Il «patto di stabilità» e i suoi derivati sono figli legittimi di una Unione che funzionalisticamente ha provato a fare della moneta e dei suoi imperativi neoliberali il motore immobile di una «integrazione sempre più stretta»
Come mai sempre più spesso, per parlare d’Europa, si parla di «colpo di Stato», «democrazia manomessa», «sovranità usurpata»? È il modo migliore per la sinistra per avviarsi a elezioni decisive per il proprio futuro e per la stessa Europa? O con queste parole d’ordine si corre il rischio di portar altra legna ai roghi della collera e del rancore sociale sfruttati in Italia e tutta Europa da Grillo e forconi, Bonnets Rouges e destre populiste? (…).
Se la critica all’Europa riguarda il fatto che si sarebbe «sottratta agli stati la funzione esclusiva da esercitarsi singolarmente e come gruppo di promuovere lo sviluppo dell’Ue e della zona con le proprie politiche economiche», bisogna allora convenire che non si tratta di un fraudolento trabocchetto o incidente di percorso del 1997. Questo vulnus è congenito, istitutivo dell’Ue. Unica al mondo su scala sovranazionale, ha scelto il comandamento esclusivo di vincolarsi – come è scritto nei «principi» di Maastricht – «ad una politica economica condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza» e ad «una politica monetaria e di cambio … con l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi». Lungo questo dettato i trattati europei – qui ancora unici al mondo – da allora fanno esplicita proibizione di tutta una serie di strumenti di politica economica – facilitazioni creditizie o accesso privilegiato al credito per qualsiasi soggetto pubblico ecc. – fondativi non del lassismo di stato, ma di quell’embedded liberalism, il liberalismo regolato di ispirazione keynesiana, colonna portante dei Trente Glorieuses, l’età aurea dello sviluppo occidentale. Come coesistono questi divieti – da Maastricht in poi riproposti in ogni carta e per ogni dove – e i principi del costituzionalismo antifascista, propri di fatto di ogni costituzione europea e limpidamente squadernati dall’art. 3 della nostra Costituzione repubblicana: «la Repubblica rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della vita umana»? Come si fa a «rimuovere», quando il nuovo costituente europeo impone di usare solo e soltanto i mezzi e le logiche del mercato? Di un mercato che, con i suoi imperativi, in genere produce gli «ostacoli di ordine economico e sociale» in questione?
I risultati di questo dualismo costituzionale – risolto il più delle volte e per principio a favore della regolazione sovranazionale, come rivela anche la sentenza ultima di Karlsruhe – sono gli acidi ovunque corrosivi di welfare e democrazia, l’ottusità di una austerità che punta a ridurre i numeratori dei rapporti relativi a deficit e debito con politiche volte invece a schiacciare i denominatori. Il «patto di stabilità» e i suoi derivati – six plus, fiscal compact, pareggio di bilancio – non sono un parto di stupidità, come già disse Prodi, né il colpo di Stato (o di sonno) del dibattito odierno. Sono figli legittimi – aspidi allevati in seno – di una Unione che funzionalisticamente ha provato a fare della moneta e dei suoi imperativi neoliberali il motore immobile di una «integrazione sempre più stretta». Quei serpenti, nutriti dall’eurocrazia con le sue regole, avvelenano oggi l’Europa col loro morso e un livoroso antieuropeismo di massa. Da quella moneta così concepita è partito un immenso processo decostituente che, nello smontaggio dello Stato sociale, stravolge le democrazie europee.
In nessun luogo più limpidamente che in Europa la postdemocrazia si rivela portato non di un semplice assalto delle multinazionali alla politica e alla democrazia, ma nuova, oligarchica regolazione della società, decostruzione elitaria della modernità a più livelli, negli equilibri segnati da nuove abissali diseguaglianze. Il neoliberismo, ancor più rispetto al passato, non ha a suo tratto distintivo il rifiuto dello Stato e della politica, ma la loro domesticazione a elemento di regolazione e ottimizzazione del mercato, di ulteriore mercificazione della vita. Perciò, soprattutto in Europa, non basta solo un cambio di politica economica (che pur permette di respirare) dal momento che quest’ultima significa anche istituzioni, regolazioni sovranazionali ordinate giuridicamente in vincoli mutualistici, ma pur sempre soggetti a diseguaglianze strutturali. Non c’è Palazzo di Inverno da conquistare né una unica stanza dei bottoni. Altro che casematte di gramsciana memoria. Nella nostra Europa l’azione più che mai si afferma per piani multipli e interconnessi. Per praticare e riscrivere le regole del gioco la sinistra non può attestarsi su letture crolliste e strumentali del politico – i comitati d’affari di Bruxelles e Strasburgo ecc. – o su consolatorie visioni della moltitudine, naturalmente disposta a rete nell’Unione, portatrice naturale con i suoi sussulti di nuove regolazioni del comune.
Il mondo e l’Europa riplasmati in quasi mezzo secolo dal neoliberismo sono ad un impasse che produce ormai mostri. La sinistra, i soggetti sopravvissuti alla rottura del 1989 o nati con essa non sono riusciti finora a prendere nemmeno le misure – soprattutto in Europa – di questa mutazione. Di qui spiazzamento e marginalità. Riconquisteranno un regolo utile solo liberandosi – e per davvero – dalla giacobina tentazione di scorciatoie e capri espiatori, balsamo d’ogni impotenza. Più che mai ne va della propria salute e sopravvivenza.
La versione completa dell’articolo è nel pdf qui: