Un’Italia disunita, con l’autonomia differenziata delle Regioni, è la prospettiva che si apre con il governo Meloni. Per fermarla, si può firmare per una legge d’iniziativa popolare che cambi gli articoli 116 e 117 della Costituzione.
Il 10 novembre si è ufficialmente avviata la raccolta delle firme per una legge di iniziativa popolare di riforma degli articoli 116 e 117 della Costituzione. L’iniziativa è di un gruppo di cittadini che fanno riferimento al Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, con primo firmatario Massimo Villone; all’iniziativa hanno aderito i sindacati della scuola. Sarà necessario raccogliere 50.000 firme entro sei mesi affinché la proposta abbia validità e possa essere trasmessa al Parlamento per la discussione.
La proposta è un’iniziativa politica e giuridica anche in risposta alle richieste avanzate da alcune regioni, a partire dal 2017, di applicazione del terzo comma dell’articolo 116, attuando forme di autonomia regionale differenziata. Richieste che sono state con il governo Conte I vicinissime a concretizzarsi. E che sono tornate di strettissima attualità con il governo Meloni. La Presidente del Consiglio ha annunciato nel suo discorso programmatico alle Camere la volontà di concretizzare la concessione di maggiore autonomia. Ha affidato la materia al Ministro leghista Roberto Calderoli, da sempre collocato su una linea politica identica a quella dei presidenti leghisti delle regioni Lombardia e Veneto, Fontana e Zaia. Calderoli ha fatto circolare una bozza di “legge quadro” sulla materia e l’ha illustrata il 17 novembre scorso alla Conferenza delle regioni. È determinato a procedere nella maniera più rapida possibile. Si vedrà che esito avrà questa iniziativa. Il partito dei Fratelli di Italia viene da una cultura politica molto diversa da quella della Lega, di ispirazione centralista. Non a caso l’attuale Presidente Meloni aveva presentato nella XVII Legislatura un disegno di legge costituzionale che prevedeva l’abolizione dell’articolo 116 e con esso di ogni “specialità” regionale. D’altra parte, le forze di opposizione, in particolare il Partito Democratico, non hanno mai espresso una netta opposizione a queste richieste, anche perché uno dei principali esponenti politici di quel partito è il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, che è uno dei promotori dell’iniziativa delle regioni.
Le richieste delle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna sono a nostro avviso assai negative e pericolose. Non si tratta di questioni amministrative; al contrario esse potrebbero, se approvate, ridisegnare radicalmente l’assetto dei poteri della Repubblica e influire pesantemente sui diritti di cittadinanza degli Italiani. Questo, per tre profili. Nel merito, le regioni chiedono competenze estesissime: praticamente tutte quelle teoricamente concedibili. In materie fondamentali come l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, l’energia, l’ambiente e molte altre. Stiamo parlando della regionalizzazione della scuola pubblica italiana e della cancellazione (con l’attribuzione di competenze esclusive alle regioni) del Servizio Sanitario Nazionale. In secondo luogo, Lombardia e Veneto da sempre chiedono di ottenere molte più risorse di quante lo Stato oggi spenda per le stesse funzioni nei loro territori. Questo avverrebbe ignorando le prescrizioni della legge 42/2009, disegnando un modello finanziario ad hoc, di favore; soprattutto non definendo i livelli essenziali delle prestazioni (articolo 117.2.m della Costituzione) cioè i diritti di cittadinanza di ogni italiano. Infine, Calderoli immagina (come prima di lui la ministra Stefani del governo Conte I) un percorso che esautora il Parlamento (ridotto a parere consultivo e mera ratifica finale a scatola chiusa); consegna tutti i poteri ad oscure Commissioni paritetiche fra lo Stato e le regioni interessate; rende le intese immodificabili in futuro senza il consenso delle regioni interessate e impedisce di richiedere un referendum popolare per la loro eventuale abrogazione.
Il disegno di legge costituzionale da noi presentato non prevede una riscrittura radicale del Titolo V, così come riformato nel 2001. L’equilibrio dei poteri fra Stato, regioni, Enti Locali e i meccanismi di finanziamento di questi ultimi sono materia assai articolata e complessa, che richiede una riflessione attenta e un ampio e approfondito dibattito, tanto sui principi ispiratori quanto sull’effettivo funzionamento del paese dal 2001 in poi. L’attuazione di quel testo è d’altra parte ancora in corso, con la lentissima e parziale attuazione in particolare dei meccanismi finanziari previsti dalla legge 42. Non si può realisticamente proporre di cancellare venti anni di applicazione del Titolo V, che hanno cambiato in profondità gli assetti politici e istituzionali del paese, oltre che modellato gli apparati pubblici centrali e periferici: una proposta in tal senso, a nostro avviso, non avrebbe alcune concreta possibilità di approvazione.
Quello che si è pensato realisticamente di fare è stato individuare i punti di maggiore sofferenza e pericolo per l’unità della Repubblica evidenziati già nel dibattito 2017-2019 sul regionalismo differenziato, e poi successivamente nell’esperienza della lotta alla pandemia. Una riforma chirurgica, orientata a correggere errori manifesti, ed a prevenire danni ulteriori.
I punti su cui si concentra la proposta sono tre. Il primo riguarda la riscrittura del terzo comma dell’articolo 116, che è quello che consente alle regioni a statuto ordinario di fare richiesta di nuove competenze, relativamente ad un elenco di materie contenute nell’articolo 117, fra quelle di competenza statale o di competenza concorrente. Il secondo riguarda la parziale riscrittura proprio dell’elenco delle materie (a competenza esclusiva dello Stato, a competenza concorrente, a competenza esclusiva delle regioni), con lo spostamento di alcune di esse dalla potestà concorrente a quella esclusiva dello Stato. Il terzo l’introduzione, nello stesso articolo 117, di una clausola di supremazia a tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica.
Nell’articolo 116 al terzo comma viene inserita una diretta connessione con una specificità territoriale, come requisito essenziale per la concessione di “forme e condizioni particolari” di autonomia. Come ricordato, le attuali richieste abbracciano un gran numero di materie a prescindere da qualsiasi connotazione territoriale, giungendo a una sostanziale stravolgimento dello stesso articolo 117. Il tutto in base a una trattativa tra Governo e singole regioni tradotta in un’intesa. Inoltre, si interviene sul procedimento di formazione della legge che concede la maggiore autonomia. Attualmente si prevede l’iniziativa della regione interessata e l’approvazione con legge a maggioranza assoluta dei componenti sulla base di intesa tra lo Stato e la regione interessata. È evidente la pericolosità di una procedura che potrebbe vedere una momentanea sintonia politica tra una o più regioni e il governo nazionale, favorevole al riconoscimento di particolari vantaggi a danno di altre regioni, anche considerando che la maggiore autonomia potrebbe comportare anche vantaggi finanziari. Inoltre, una regione beneficiaria avrebbe un sostanziale potere di veto su qualsiasi modifica successiva. Potrebbe essere difficile o impossibile eliminare condizioni di privilegio introdotte. Va quindi superato il modello fondato sull’intesa, riconducendolo ad un parere della regione interessata nell’ambito del procedimento di formazione della legge di approvazione.
Inoltre, come accennato, la legge approvativa dell’intesa rimarrebbe anche sottratta alla possibilità di un referendum abrogativo. Si introduce così la possibilità di un riscontro referendario, che offrirebbe a tutti i cittadini il potere di esprimersi su una riforma che comunque, modificando il funzionamento del paese, li riguarda. A tal fine viene previsto un referendum sul modello dell’art. 138 per la legge costituzionale, giustificato perché la maggiore autonomia tocca gli assetti generali del rapporto Stato-regioni e un referendum abrogativo con riferimento all’articolo 75.
