Unione a pezzi/La diseguaglianza è stata una scelta. “Rewriting the rules”, un rapporto della Roosevelt Institution a cui hanno contribuito centinaia di economisti Usa
Se c’è una cosa di cui si parla negli Stati Uniti da qualche anno a questa parte, questa è la diseguaglianza crescente. A modo suo si tratta di un successo del messaggio sull’1% lanciato da Occupy Wall Street, una vittoria ideale non accompagnata da risultati in termini di politiche.
“La diseguaglianza è stata una scelta. A partire dagli anni 70 un’ondata di decisioni ideologiche, istituzionali e legislative ha riconfigurato il mercato”. Sono queste, più o meno, le prime parole di “Rewriting the rules”, un rapporto pubblicato dalla Roosevelt Institution, frutto di un lavoro coordinato dal premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz a cui hanno contribuito centinaia di economisti americani. Se per 30 anni si è evitato di guardare alla crescita della povertà e delle diseguaglianze, dopo il 2008 statistiche come quelle relative alla ricchezza mediana ferma a 30 anni fa o a salari minimi che, al netto dell’inflazione, non crescono da 45 anni, sono diventate parte corrente della discussione sui media e si sono fatte largo nel dibattito politico istituzionale. Lo stesso presidente Obama ha partecipato, per puro caso nello stesso giorno di lancio del rapporto, a un Summit on poverty organizzato alla Georgetown University da diversi gruppi cristiani di destra e sinistra.
Il rapporto analizza con dovizia lo stato dell’arte dell’economia e delle sue regole e parte da quattro assunti generali:
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i mercati non si regolano per conto proprio, servono regole, buone regole;
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le regole determinano l’entità della crescita e chi ne beneficia;
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la ricchezza concentrata rallenta la crescita;
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i soli programmi di lotta alla povertà non bastano a far ripartire l’economia.
Nelle 115 pagine di “Rewriting the rules” troviamo un lungo elenco di proposte di policies: interventi in materia di regolazione dei mercati finanziari, sulle tasse, sui programmi di welfare, il salario minimo e idee relativi agli investimenti pubblici in economia. Molte di queste cose le conosciamo già e, in forme più blande, fanno parte delle proposte dell’amministrazione Obama. Ciascuna di esse parte da considerazioni simili a quelle della Casa Bianca ma è meno timida, e più conseguente con le premesse: se il quadro è drammatico, drammatiche devono essere le politiche pubbliche.
Un po’ è la differenza tra il lavoro dell’economista e quello del governo costretto da un budget, un’opposizione, un partito-coalizione; un po’ è la differenza tra l’agenda dell’ala liberal del partito democratico incarnata da Elizabeth Warren e il suo corpaccione spaventato dal fare scelte in rottura con la filosofia economica che domina il pianeta da 30 anni. Nonostante la lunga crisi esplosa con i subprime ne abbia segnalato in maniera inequivoca i difetti macroscopici. L’idea alla base del lavoro della Roosevelt Institution è invece quella di, appunto, riscrivere le regole: non toppe e correzioni al sistema, ma una sua profonda riforma che modifichi quei meccanismi che generano diseguaglianze.
Il volume è stato presentato il 12 maggio e la presenza tra i relatori della senatrice Warren e del sindaco di New York, Bill De Blasio, ci dice che l’ala sinistra del partito democratico americano è all’offensiva. Come ha spiegato nel suo intervento introduttivo Felicia Wong, la presidente di Roosevelt institution, il rapporto è una lunga serie di proposte puntuali ma anche una cornice generale, analizza il funzionamento dell’economia come è oggi per proporre un’alternativa, parte dal fatto che circa 35-40 anni fa c’è stata una rivoluzione ideologica e tenta di proporne una nuova. Per dirla con Wong: “Nessuna misura singola ridurrà le diseguaglianze, risolverà i problemi della nostra economia o restituirà centralità alla middle class”.
Ma cosa determina questa offensiva della sinistra in materia di economia. Le questioni sono almeno due. La lunga rivolta di Ferguson, i riots di Baltimora e altri episodi simili hanno riportato sulla scena la questione della discriminazione negli Stati Uniti. Una discriminazione geografica e razziale che è culturale e molto anche economica. Gli afroamericani sono in grande maggioranza una fetta dei poveri d’America. I casi di omicidi polizieschi che hanno fatto esplodere i ghetti hanno ricordato a tutti come il tema non sia solo quello di controllare e modificare l’operato della polizia ma di superare una situazione nella quale sobborghi o città intere somigliano più a un quartiere malmesso di una metropoli africana che non a un centro urbano del paese più ricco del mondo in cui “tutti possono farcela”.
