Territorio, cemento e consumo di suolo: cadono giunte, si divide la sinistra. Numeri, analisi e suggerimenti utili dagli atti di un recente convegno a Brescia
Le politiche urbanistiche fanno cadere le giunte perché toccano interessi forti: le dimissioni del presidente della Sardegna, Renato Soru, ne sono la prova più drammatica. Il suo pacchetto di provvedimenti a tutela del territorio – avviato con il decreto salvacoste tanto contestato quanto di buon senso (vietava ogni costruzione a meno di due chilometri dal mare), il piano paesaggistico regionale e le altrettanto, ingiustamente, contestate ‘tasse sul lusso’- era una parte fondamentale della sua legislatura e puntava alla pianificazione e allo sviluppo sostenibile. Ma una votazione a scrutinio palese ha bocciato uno dei punti qualificanti della nuova proposta: un colpo basso dall’interno della sua stessa maggioranza.
La vicenda sarda conferma l’urgenza di politiche di salvaguardia del territorio e di lotta ai cementificatori perché la situazione è molto seria.
L’Istat ha rilevato che fra il 1990 e il 2005 l’Italia ha perso 3 milioni e 600 mila di ettari di suolo libero da costruzioni: più di tre quarti della superficie del Piemonte, un’area più vasta di Lazio e Abruzzo insieme. Il fatto è che l’espansione delle aree urbane, anche nel Nord del paese, soprattutto in Lombardia, avviene non più in ragione di un aumento della popolazione residente, bensì a causa di una redistribuzione della stessa su aree sempre più estese a discapito degli usi agricoli e forestali dei suoli. A parità di popolazione, si assiste, cioè, ad un aumento – disordinato e a macchia di leopardo – delle aree destinate ad usi non agricoli (residenziali, commerciali e industriali) alle periferie delle città e lungo le vie di comunicazione tra una città e l’altra. Il fenomeno non riguarda solo l’Italia: il 75% degli europei vive in aree urbane che tendono ad aumentare, un processo che provoca consumo del territorio e ha conseguenze terribile per il suolo: impermeabilizzazione, erosione e dissesto, inquinamento, salinizzazione, perdita di biodiversità.
Ma non possiamo certo adagiarci sulle tendenze europee: in Italia siamo messi male. Spiega Anna Donati, esperta di mobilità (www.annadonati.it) che «la famigerata Legge obiettivo, introdotta dal precedente governo Berlusconi, ha indotto anche un salto di qualità nel programmare infrastrutture indifferenti al territorio perché ha invertito ogni logica decisionale: non più integrazione, non più infrastrutture che connettono, ma è la decisione sulla localizzazione della grande opera che costituisce variante al Piano Regolatore vigente. Come dire che è il territorio che si deve adattare all’infrastruttura. Un metodo di lavoro che non funziona perché quando dai grandi proclami si scende ai progetti reali i conti non tornano: il territorio è cambiato, è molto più denso, pieno di esigenze e problemi, le città escluse da ogni decisione vogliono comunque e giustamente dire la loro, ed anche i conti economici non tornano più». Basti pensare alla Tav o alla meno nota Bre.be.mi., l’autostrada Brescia-Bergamo-Milano contro cui gli ambientalisti hanno tentato, senza successo, di far aprire una procedura di infrazione dalla commissione Europea per irregolarità dell’appalto: resta un nodo non risolto, perché l’autostrada non servirà affatto alla mobilità locale e non potrà risolvere i principali problemi di congestionamento. Come già altre opere nel passato, il rischio è che la nuova autostrada si trasformi solo in una attrazione di nuovo traffico a causa di una nuova domanda di mobilità (in termini di lunghezza degli spostamenti) indotta dalla rilocalizzazione di attività e insediamenti residenziali che si sviluppera’ ai suoi lati. Sul progetto pende un reclamo presentato da alcuni deputati europei per l’apertura di un’altra procedura d’infrazione per violazione della normativa europea in materia di Via, considerate le differenze tra il progetto originario e quello attuale.
