Protezione sociale, con standard di diritti e salari, e protezione dalla finanza. Queste sono le due condizioni essenziali per poter affrontare una politica economica, che aggredisca il nodo irrisolto della costruzione europea: le differenze strutturali tra le economie nazionali
Sono ormai cinque anni che la crisi finanziaria, con tutte le sue crisi derivate (recessione, crisi dei debiti sovrani ecc.), ha messo in luce il carattere economicamente recessivo e socialmente repressivo della politica economica europea. Nella gestione del conflitto distributivo generato per riparare i danni causati dalla finanza, è la stessa finanza a costituire lo strumento che detta i tempi di cosa e come “riformare”.
Sono le prescrizioni della finanza a guidare l’aggiustamento strutturale secondo la visione neoliberista della società propria di una classe dirigente culturalmente omogenea e trasversale alle realtà nazionali. Per le sue presunte capacità “tecniche” essa è massimamente rappresentata a livello non solo dei governi nazionali, ma soprattutto di quello comunitario, dove gestisce una politica economica dal respiro “globale”. Ne deriva una gestione sovranazionale della politica economica, per cui qualsiasi prospettiva ad essa alternativa deve realisticamente porsi sul medesimo piano, ovvero su ampia base europea.
Una politica economica alternativa deve far riferimento a obiettivi politici che per essere alternativi non possono che riguardare la difesa e l’espansione del lavoro e dei diritti sociali. La promozione della piena occupazione, della tutela del lavoro e dei suoi redditi, della difesa del welfare richiedono quindi di individuare e perseguire a livello europeo una “norma distributiva” degli standard minimi salariali, dei diritti del lavoro, della protezione e sicurezza sociale che, con l’opportuna articolazione a livello di singolo paese, non solo garantisca di evitare eccessi di concorrenza sociale, ma soprattutto tolga al mercato l’attuale delega a decidere come vanno distribuiti redditi e risorse e quindi il suo potere di condizionare la struttura e le dinamiche sociali.
La possibilità-capacità di adottare una tale “norma” è essenziale per una politica economica alternativa anche per segnalare appropriatamente alla pubblica opinione il senso di una differente proposta di soluzione della crisi. Il suo spazio di applicazione non può essere l’intera area europea dato che interventi di contrasto delle politiche correnti di austerità limitate all’ambito puramente nazionale difficilmente sono in grado di “fare presa” per l’insufficienza degli strumenti disponibili per fronteggiare le pesanti pressioni esterne.
Fissare la norma distributiva (a livello europeo) bloccherebbe le attuali politiche di austerità responsabili dell’avvitarsi di una deflazione salariale che trova giustificazione solo nella priorità attribuita dall’attuale classe dirigente alla necessità di garantire il valore reale della ricchezza. La sua importanza risiede nel permettere sia di uscire da questa crisi con un equilibrio sociale meno disastrato, sia di predisporre adeguate difese “comunitarie” per fronteggiare le difficoltà derivanti dai non improbabili shock del prossimo futuro. Non mancano situazioni di pericolosa instabilità dovute a una finanza globale lontana dall’aver recuperato un equilibrio soddisfacente; ad una politica economica statunitense di grande complessità; all’accentuarsi di conflitti geopolitici sulle risorse scarse.
È evidente la necessità, di fronte a questi possibili eventi, di accrescere la resilienza dei sistemi sociali in modo di assorbire gli shock ai minori costi possibili. Gli eventuali riaggiustamenti richiedono tempo poiché si tratta di processi di medio e lungo periodo di complessa programmazione; essi si possono meglio realizzare in contesti di economie solidali e cooperative e al riparo di una finanza che, con la sua ottica di breve periodo, aggrava le condizioni della loro realizzazione.
L’obiettivo di una norma distributiva a livello europeo e un’adeguata protezione dalla finanza globale sono due condizioni essenziali per affrontare la questione delle differenze strutturali che caratterizzano i diversi sistemi produttivi nazionali che appare fondamentale per la costruire una stabile società europea. È ampiamente noto che, in presenza di una politica industriale europea che non prevede – se non a livello della creazione di infrastrutture fisiche e umane – alcun intervento per contrastare direttamente tali squilibri strutturali, essi si sono approfonditi nel tempo accentuando la già squilibrata divisione del lavoro intraeuropea; le politiche di austerità hanno viepiù accentuato la sfavorevole evoluzione dei paesi industrialmente più fragili.
Si tratta di un processo strutturale che è frutto di una pressione della concorrenza intra ed extra-europea che induce da tempo nel sistema produttivo europeo una doppia tendenza. Da un lato, una tendenza centripeta a concentrare le attività tecnologicamente e strategicamente più produttive al centro dell’Europa e, dall’altro lato, una tendenza centrifuga a spostare le attività rimanenti verso la periferia dell’Europa o al suo esterno. Permanendo gli attuali orientamenti di politica economica di disinteresse per i processi strutturali, il governo di queste tendenze è lasciato nelle mani delle singole nazioni con la conseguenza che le risposte che i paesi periferici possono dare alla pressione competitiva per convergere verso le strutture produttive più avanzate non riescono ad attivare i processi sperati.
