Il 55% degli italiani chiede di cambiare le politiche di austerità, ma il 95% delle forze in Parlamento è su posizioni o antieuropeiste o favorevoli alle politiche di rigore
L’Unione europea è un obiettivo storico di progresso e di pace che non possiamo mancare. Siamo 28 paesi piccoli e medi, tuttavia competiamo con sistemi economici molto più grandi come gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone; ma, soprattutto, le scelte che concepiamo collettivamente in ogni istituzione democraticamente rappresentativa devono confrontarsi con i mercati globali e le loro correnti speculative che in termini economici valgono molte volte l’intero Pil mondiale. Se continueremo a muoverci singolarmente, saremo alla mercè di tutti.
I grandi sistemi economici possono permettersi politiche di stimolo dell’occupazione e della crescita che siano sostenibili per la qualità della produzione, dei rapporti sociali e dell’equilibrio ambientale, potendosi preoccupare molto meno dei condizionamenti esterni. Un grande sistema economico dotato di istituzioni altrettanto grandi può decidere molto più liberamente cosa fare a casa propria. Invece nel vecchio continente le istituzioni sono rimaste ancorate ai confini nazionali, rendendo molto più deboli le scelte collettive rispetto a quelle individuali prese e veicolate nei mercati globalizzati. Dunque dobbiamo rafforzare le istituzioni dell’Unione europea, perché le decisioni collettive dei cittadini siano più forti ed efficaci. Un’istituzione continentale, va da sé, è molto più forte di una istituzione nazionale.
La crisi è maturata negli Usa ma i suoi effetti negativi sono diventati molto più pesanti in Europa, dove si registra più disoccupazione e meno crescita. Questo è il risultato di una costruzione europea, ancora in divenire, sbagliata e controproducente per colpa di una visione, quella neoliberista, che –paradossalmente – considera le istituzioni un intralcio per i mercati. Per fare un esempio: la banca centrale americana risponde al presidente Obama, mentre la Bce è un’istituzione tecnocratica che non risponde politicamente e democraticamente, a nessuno.
Le politiche di austerità e di rigore applicate dalle Ue stanno portando al disastro, a una crisi che ha superato per gravità quella del ’29. I tedeschi difendono quella malintesa visione dell’austerità come una questione etico-morale, prima ancora che economica. Ma è un approccio ideologico palesemente asimmetrico. Infatti, la crisi si è concretizzata nell’esplosione del debito delle imprese private e, in particolare, degli istituti finanziari (quelli tedeschi molto più di quelli italiani) a causa dei loro comportamenti molto poco rigorosi; dopo, però, gli effetti e gli oneri di quei comportamenti sono stati addebitati ai bilanci pubblici e, dunque, alle popolazioni cui vengono tagliati salari, pensioni e servizi sociali in cambio di più tasse.
L’effetto diretto, non solo in Italia ma in buona parte dei paesi aderenti all’Unione, è una riduzione del Prodotto interno lordo e, di conseguenza, un peggioramento del rapporto fra il debito pubblico e il Pil. La Commissione europea prima ci impone vincoli che non ci fanno crescere e poi ci critica perché ciò sistematicamente accade e il debito diventa relativamente più pesante.
Quella adottata nel nostro continente è una visione economica, iniqua, e inefficace e se non sarà profondamente cambiata, gli euroscettici aumenteranno sempre di più e ci riporteranno ai nazionalismi che hanno generato le due guerre mondiali del secolo scorso.
L’Unione europea rischia di diventare il tripudio dei suoi difetti complementari: i cialtroni mediterranei che non pagano le tasse poi comprano le Bmw e le Mercedes dei tedeschi i quali ci rimproverano di essere evasori, ma fondano la loro economia sulle esportazioni verso il resto dell’Europa di cui affossano la crescita. In questo modo non c’è futuro né economico né civile e morale.
L’Unione dell’Europea – come avvenne per quella della Germania – si fa riducendo le differenze fra i vari paesi, non ampliandole attraverso le politiche di austerità. La storia europea è a un bivio epocale: alle generazioni future dobbiamo lasciare la sua unità che è il presupposto della sua prosperità materiale e morale, di una società più coesa e civile in un ambiente naturale più sano; non dobbiamo lasciargli il ritorno ai contrasti nazionalistici e la sottomissione assoluta delle popolazioni alle decisioni dei pochi signori del mercato che governano le correnti speculative sovranazionali.
Chi dice ‘ognuno a casa propria’, e chiede di abbandonare l’euro, sostiene una pericolosa sciocchezza. Per tornare indietro occorrerebbe che fra i paesi dell’Unione ci fosse molta più coordinazione e solidarietà di quanta ne sia necessaria per andare avanti. Ad esempio, prima di arrivare a cambiare le valute nazionali in euro ci sono voluti tre anni di cambi fissi (dal 1999 al 2002) concordati e difesi sui mercati dai paesi dell’eurozona; e dopo, per altri dieci anni abbiamo potuto cambiare le vecchie lire in euro sempre allo stesso tasso di cambio. Se si volesse ritornare alle valute nazionali, i diciassette paesi che litigano e non riescono ad andare avanti verso l’Unione dovrebbero accordarsi su nuovi tassi di cambio fissi da mantenere e difendere sui mercati per tutto il tempo, non breve, necessario per consentire il nuovo change over; ma è molto più probabile che aumenterebbero ulteriormente i litigi di oggi e sarebbe un caos nel quale potrebbe accadere di tutto.
All’Unione europea si è arrivati perché, dopo il secondo, devastante conflitto mondiale, i governi e i leader politici dei principali paesi giurarono che nel vecchio continente non ci sarebbero state più guerre.
L’indagine demoscopica Eurobarometro ci dice che oggi il 74% degli italiani vorrebbe una maggior cooperazione fra i 28 paesi dell’Unione. Il 65% ritiene che l’Italia non resisterebbe da sola alle sfide della globalizzazione; ma il 55% chiede di cambiare le politiche dell’austerità. Eppure il 95% delle forze politiche presenti nel parlamento italiano è su posizioni o direttamente antieuropeiste o favorevoli alle politiche di rigore. Forza Italia è antieuropeista o è per le politiche di rigore. Il Pd è europeista ma, con alcune lodevoli eccezioni, ha condiviso le politiche di Monti e il pareggio di bilancio in Costituzione. Grillo è contro l’Europa (e la stessa unità italiana); anche i cosiddetti “Fratelli d’Italia” sono antieuropeisti, e il “Nuovo centro destra” è d’accordo con l’Agenda Monti.
Dunque, chi rappresenta i cittadini italiani consultati dall’Eurobarometro? C’è un grande vuoto di rappresentanza democratica che corrisponde al programma per l’Europa della lista l’Altra Europa con Tsipras.
Riempire quel vuoto è necessario, possibile e giusto. Dobbiamo riuscire a rompere l’egemonia degli interessi e della visione che ha portato l’Europa alla grave crisi in cui si trova.