privi di diplomi e di titoli di livello terziario, ci sarebbe bisogno sia di più risorse sia di appropriate modifiche strutturali. Di tipo ordinamentale e anche relative alla qualità professionale, all’organizzazione del lavoro, a nuovi tipi di carriere basate su impegno e meriti, a un nuovo codice deontologico dei docenti. Non solo per ottemperare alla saggia indicazione della Commissione europea che chiede di evitare che le risorse siano come “pioggia che cade sul deserto”, ma per l’esperienza fatta con le politiche di coesione implementate con i PON, sostanzialmente inefficaci – rispetto agli abbandoni precoci e ai divari territoriali – proprio perché costruite con progetti temporanei e aggiuntivi non sostenuti da politiche e investimenti ordinari.
Anche i 6,8 miliardi per l’edilizia scolastica ( “efficientamento energetico e cablaggio degli edifici pubblici” della Missione 2), neppure un quinto di quello che occorrerebbe per mettere in sicurezza e riqualificare l’intero patrimonio scolastico, dovrebbero essere implementati tenendo conto anche dell’esigenza di riconvertire gli spazi su modelli educativi e didattici innovativi e di favorire, a partire dalle periferie e dalle aree più disagiate, un diverso rapporto tra gli istituti scolastici e le comunità di riferimento (declinazioni e territorializzazioni che nel testo attuale non ci sono).
Bisogna aggiungere che, a voler intervenire davvero sulla situazione educativa del Paese, occorrerebbe finalmente dismettere l’idea che l’unico target sia quello degli studenti “a rischio” e considerare anche i drop out e gli adulti (almeno i giovani adulti) senza diplomi e senza qualifiche, il 20% tra i 29 i 34 anni , nella logica sempre conclamata e mai attuata dell’apprendimento permanente. Sconcerta inoltre la non contestualizzazione delle politiche proposte. Cosa sarà la nostra scuola tra 10 anni, con 1 milione e 300 mila iscritti in meno, un turn over del 40 per cento del personale docente, un peso specifico sempre più consistente di studenti con background migratorio? I minori costi determinati dal calo demografico si tradurranno in maggiori investimenti in altre aree, e in che direzione? Finora, basta un’occhiata al bilancio ordinario dell’istruzione scolastica, non è successo.
La linea d’azione “Potenziamento delle competenze e diritto allo studio” si articola in tre tipologie di intervento. La prima è “Accesso all’istruzione e divari territoriali , con 9,45 miliardi, di cui 2,35 per borse di studio e alloggi per studenti universitari e 7,10 per la prevenzione precoce delle diseguaglianze ( comparto 0-6 ), tempo pieno, contrasto degli abbandoni, rafforzamento delle competenze di base). La seconda è “Competenze STEM e Multilinguismo” (che comprende anche attrezzature didattiche, laboratori, “scuola 4.0” ), con 5,02 miliardi. La terza è “Istituti Professionali e ITS” ( e orientamento ai percorsi post diploma ), con 2,25 miliardi.
Semplificando molto, i fuochi sono essenzialmente due: da un lato la prevenzione delle diseguaglianze educative, sociali/individuali e territoriali, dall’altro il mismatch tra preparazione scolastica e competenze richieste dall’innovazione tecnologica e dal mondo del lavoro. L’investimento più importante, e anche quello in cui – grazie a una vasta e tenace mobilitazione di tutto il mondo che gli gira attorno, dalla ricerca pedagogica alle associazioni di cittadinanza attiva – ci sono i più netti miglioramenti rispetto alle bozze precedenti, è quello relativo alla fascia 0-6: asili nido e scuole per l’infanzia. Non solo. Il piano di sviluppo degli asili nido, inizialmente promosso nella Missione “Parità di genere” (quindi ascritto impropriamente più alle finalità della conciliazione lavoro-maternità, all’occupazione femminile, al contrasto della denatalità che a finalità educative, e coperto da uno stanziamento evidentemente insufficiente) è stato riportato, coerentemente con il Dlgs 65/2017, nella Missione “Istruzione”, ma con uno stanziamento più prossimo alla realizzazione dell’obiettivo, che è la copertura del 33% della domanda in ogni Regione. Si tratta infatti di 3,6 miliardi, un investimento consistente, sebbene occorrerebbero in verità 4,8 miliardi in conto capitale per le nuove istituzioni (e poi un costo di gestione annuale di 4 miliardi). Allo stesso comparto appartiene lo stanziamento di 1miliardo per il potenziamento delle scuole per l’infanzia.
