Effetti noti e meno noti di una miscela devastante, preparata dal trio Brunetta-Tremonti-Gelmini. Ma c’è una vera discontinuità rispetto al passato?
Sui possibili effetti devastanti della legge 133 è stato detto molto. Vorrei qui esplorare interrogativi più insoliti. Il primo è: fino a che punto le determinazioni normative Tremonti-Brunetta hanno probabilità di realizzarsi? Una stima degli effetti del blocco del turn-over al 2012, che tiene conto della distribuzione per età (ma ovviamente non dei prolungamenti biennali volontari e delle uscite anticipate), consente di situare intorno a 5.000 la diminuzione dello stock di professori e ricercatori (circa 60.000). Contrazioni di oltre il 10% sono prevedibili per le università maggiori, in cui l’età media dei docenti è più alta. E’ dunque possibile che il blocco del turn-over dia presto luogo ad illeciti di vario tipo e, quindi, ad adattamenti normativi. E, in effetti, vengono fatte girare voci su possibili allentamenti dei vincoli, ad esempio per i ricercatori (oggi potrebbero non poter prendere servizio vincitori di regolari concorsi, con conseguenti ricorsi e pagamento di danni). In molti casi potrebbero venire meno le coperture di insegnamenti strategici, del tutto indipendentemente dalla qualità del corso di studio cui appartengono. Da notare che i vari ministri coinvolti, quando criticati, affermano di essere stati motivati dalle indubbie pecche del sistema universitario (proliferazione delle sedi universitarie, corsi di laurea con pochissimi iscritti, scarsa produttività, ecc.). Critiche sacrosante ma non collegate con le azioni delineate dalla legge 133. Perché non limitarsi a rendere efficaci i controlli e a rimuovere selettivamente gli ostacoli all’efficienza?
Quando si colpiscono in modo omogeneo realtà differenziate si diminuisce l’efficienza complessiva (Brunetta almeno dovrebbe saperlo): i protagonisti “negativi” resterebbero, sia pure con meno risorse; quelli validi verrebbero impossibilitati e disincentivati, possibilmente se ne andrebbero. Eppure proprio i discorsi e le azioni per il rientro dei cervelli, di cui si è avvantaggiato a dismisura l’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia), voluto e coccolato da Tremonti, tanto da essere beneficiato anche dalla 133 (si veda l’art.17), nonché il successo all’estero di tanti (davvero tanti) nostri ricercatori, suggeriscono la presenza da noi di numerosi nuclei formativi e di ricerca di eccellenza, sia pure immersi (come del resto anche all’estero) in una realtà non omogenea. Questi verrebbero pesantemente colpiti dai tagli finanziari; anche perché, moltissimi lo sanno pur non potendolo provare, colpiti dai tagli finiscono per essere più i bravi che i potenti (spesso tra i protagonisti delle disfunzioni lamentate), ovvero i bravi sono costretti a piegarsi ai potenti, pur di continuare a ricercare, inquinando il tutto e rinforzando le disfunzioni.
Si parla molto dei disegni oscuri che sarebbero alla base dell’articolo 16. Inutile o mal posto bersaglio, almeno per il momento. Esso prevede la “facoltà di trasformazione in fondazioni delle università”. Sta dunque alle università esercitare o meno la “facoltà”. Se queste non vorranno non lo faranno. Se lo facessero sarebbero esse, fino a prova contraria, responsabili per il disegno statutario dell’assetto di governo della futura fondazione. Quale paura, dunque? Il problema è un altro. I disegni politici, prima ancora di essere “oscuri” nel senso di “sinistri, cattivi, di privatizzazione”, sono oscuri nel senso più banale: non sono comprensibili. Non si capisce cioè quali siano i possibili vantaggi e rischi, subito e in futuro, relativamente a risorse e guadagni di funzionalità. Ben difficile quindi che le università esercitino l’opzione. Ove il “legislatore” intenda rendere fattibili i suoi disegni esso dovrà renderli molto più espliciti; allora si vedrà.
Passo ad un secondo interrogativo. Fino a che punto le statuizioni della 133 rappresentano una discontinuità rispetto alle azioni dei precedenti governi? A mio avviso è fin troppo facile rintracciare un filo negativo di continuità nella maggior parte degli interventi in materia di istruzione superiore e ricerca, del tutto indipendente dal colore dei governi che si sono succeduti. Prima di provare a suggerire perché fornisco qualche esempio:
(1) il Nucleo di valutazione istituito come autorità semi-indipendente, che aveva impiantato un monitoraggio informativo serio, è stato sciolto non appena ha proposto di chiudere un certo numero di università “proliferate” e sostituito da un comitato consultivo, comitato che è arrivato a proporre di “scoraggiare la prosecuzione degli studi” dopo la laurea triennale (ciò è avvenuto con un governo di centro sinistra). Ciò in un paese in cui la percentuale di lavoratori con elevata istruzione e la ricerca presso le imprese sono tra le più basse d’Europa. I ministri di oggi sembrano voler raddrizzare le cose. Ma che c’entrano il blocco del turn-over e il taglio generico delle spese, applicato ad ogni singola università, con la auspicabile chiusura di quelle inefficienti?