È questa dimensione strutturale che rende apparente il dilemma espresso dall’alternativa se rimanere o uscire dall’eurozona. Ferma rimanendo la politica economica esistente, entrambe le decisioni non sono risolutive dello squilibrio di fondo. Se si rimane all’interno della moneta unica, la perdita continua di competitività che ne deriva significa dover accettare una deflazione interna dei livelli di produzione e di reddito o dei salari monetari, così come dei trasferimenti pubblici e dei diritti. Qualora invece ci si svincoli dalla moneta unica, ne deriva il rischio di avvitarsi in un processo di svalutazione-inflazione che, in maniera più rapida ma più difficilmente governabile, non può che tradursi in una analoga contrazione dei salari reali, dei trasferimenti pubblici e dei diritti. Non intendo sostenere che differenze (comunque non sostanziali) non si possano registrare negli esiti dei due processi, ma solo che la vera difficoltà che stanno incontrando i paesi periferici nel rilanciare la loro crescita risiede non nel far o meno parte dell’eurozona, ma nell’assenza di una politica industriale capace di governare le tendenze, centripete e centrifughe, presenti nel sistema produttivo europeo.
In mancanza di adeguate politiche di riequilibrio tra aree strutturalmente diverse (non penso solo ai paesi dell’Europa mediterranea), le condizioni iniziali sono fattore determinante per una evoluzione divergente degli apparati produttivi e, se contrastata da drastiche riforme del mercato dei beni e del lavoro, anche delle condizioni sociali. Nell’ottica per la quale ogni nazione deve trovare da sé la soluzione all’insufficiente competitività, si deve prendere atto che la difficoltà di una convergenza degli assetti produttivi nazionali ha, in larga parte, determinanti endogene. La considerazione che un’Unione priva di una politica industriale in grado di alleviare le condizioni produttive dei paesi periferici porta a concludere che non vi è alcuna prospettiva credibile di realizzare quella norma distributiva posta inizialmente come obiettivo alternativo della politica economica europea. Per un’economia più stabile e una società più equilibrata è essenziale una politica industriale attiva capace di ridimensionare, nel necessario riorientamento qualitativo delle produzioni nazionali, gli effetti distorsivi provenienti dall’evoluzione spontanea di sistemi produttivi internamente asimmetrici.
È evidente che l’obiettivo di un’espansione produttiva diffusa territorialmente ed equilibrata socialmente richiede una ridefinizione anche degli altri strumenti della politica economica. Senza soffermarsi in dettaglio su questo aspetto, è sufficiente richiamare l’importanza che una gestione della politica della domanda e della politica valutaria possono avere nel creare un quadro macroeconomico che renda più fluidi i processi di ristrutturazione degli apparati produttivi dei paesi periferici.
Appare anche ovvio che questa prospettiva richieda una ridefinizione profonda delle autorità di politica economica. In effetti, per quanto si possa sostenere che, nel corso della crisi, la BCE ha ridefinito i suoi strumenti di intervento in forme potenzialmente utilizzabili per una politica monetaria più discrezionale, essa non è ancora una vera banca centrale poiché non vi è ancora un banchiere centrale. Esso si definisce all’interno di una politica economica complessiva; ha bisogno di un’autorità fiscale con la quale concordare e coordinarsi per definire e attuare la politica economica. Ma la subordinazione della banca centrale a un’autorità fiscale rigidamente attestata sul risanamento dei conti pubblici le restringe il campo di azione discrezionale al solo sostegno delle banche in difficoltà sistemica. Fino a quando non si rovescia questa visione di una politica economica repressiva che trova nel Patto fiscale il suo culmine, non è possibile prospettare un quadro politico-istituzionale in grado di garantire un’uscita meno avventurosa dalla crisi e una ripresa di un più equilibrato progresso sociale e civile.
Sta qui il nodo ampiamente denunciato della crisi politica dell’Europa: la delega a un ceto tecnico-politico portatore di una ben definita visione neoliberista delle finalità dell’Europa e del suo ruolo globale in un quadro istituzionale che lo rende di fatto irresponsabile nei confronti delle istituzioni democratiche che dovrebbero orientarlo e controllarlo. Il suggerimento del premier Monti al suo successore di prendere atto che «ormai il governo dell’Italia si fa in gran parte a Bruxelles, con l’attiva partecipazione italiana» esprime con la solita chiarezza dei “tecnici” il processo politico da tempo in atto di de-democratizzare la politica europea attraverso la sostanziale emarginazione delle istituzioni rappresentative democraticamente elette (in particolare del Parlamento europee).
Nessun quadro alternativo di politica economica può formarsi se non come strumento di contestazione della cultura dominante sul suo stesso terreno, ovvero a livello sovranazionale; un’alternativa alle politiche di austerità e alla più generale visione neoliberista della società richiede non solo un impegno a formulare e ad approfondire proposte alternative di politica economica e di politica istituzionale per contrastare in maniera tecnicamente convincente l’attuale politica di austerità socialmente oppressiva, ma occorre, su un terreno culturale più ampio (e comunque sovranazionale), operare per scalfire l’attuale visione egemonica delle relazioni economiche e sociali per affermare nel senso comune della popolazione la consapevolezza che esiste un’alternativa possibile e preferibile al modello sociale esistente: la gestione della crisi è sovranazionale (europea), la risposta critica a questa gestione deve essere sovranazionale (europea).