Meno chiaro l’investimento sul tempo pieno (1 miliardo), presumibilmente per la scuola primaria, in cui però un piano nazionale di sviluppo costerebbe 2,8 miliardi annui solo di spesa corrente. Al contrasto degli abbandoni e dei divari territoriali va 1,5 miliardi. Ma ad un programma organico di attuazione del diritto allo studio nel primo ciclo mancano, evidentemente, alcuni”ingredienti”. Un nuovo modello di tempo pieno ordinamentale, almeno nella primaria, e comunque tempi scolastici più lunghi, nella secondaria di I grado, per attività educative opzionali ed elettive. Un sistema di orientamento al “dopo scuola media” ( l’orientamento previsto nella terza linea d’azione riguarda solo la transizione dalla secondaria di II grado ai percorsi di livello terziario) e lo spostamento dell’esame di Stato al termine del ciclo obbligatorio (un esame finale alla conclusione della scuola media, due anni prima della fine dell’obbligo decennale, non è ovviamente innocente rispetto agli abbandoni nei primi due anni della secondaria di II grado). E poi una riforma dell’istruzione e formazione professionale attraverso cui decine di migliaia di ragazzi assolvono all’obbligo d’istruzione conseguendo anche un primo livello di qualificazione professionale, un sistema oggi diviso tra enti formativi accreditati dalle Regioni e Istruzione professionale statale, paradossalmente meno sviluppato e qualificato proprio dove dispersione e abbandoni mordono di più. La seconda e la terza linea d’azione sono assai più vaghe, non è chiaro il collegamento degli obiettivi con la riforma degli istituti tecnici e professionali e, più in generale, con il rafforzamento dell’intera filiera tecnico-professionale anche nelle Università, sebbene l’investimento sugli ITS (1,5 miliardi) risponda all’esigenza di rafforzare l’istruzione terziaria di tipo non accademico, e sebbene i 3 miliardi in laboratori e attrezzature per la “scuola 4.0″ sembri promettente.
A tutto ciò si aggiungono svariate riforme, anche nel sistema universitario, solo in parte collegate con le linee d’azione e i progetti, e dai contenuti talora troppo imprecisi per consentirne una valutazione. La più interessante prevede un nuovo sistema di formazione iniziale e reclutamento degli insegnanti, con coincidenza tra l’esame di laurea e l’esame di Stato per l’accesso alla professione, presumibilmente collegata con le due riforme delle lauree abilitanti e delle classi di laurea. Ci sono poi l’istituzione di una Scuola di alta formazione per il personale scolastico (Università-Indire) a frequenza obbligatoria; le riforme per l’aggiunta nei curricola di moduli Stem, competenze digitali e linguistiche, con apposita formazione degli insegnanti; degli istituti tecnici e professionali; degli ITS; dell’orientamento ai percorsi terziari; dei dottorati. Tutto o quasi, si direbbe, da precisare meglio nelle finalità e nei contenuti specifici. Mancano però, e non è un dettaglio, le riforme ordinamentali cui riferire alcune azioni.
Per gli asili nido, il superamento del servizio a domanda individuale, l’unica via per permettere ai Comuni di abbassare le tariffe di iscrizione e per aprire i servizi anche ai figli di famiglie a basso reddito e in cui le mamme non hanno un lavoro stabile e documentabile. Per le scuole per l’infanzia e per la scuola primaria la definizione del funzionamento a tempo pieno come il modello ordinamentale. Sappiamo che è proprio il tempo pieno à la carte che ne ha impedito uno sviluppo omogeneo sull’intero territorio nazionale, penalizzando in particolare le aree in cui la domanda sociale è più debole ( e gli enti locali meno impegnati ).
C’è dunque ancora molto da riscrivere, precisare, integrare. Sperando che ce ne siano la volontà e il tempo.
Articolo pubblicato anche da educationduepuntozero.it.