Le elezioni europee si avvicinano mentre crescono i presupposti perché nel parlamento europeo ci sia un ingente numero di parlamentari contrari all’Unione Europea. Ma non sarà una provocazione utile a far rinsavire i governi, perchè la contraddizione e i pericoli che essa genera non sono manovrabili a piacere
Tra gli effetti della crisi c’è la confusione e lo spaesamento. Il suo prolungarsi e il radicamento dell’incertezza nel futuro aumentano l’intensità e la diffusione della sofferenza e dell’insofferenza. La crescente impellenza di superare la crisi tende ad ostacolare l’analisi razionale delle sue cause, delle responsabilità e delle possibilità d’uscirne in modo positivo. Tutto ciò alimenta frustrazioni individuali e sociali, qualunquismo e populismi che favoriscono spinte di regresso civile. Questo è il punto in cui siamo in Italia e in Europa in vista di elezioni europee fondamentali.
Nell’ultimo trentennio, la visione politico-culturale dominante e la sua capacità di tradursi anche in luoghi comuni funzionali ad interessi sempre più ristretti hanno portato al progressivo peggioramento delle condizioni economico-sociali complessive, fino alla crisi epocale dalla quale non si vede via d’uscita proprio perché perdurano le cause e le scelte che l’hanno determinata.
Per liberarsi da questo intreccio paludoso di interessi minoritari e visioni conformistiche occorre radicalità di idee e azioni, ma in grado di sostanziarsi in analisi e proposte di cambiamento concretamente adeguate ai problemi, accompagnate dalla capacità di comunicarle e farle condividere dall’opinione pubblica; il consenso deve realizzarsi non solo nei luoghi e nei momenti dell’acuto manifestarsi dell’insofferenza, ma nella formazione di un nuovo e stabile senso comune.
Per cambiare profondamente la rotta che ha portato alla crisi occorre dunque una nuova visione corredata di programmi concreti. I mercati da soli non possono farcela; è necessario un efficace contributo delle istituzioni e della politica, ma entrambe – al pari dei mercati – vanno rinnovate trovando un’adeguata interazione con le istanze sociali, il rispetto della natura, la conoscenza organizzata e i saperi diffusi.
In questa crisi, per molti aspetti, la sinistra è l’ambito politico-culturale potenzialmente più attrezzato per affrontarla positivamente perché le misure più efficaci per superarla sono a lei particolarmente congeniali ancorché coerenti con l’interesse generale; come, ad esempio, migliorare la distribuzione del reddito e ridurre le diseguaglianze strutturali, riequilibrare i rapporti tra mercati e istituzioni, riorientare i consumi e i processi produttivi in funzione di più elevate priorità ecologiche e sociali. Purtroppo, da decenni anche la sinistra si mostra disarmata e inadeguata rispetto a questo compito. In essa convivono tendenze che pur non rappresentandone la totalità, riescono a paralizzarla e comunque frenano le sue potenzialità d’incidere su un’opinione pubblica che pure è sempre più disillusa dal concreto svanire delle sorti progressive fantasticate dalla riproposizione del liberismo.
C’è una sinistra che si considera “evoluta” e “responsabile”, ma che, invece, spesso scivola nel conformismo e nella saggezza convenzionale, e non capisce che proprio la crisi ha accentuato la necessità di cambiamenti sostanziali nell’assetto attuale. C’è poi una sinistra che si sente “alternativa”, ma che a volte lo è più nello spirito o in identità vagheggiate che non nella capacità reale di affrontare le complesse problematiche della crisi globale, dell’Ue e delle specifiche realtà nazionali.
Si aggiunga che anche nelle rappresentanze politiche della sinistra spesso si praticano comportamenti che soffrono di autoreferenzialità e personalismi, di scollamento con la società e con la conoscenza, di resistenza al rinnovamento e al merito come criterio di selezione.