La proposta sull’articolo 117 esclude dal catalogo delle competenze concorrenti (terzo comma) e inserisce nell’elenco delle materie a potestà esclusiva statale (secondo comma) alcune materie che si ritengono strategiche per l’unità del paese. In primo luogo, la tutela della salute, per rafforzare il servizio sanitario nazionale, insieme a scuola, università e ricerca, la cui disciplina uniforme è strategica per l’unità della Repubblica. Ancora, materie relative alla infrastrutturazione materiale e immateriale, rilevanti sotto il profilo di diritti individuali, dell’eguaglianza, e dell’efficienza complessiva del sistema-paese.
Ovviamente, l’inclusione nel catalogo delle potestà esclusive non comporta di per sé il raggiungimento di obiettivi di eguale tutela dei diritti e di perseguimento dell’eguaglianza. Ma dovrebbe impedire a singole regioni il perseguire obiettivi di diversificazione territoriale sulla base del riparto di competenze vigente, come chiaramente è negli obiettivi quantomeno di Lombardia e Veneto. Nelle bozze di intesa circolate nel 2019 si ipotizzava anche la regionalizzazione di ferrovie, autostrade, porti, aeroporti, ambiente, beni culturali di primario rilievo.
Con la riforma del Titolo V del 2001 fu infine cancellato l’”interesse nazionale” come limite generale nel riparto delle competenze. Questa decisione, a nostro avviso erronea, fu in parte lenita nel richiamo nell’articolo 120 all’unità giuridica ed economica della Repubblica. Esso però prevede solo poteri sostitutivi del governo: quindi per ipotesi quando il danno all’unità fosse in atto o fosse già avvenuto. È a nostro avviso opportuno un potere del Legislatore volto a prevenire danni all’unità del paese.
Nella proposta è previsto come limite generale per la legge regionale l’interesse nazionale e delle altre regioni, così come una esplicita menzione dell’applicabilità della clausola di supremazia per le leggi regionali eventualmente adottate in attuazione dell’autonomia differenziata.
Non si tratta, a nostro avviso di una iniziativa velleitaria, di mera protesta. La presentazione di un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare (come previsto dall’art. 71 della Costituzione) non è destinata a restare senza effetto. Questo per due importanti ragioni. In primo luogo, una riforma del Regolamento del Senato del 2017 (art. 74) ha definito con maggiore precisione l’iter di un simile disegno di legge, di cui è assicurato l’approdo nel calendario di aula. Questo accresce la possibilità che le forze politiche e le rappresentanze parlamentari discutano del tema, prendano posizione; assumano responsabilità nei confronti dell’opinione pubblica.
Riguardo all’autonomia differenziata, questo è un obiettivo particolarmente importante, perché la maggior parte delle forze politiche non hanno sinora preso ufficialmente posizione. E perché i suoi sostenitori hanno sempre tentato di agire in silenzio, di derubricarla a questione tecnico-amministrativa; di sostenere che interessi solo i cittadini delle regioni coinvolte e non tutti gli Italiani.
Ad anni di distanza dai referendum consultivi tenutisi nel 2017 in Veneto e in Lombardia, e dell’avvio del tentativo di ottenere amplissime competenze aggiuntive, i cittadini italiani sono ancora pochissimo e male informati. Con poche eccezioni, il servizio pubblico radio-televisivo e la grande stampa non si sono occupati del tema, limitandosi talvolta a registrare piuttosto passivamente le opinioni dei Presidenti delle regioni coinvolte. Non è un caso che il Parlamento non ne abbia mai approfonditamente discusso, al di là di qualche audizione di esperti nelle Commissioni o di interrogazioni con le relative, rapide, risposte in Aula. Una discussione generale su un disegno di legge avrebbe ben altra importanza, e valenza informativa.
Si ricordi che la più recente modifica costituzionale – quella relativa all’inserimento del riferimento all’”insularità” all’interno dell’articolo 119 è frutto dell’approvazione proprio di un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare.
I cittadini possono sottoscrivere la proposta anche telematicamente, grazie al possibile utilizzo della firma online, che si applica anche all’iniziativa legislativa popolare. Chi volesse firmare può agevolmente farlo tramite il sito www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it.
Una proposta accompagnata da un elevato numero di firme, provenienti da tutte le aree del paese, avrebbe a nostro avviso maggiore forza.