La rotta d’Italia. La caduta dei salari aggrava la recessione e produce povertà. È il momento di introdurre un salario minimo per legge e correggere le leggi su lavoro e sindacato. E di sostenere le imprese che vogliono investire
Nel discorso sulla stato dell’Unione del 12 febbraio, Barack Obama ha esortato il Congresso a portare avanti riforme che presuppongono la presenza di uno stato fortemente interventista in economia. Ha lanciato una serie di proposte, fra cui l’aumento del salario minimo, investimenti per la ricerca e per l’innovazione nel settore industriale, incremento delle spese per l’istruzione, opere pubbliche, incentivi alla produzione di energia eolica e solare. Il discorso di Obama dovrebbe offrire elementi di riflessione in questa campagna elettorale in cui i temi della disoccupazione, della crisi, dell’impoverimento crescente dei lavoratori dovrebbero essere i temi centrali, ma purtroppo sono spesso tenuti in disparte. Sia chiaro che questi temi non sono disgiunti, ma sono indissolubilmente collegati. La tanto sbandierata austerità, che sarebbe necessaria per rientrare dal debito pubblico, non ha migliorato i conti pubblici, ma ha creato disoccupazione e povertà e sta distruggendo il sistema produttivo, i servizi pubblici, il welfare.
Vent’anni fa, col Protocollo siglato da governo e parti sociali del 1993, la moderazione salariale è stata invocata come un’esigenza per far ripartire l’economia. La stagnazione dei salari si è accompagnata dalla fine degli anni ’90 a interventi in direzione di una maggiore flessibilità, che hanno subìto un’accelerazione con l’inizio di questo secolo. Gli effetti congiunti di moderazione salariale e precarietà del lavoro sono stati un freno alla domanda interna, hanno limitato il processo di crescita e frenato quegli stimoli all’innovazione e alla ricerca di soluzioni tecniche volte ad aumentare produttività e competitività. Negli anni ’90 i profitti sono cresciuti, ma non gli investimenti: molti imprenditori hanno approfittato della situazione favorevole per portare capitali all’estero e fare investimenti finanziari. La legge Biagi ha fatto ulteriori regali alle imprese che hanno potuto beneficiare di un basso costo del lavoro e conservare i margini di profitto senza innovare per migliorare la produttività.
Si è arrivati così agli anni della crisi, in cui assistiamo a un crescente impoverimento dei lavoratori e a un aumento della disoccupazione e della precarietà. Anche le imprese che per anni hanno goduto di profitti crescenti ora sono in difficoltà, molte hanno chiuso, altre sono vicine alla chiusura e reclamano a gran voce sgravi fiscali.
È giunto il momento di cambiare rotta. La questione salariale è un problema centrale che, come si è visto, è stato accantonato da troppo tempo e ha ampiamente contribuito al declino dell’Italia. La strada per risolvere la questione salariale è irta di difficoltà. Molte imprese sono in crisi e non sembrano in grado di pagare salari più elevati. I sindacati sono deboli e divisi e raramente, al momento dei rinnovi contrattuali, riescono a ottenere aumenti salariali in grado di coprire l’incremento del costo della vita. Di conseguenza i salari reali continuano a calare e l’economia si avvita in un circolo vizioso.
Si impone quindi la necessità di un minimo salariale imposto per legge. Si dovrebbe prevedere inizialmente un minimo salariale tale da permettere anche ai lavoratori meno qualificati standard di vita dignitosi. Si dovrebbe poi procedere a graduali incrementi fino a raggiungere nel giro di alcuni anni il livello di quello francese, che attualmente è pari a 9,43 € lordi all’ora, 1.430 € al mese. Un salario minimo dignitoso è importante non solo per evitare il fenomeno ormai sempre più diffuso dei working poors, ma anche per rivitalizzare la domanda e stimolare l’innovazione. Tale misura dovrebbe essere affiancata da una nuova legge sul lavoro che riduca il numero dei contratti atipici, li renda più costosi e, soprattutto, ne limiti l’utilizzo ai casi di provata necessità.
Per troppo tempo sono state tenute in vita imprese che non sono in grado di pagare salari dignitosi e che cercano di competere con i paesi emergenti con lo sfruttamento del lavoro, con i bassi salari, con la precarietà. Produzione obsolete, non competitive devono essere abbandonate. Ma ci sono anche imprese, e sono molte, che hanno limitato gli investimenti e non hanno fatto innovazioni, perché si sono adagiate sulla possibilità di mantenere buoni margini di profitto grazie ai bassi salari e si sono trovate in difficoltà con l’arrivo della crisi. Per queste imprese è opportuno prevedere forme di sostegno, quali sgravi fiscali e crediti agevolati, che consentano di attuare i processi di ristrutturazione necessari per far fronte alle mutate condizioni economiche e all’aumento dei costi conseguenti all’introduzione di un minimo salariale. Si deve operare in modo selettivo per premiare solo le imprese virtuose e, parimenti, è fondamentale che lo Stato paghi prontamente le imprese fornitrici. Alcune misure, come quella degli sgravi fiscali per le imprese che investono e che fanno ricerca, e la proposta di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini di pagare i fornitori con titoli di Stato, sono state recepite e rilanciate dai partiti di centro-sinistra in questa campagna elettorale.
Parimenti, è opportuno incentivare i processi di integrazione orizzontale e verticale, in particolare per le imprese di piccola dimensione. Un problema particolarmente serio in Italia che si intreccia con quello dei bassi salari è quello della dimensione di impresa. Il tessuto produttivo italiano è caratterizzato da una miriade di imprese di piccolissime dimensioni, che non sono in grado di affrontare spese di ricerca e che tendono a pagare salari più bassi della media, approfittando anche delle difficoltà del sindacato a essere presente nelle piccole imprese. Vanno incoraggiati dunque i processi di integrazione per sostenere la crescita dimensionale delle imprese e favorire così l’innovazione, permettere lo sfruttamento di economie di scala e consentire alle imprese di pagare salari più elevati.
Si può obiettare che gli aumenti salariali sono una misura necessaria ma questo non è il momento, che la fase di recessione non lo consente, perché ci sono imprese che non sono in grado di pagare salari dignitosi e si avrebbe un ulteriore aumento della disoccupazione o del lavoro nero. In realtà, la crisi offre più che mai opportunità di cambiamento, anzi il cambiamento è l’unica possibilità per uscire dalla crisi. E un aumento dei salari in fase recessiva potrebbe costituire uno stimolo forte alla ripresa, mentre la piaga del lavoro nero va combattuta con ogni mezzo.
Rimane aperto il problema di come assorbire i lavoratori espulsi dalle imprese che non sono in grado di reggere gli aumenti salariali. Come suggerisce Luciano Gallino nell’intervista a sbilanciamoci.info (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/La-disoccupazione-crea-disoccupazione.-Intervista-a-Luciano-Gallino-16889), lo Stato dovrebbe farsi carico dei disoccupati attraverso l’istituzione di un’agenzia per il lavoro che si occupi di creare nuova occupazione là dove serve. Molte sono le esigenze da soddisfare, dalla cura del territorio, alla cultura, ai servizi di welfare; è urgente un intervento dello Stato per produrre beni e servizi pubblici. Resta l’annoso problema del finanziamento. Come emerge nelle proposte di Gallino, così come nella controfinanziaria di Sbilanciamoci (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/2013-ecco-la-vera-agenda-15684), si possono reperire fondi tagliando sulle spese non necessarie, come quelle militari, affrontando seriamente il problema dell’evasione, introducendo una patrimoniale.