Da non dimenticare poi che tra i guasti della legge obiettivo, oltre ad una rottura culturale rispetto all’evoluzione precedente delle normative ambientali, c’è ad esempio, l’affossamento del Piano Generale dei Trasporti e della Logistica del 2001: il testo venne rapidamente messo in un cassetto dal governo Berlusconi che punta alla lunga lista di grandi opere infrastrutturali.
Di tutto questo si è parlato ad un recente convegno dal titolo Consumo del suolo e cementificazione del territorio: numerosi ambientalisti si sono dati appuntamento a Brescia il 15 novembre scorso. Gli organizzatori dell’iniziativa, il gruppo dei Verdi del parlamento europeo, in particolare una dei due presidenti, Monica Frassoni – www.monicafrassoni.eu – e l’Associazione degli Ecologisti Democratici (EcoDem) – www.ecologistidemocratici.it –, hanno voluto riaprire il dibattito su questa piaga del nostro paese, appunto il consumo del suolo, risorsa ambientale finita, non riproducibile e non rigenerabile, e la cementificazione del territorio.
Il grido di allarme degli intervenuti (si veda per un resoconto dettagliato degli interventi http://www.monicafrassoni.eu/html/freebox_detail.php?id=3) è stato univoco: occorre ripensare urgentemente al modello della “villetta” per tutti, il modello del “suburb” di importazione statunitense, fondato sulla cultura del petrolio a costo a basso, per tornare ad un’edilizia più compatta e più ecocompatibile, progettata per il risparmio energetico delle strutture (che abbassano i costi del riscaldamento) e dell’indotto, grazie a minore necessità di spostamenti a lungo raggio. C’è poi il nodo delle risorse finanziarie ai comuni: sono una priorità, altrimenti come è possibile evitare che vendano, come invece accade ora, il proprio “corpo”, ossia il proprio territorio, per fare cassa? Gli oneri di urbanizzazione che un comune ricava dalla costruzione di un nuovo centro commerciale o da una nuova struttura industriale fanno fare ‘cassa’ ma a medio e lungo termine si traducono inevitabilmente in una perdita di fruibilità del territorio da parte dei cittadini e, in definitiva, in un abbassamento della qualità della vita – si veda l’esempio della capitale ed i guasti prodotti dall’aumento mostruoso di cemento degli ultimi anni. Che fare dunque? Monica Frassoni sintetizza alcuni punti irrinunciabili di una politica di salvaguardia del territorio che trovano il consenso di tutto il mondo ambientalista: «nuova normativa nazionale di indirizzo del governo del territorio, tutela integrale delle aree protette: parchi, riserve, aree Unesco riconosciute patrimonio dell’umanità, Siti di Interesse Comunitario (Sic) e Zone di Protezione Speciale (Zps), politiche per il kilometro zero, tese a risparmiare traffico per eliminare inutili chilometri percorsi ogni giorno da merci e cittadini, demolizioni e rinaturalizzazioni per tutte le aree costruite abusivamente ed il blocco di licenze e costruzioni in aree sensibili (zone spondali di laghi e fiumi, fasce costiere, siti archeologici , aree a rischio idrogeologico ), attuazione integrale della Convenzione europea del paesaggio nonché la mappatura del consumo del suolo in tutta la Ue e nell’area mediterranea”.
Ma la realizzazione di tutto questo sempre allentarsi dall’orizzonte: sul futuro pesa la direzione dell’attuale governo, sostenuto da cementificatori e nuclearisti. L’Italia guarda poco all’innovazione e alla sostenibilità: l’attuale governo si è distinto addirittura per aver assunto una posizione di assoluta retroguardia, spinto dalla Confindustria di Emma Marcegaglia, sul pacchetto energetico dell’Unione europea, le misure concordate ma non ancor approvate da tutti i paesi della Ue per la lotta ai cambiamenti climatici.