Queste pratiche e quelle tendenze che scadono nell’impotenza vanno superate, recuperando gli aspetti positivi della “diversità” della sinistra e quanto c’è di progressivo oggi nella sua ragion d’essere, a cominciare dalla lotta alle diseguaglianze economiche, sociali e civili che proprio nell’ultimo trentennio sono esplose fino a diventare cause preminenti della crisi epocale in corso.
La fase di transizione storica che stiamo attraversando offre e chiede alla sinistra di saper adeguare e applicare i suoi migliori valori poiché, oggi più che mai, essi sono coerenti con l’interesse generale. Ma occorre tener presente che in politica non esiste il vuoto e quando esso si crea viene comunque riempito, anche con soluzioni regressive. La costruzione europea ci sta mettendo di fronte ad un evidente e macroscopico esempio di questo rischio. Stanno crescendo i presupposti perché nel parlamento europeo che verrà eletto la prossima primavera ci sia un ingente numero di parlamentari contrari all’Unione europea! Non sarà una provocazione utile a far rinsavire i governi come sembra illudersi qualche apprendista stregone. La contraddizione e i pericoli che essa genera non sono manovrabili a piacere. Nelle forze politiche del nostro paese, “distratte”, quale più quale meno, da cambiamenti negli equilibri interni e dei propri dirigenti, rimane scarsa attenzione alla fondamentale importanza della costruzione europea e al ruolo decisivo delle prossime elezioni. Ciò costituisce non solo un effetto del crescente euroscetticismo, ma anche una causa che l’alimenta ulteriormente. Questo atteggiamento è l’ennesima manifestazione del ripiegamento della classe politica su se stessa; nel migliore dei casi è la riprova di una sua valutazione delle priorità poco consapevole della situazione storica che stiamo attraversando.
Naturalmente, per le forze politiche che (anche a sinistra) coltivano e sostengono l’euroscetticismo, l’elezione di un europarlamento di basso profilo, scarsamente convinto o addirittura contrario alla costruzione europea è un esito poco preoccupante, anzi è auspicato. La sottovalutazione di tale rischio è invece esiziale per le forze politiche progressiste, per l’Unione europea e per il suo ruolo centrale nel superamento della crisi.
D’altra parte, sottovalutare una competizione elettorale e, nella fattispecie, non sostenere con forza l’obiettivo di eleggere un europarlamento convinto del suo ruolo di massima istituzione democraticamente rappresentativa dell’Unione europea, significa rafforzare i suoi avversari; e quand’anche non risultassero maggioritari gli oppositori al progetto europeo tout court, rimarrebbero dominanti i sostenitori della primazia dell’unione dei mercati e delle monete, del rigore asimmetrico (a seconda che si riferisca ai bilanci pubblici o a quelli delle banche) e di una malintesa austerità, nonostante sia sempre più evidente il loro ruolo controproducente rispetto alla crescita e agli stessi conti pubblici. Proseguirebbe il metodo decisionale intergovernativo dove prevale l’iniqua e illogica contrapposizione tra paesi “forti” e “deboli” a discapito degli interessi complessivi dell’Unione. La ricomposizione dei compiti tra le istituzioni locali, nazionali e europee – del tutto normale in un processo unitario – continuerebbe a risolversi nella devoluzione dei poteri decisionali da istituzioni democraticamente rappresentative a organismi politico-burocratici che riflettono la gerarchia delle potenze nazionali. Le loro decisioni sempre più sarebbero avvertite come estranee alla volontà popolare la cui esclusione dalla costruzione europea, miscelata con la crisi e con politiche tanto penose quanto controproducenti, porterebbero al fallimento storico del progetto comunitario; gli esiti sarebbero imprevedibili, probabilmente catastrofici, e non solo sul piano economico.
P.S. Condivido le ragioni della proposta apparsa su il manifesto di sabato 18.1 affinché i cittadini si riprendano l’Europa e la necessità, anche da altri espressa, di una forte azione unitaria della sinistra italiana ed europea alle prossime elezioni. Ma il tempo stringe!