Non solo: la stagnazione dei salari – e l’erosione dei risparmi e/o investimenti avvenuta con il crollo delle borse del 2008 – ha reso progressivamente più vulnerabile e preoccupata anche la media America bianca. Tecnologia e globalizzazione hanno prodotto grandi ricchezze, mantenuto la primazia degli Stati Uniti (il Web è ancora tutto sommato americano), ma la platea di posizioni buone aperte dal fiorire di start-up tecnologiche, giovani, urbane e cool non ha rimpiazzato in nessun modo i posti di lavoro persi nel manufatturiero. Inoltre i nuovi lavori ben pagati richiedono formazione e capacità che in genere si acquisiscono solo studiando in college che costano parecchio.
Terzo elemento, il boom dell’occupazione che fa sorridere noi da questa parte dell’Oceano, dove la crescita è lenta e senza occupazione, è di due tipi: i lavori qualificati e ben pagati per i quali è richiesta formazione e (molto di più) lavori dequalificati, privi di tutele e pagati male. Che in genere vengono fatti da afroamericani e ispanici – la componente demografica della società Usa che cresce con maggior rapidità.
La crescente importanza nella discussione pubblica di ciascuno di questi elementi crea uno spazio formidabile per quella sinistra che da anni lavora con costanza a obbiettivi che sono elementi contenuti nel rapporto. C’è il lavoro dell’Economic policy institute sulla necessità di aumentare la paga minima oraria per legge e le campagne nazionali di sindacati e community organizers che stanno producendo risultati visibili: di fronte alla pressione e forse anche di fronte al rischio che l’impoverimento faccia diminuire i consumi dei suoi milioni di clienti, Wal Mart ha aumentato la paga base dei suoi lavoratori. C’è poi una campagna importante per la maternity leave per legge, visto che in America non c’è il diritto alla maternità e che spesso, questa, e la conseguente perdita di lavoro, diventano causa di povertà. Poi c’è l’insistenza della Casa Bianca obamiana sulla necessità di investire nel riammodernamento di infrastrutture vecchie, pensate e costruite quasi tutte prima della rivoluzione reaganiana. E infine l’idea di aumentare le tasse sui capital gains e sull’1% più ricco.
Tutte campagne e mobilitazioni che parlano della difficoltà del lavoro e della porzione bassa della middle class Usa (che non è il ceto medio). Tutte campagne che orientano il dibattito politico nazionale in una direzione e che costringeranno i candidati 2016 alla Casa Bianca a farci i conti. La stessa Hillary Clinton, un marito campione di lotta al crimine e deregolamentazione dei mercati finanziari, ha già preso le distanze dal suo passato da first lady parlando della necessità di farla finita con le incarcerazioni di massa e lanciando la sua campagna parlando dei troppi che non ce la fanno. L’ex senatrice di New York sa riconoscere che le scelte fatte negli anni 90 erano dentro al solco tracciato da Reagan e Thatcher e che quegli anni d’oro erano anche il frutto di una congiuntura favorevole e di un boom della finanza che nel 2008 ha mostrato i suoi limiti strutturali. Il mondo è cambiato e Clinton lo registra. Qui in Italia, specie dopo la sconfitta del Labour di Miliband, nessuno sembra ricordare questi aspetti: se hanno vinto vanno bene, qualsiasi cosa abbiano fatto. Conta la politica, non le policies.
L’offensiva liberal si colloca dentro a questo universo in movimento. Nessuno per ora, tranne il senatore socialista Bernie Sanders, accreditato di un 10-15% alle primarie democratiche, ha voglia o forza per contrapporre una candidatura concorrenziale a Hillary. Ma il contesto è tale che facendo pesare le mobilitazioni e la produzione di contenuti autorevoli come “Rewriting the rules”, la sinistra liberal può influenzare la corsa alla Casa Bianca e le politiche della (auspicabile) amministrazione Clinton. Che può dare una mano enorme a eleggere sia in termini di mobilitazione che di capacità di portare al voto giovani, donne e minoranze che sono stati determinanti per Obama e sono diventati l’architrave della coalizione democratica.
“Investivamo in scuole pubbliche, abbiamo mandato i veterani all’università, costruivamo infrastrutture e investivamo in ricerca: lavoravamo i campi in maniera che ciascuno di noi, non solo qualcuno, potesse piantare semi e vederli crescere” ha detto la senatrice Warren durante la presentazione del rapporto. Uno sforzo collettivo per il benessere di tutti e ciascuno. Un modello imperfetto, certo, ma più giusto ed efficace di quello in cui viviamo: nel 1979 il 90% della popolazione si aggiudicava il 70% della ricchezza, dal 1980 al 2012 il 100% dell’aumento della ricchezza è andato al 10%, zero al restante 90%, ha ricordato ancora Warren. Questa redistribuzione al contrario è frutto di scelte sbagliate che si possono modificare cambiando politiche. La palla, insomma, è alle istituzioni elettive, che possono fare qualcosa per demolire l’architettura reaganiana. Se solo vogliono provare a farlo. Negli Stati Uniti, in Europa e in Italia.