(2) La “riforma Berlinguer”, più nota come “3+2”, ha cominciato ad essere realizzata nel 2001. La riforma Moratti è intervenuta prima che si potesse valutare la precedente. L’errore era palese, ma il ministro Mussi si è ben guardato dal predisporre controlli, sospendendo l’attuazione della nuova riforma. L’andamento dei concorsi di ammissione ai dottorati del 2007 e del 2008 fornisce parziali e involontari elementi di valutazione, quanto meno sulla qualità dei migliori laureati. Due conseguenze risultano con chiarezza: (a) il numero dei concorrenti scende; questo può dipendere da molti fattori, compreso il fatto che i migliori preferiscono andare altrove; solo in parte questo può essere dovuto all’insufficienza qualitativa delle nuove lauree, ma certo costituisce un elemento preoccupante per il futuro del Paese. (b) i partecipanti ai concorsi sono molto meno bravi di quelli dei periodi precedenti, e questa risultanza, molto diffusa, sembra abbastanza risolutiva.
(3) L’ultimo governo Prodi ha giustamente ritenuto di incentivare i rapporti università-imprese, riconoscendo un credito di imposta alle imprese che fanno ricerca con le università. Peccato che l’incentivo fosse così esiguo da non poter cambiare i comportamenti delle imprese, sicché ne hanno presumibilmente beneficiato (inutilmente dal punto di vista della policy) solo le poche imprese che già avevano il comportamento desiderato. Ma soprattutto peccato che il governo sia stato sordo a qualsiasi proposta rivolta a rendere “praticabile” l’incentivo, rimuovendo i numerosi ostacoli, esistenti e nuovi, a praticare la c.d. “ricerca in conto terzi” da parte delle università e degli altri enti di ricerca. Tali ostacoli, raramente portati all’attenzione, riguardano la tassazione dei presunti profitti, il modo farraginoso di congegnare i contributi sociali (che impedisce di prevedere i costi delle ricerche), la documentazione in materia contributiva (Durc) e fiscale (registro delle inadempienze), che impedisce ai “clienti” delle università di pagarle, le restrizioni in materia di contratti con le persone. Tutte disposizioni, alcune delle quali condivisibili, ma dalle quali i soggetti di ricerca avrebbero dovuto essere esclusi, e che invece sono state redatte in forma tale da rendere impraticabili quelle attività “eccezionali”, come quelle connesse ai contratti di ricerca europei e per le imprese, che richiedono di espandere e restringere nel tempo le équipes di ricerca e di disporre di costi e pagamenti certi e affidabili. Le stesse disposizioni, si noti, a causa delle quali molti dei giovani ricercatori italiani vincitori dei nuovi promettenti grants dello European Research Council (sembra ben un terzo) hanno preferito incardinare le loro attività in Paesi diversi dall’Italia. Da ultimo, caso unico in Europa, si profila la possibilità che la partecipazione delle università a gare di ricerca venga considerata come violazione delle regole di concorrenza (delibera 119 del 18.4. 07 dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, in derivazione di un “Decreto Bersani”, DL 223/2006).
Il punto è che per ricerca e università esiste in Italia un male oscuro, riconducibile alla carenza di conoscenze e competenze specifiche. La sfera dell’istruzione superiore e della ricerca è complessa e delicata. Per il disegno del suo assetto, per la sua gestione, per il suo controllo e la sua valutazione occorre una buona saldatura tra volontà politica e competenze e conoscenze specializzate e dedicate; quelle che hanno portato da mezzo secolo la maggior parte degli altri paesi a sviluppare ricerche e formazione di esperti nella sfera della c.d. “education”. Tale patrimonio conoscitivo e professionale è da noi sostanzialmente assente. La sua presenza, negli altri paesi europei, ha condotto precocemente questi ad un lungo percorso di articolazione e specializzazione dell’istruzione superiore (non solo università), con l’innesto della cultura professionale dei licei tecnici in particolari rami di essa; una esperienza, durata un quarto di secolo, che ha cambiato le strutture organizative, la governance, le stesse strategie pedagogiche, i sistemi di programmazione e valutazione (il Regno Unito usa oltre 800 esperti solo per la valutazione degli atenei), la compresenza di vocazioni differenziate presso le strutture, le modalità con cui le diverse strutture competono tra loro (indipendentemente dal loro carattere privato o pubblico). Questo “percorso” di cambiamento e sviluppo, importante per ciò che è mutato nella testa dei soggetti coinvolti e non solo o tanto nelle “cose”, è in Italia addirittura ignoto ai più. Esso è frutto di una felice complementarietà tra expertise e politica, capace di reggere a cambiamenti di governo, che in Italia è mancata.
In Italia vi è stata una analoga continuità culturale, ma in negativo. Con il governo Berlusconi le tendenze di sempre si sono solo tinte di grottesco. La ministra Gelmini ha annunciato una riforma organica. Quali aspettative dobbiamo avere su una riforma disegnata sotto la sua “egìda”?