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Una montagna di poveri per fare un solo ricco

La crisi ha aumentato le diseguaglianze sociali e di reddito. Ma è ancora possibile un rinnovato intervento pubblico in economia? Recensione a “Nove su dieci”

L’attuale crisi economica è stata oggetto di molte analisi, a partire dal suo inizio, databile oramai quasi 5 anni fa. Diversi sono stati infatti i libri e i saggi che ne hanno evidenziato i differenti aspetti, dal nuovo ruolo assunto dai mercati finanziari agli effetti sull’economia reale, dall’adozione di politiche di contenimento del debito pubblico alle proposte per la ripresa economica. Minor attenzione ha invece avuto l’analisi degli effetti sulla distribuzione del reddito. Non che tale tema non sia stato al centro di riflessioni specifiche, ma fino ad oggi non mi sembra che esista in Italia una raccolta sistematica dei dati relativi al peggioramento della distribuzione del reddito, sia a livello «funzionale» (ripartizione tra redditi da lavoro, da impresa e rendita) che individuale (per decili della popolazione).

I numeri del declino italiano

A colmare questa lacuna provvede l’ultimo libro di Mario Pianta, dal titolo già di per sé assai esplicativo: Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa (Laterza, pp. 175, euro 12). Docente di Politica Economica all’Università di Urbino nonché collaboratore ed editorialista de «Il Manifesto» ed animatore della campagna «Sbilanciamoci!», Mario Pianta è un attento analista dei processi di innovazione e crescita in Italia ed in Europa. Nei due capitoli centrali del libro, fornisce una dettagliata analisi della concentrazione dei redditi in Italia e del peggioramento delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione italiana negli ultimi dieci anni (capitolo 3), alla luce del declino dell’economia italiana, negli anni del Berlusconismo e della massima ascesa del pensiero neoliberista (capitolo 2).

Leggere uno dopo l’altro i diversi dati sulla ripartizione dei redditi in Italia (con una dinamica crescente delle rendita, soprattutto finanziaria, un livello dei profitti superiore alla media europea ed un calo della quota dei redditi reali da lavoro), e sulla disuguaglianza (il reddito di un «ricco» equivale a quello di 100 «poveri») fa impressione. Comparando la situazione italiana a quella europea (con particolare riferimento alle analisi di Piketty e Atkinson), si possono ricavare alcune indicazioni interessanti. Emerge infatti una correlazione negativa tra bassa crescita economica e elevata concentrazione e disuguaglianza nei redditi. Ed è proprio partendo da questa osservazione che Pianta passa in rassegna i fattori principali del declino italiano. «Tra il 1999 e il 2010, il Pil è cresciuto in totale di meno del 10% e il reddito per abitante del 4,5%: in dieci anni, l’Italia ha avuto lo sviluppo che la Cina registra in un solo anno». I consumi per abitanti sono saliti solo dell’1,3% nell’intero decennio. Contemporaneamente, la capacità di risparmio delle famiglie italiane si è praticamente dimezzata. Se tale dinamica ci mostra come la mancata crescita della domanda interna abbia negativamente inciso sulle potenzialità della crescita economica, dal lato dell’offerta si registra quello che Pianta definisce «Il miracolo italiano della produttività che diminuisce». A differenza di chi sostiene, anche all’interno dell’attuale governo, che tale esito negativo sia attribuibile alle rigidità del mercato del lavoro (e magari alla supposta pigrizia dei lavoratori) e alla burocrazia imperante, Pianta osserva che la struttura produttiva e tecnologica italiana non è adeguata a reggere la pressione competitiva internazionale, soprattutto per la presenza di due fattori che si alimentano a vicenda: imprese troppo piccole e carenza di investimenti in tecnologia e innovazione. Sulla base di queste analisi, nel quarto e ultimo capitolo vengono discusse alcune possibili «vie d’uscita» dall’impasse sociale ed economico in cui l’Italia si trova. Esse si fondano essenzialmente su due assi principali. Da lato dell’offerta, si caldeggia la proposizione di una (mai veramente effettuata) politica industriale e tecnologica in grado di migliorare la produttività dell’economia italiana tramite processi di riqualificazione e riconversione dell’industria italiana lungo le linee delle nuove frontiere tecnologiche legata alle produzioni sostenibili e alle nuove tecnologie digitali. Si tratta in ultima istanza di affrontare il vecchio tema, presente nei movimenti riformisti del Novecento, di «che cosa e come produrre». Dal lato della domanda, si propone invece una politica di redistribuzione che faccia perno sia sulla riqualificazione della spesa pubblica e delle spese sociali (introducendo la garanzia di un reddito minimo – non si capisce, però, se incondizionato o meno – e rafforzando i servizi sociali pubblichi) che sulla riforma del sistema tributario a favore di una maggiore equità e progressività delle imposte. Infine viene proposta l’introduzione di una patrimoniale sulle grandi ricchezza e il possibile ricorso alla Tobin Tax a livello europeo. Le proposte sono, quindi, in linea con quanto già espresso dalla campagna «Sbilanciamoci!».

In cerca della Politica

Questo di Mario Pianta è un libro di forte interesse e attualità per invertire la rotta delle politiche di austerity che oggi sono predominanti a livello europeo. Non è un caso che il libro si chiude con un forte richiamo al ritorno della Politica (con la P maiuscola), nel nome di un intervento riformatore di alto respiro. Ed è forse questa conclusione che può lasciare il lettore con qualche dubbio. È ancora possibile ai giorni nostri l’attuazione di una politica «democratica» e «keynesiana», con il rafforzamento del ruolo del pubblico? L’autore ne è sicuramente convinto. La risposta potrebbe essere diversa se si considera che nel nuovo millennio i processi di valorizzazione e di accumulazione capitalistica, la nascita di nuove gerarchie legata alla finanziarizzazione dell’economia (per non parlare dei mutamenti relativi ai rapporti tra pubblico e privato e tra capitale e lavoro), hanno subito una torsione profonda verso nuove forme di sfruttamento della cooperazione sociale e di espropriazione del comune, rispetto alle quali il semplice ritorno ad una governance pubblica può risultare insufficiente.

Questo articolo è stato pubblicato sul manifesto del 10 maggio 2012