Social compact/L’edilizia pubblica potrebbe essere destinata a campus universitari, co-housing e abitazioni destinate ai giovani. E gli immobili invenduti affittati a canone sostenibile
Escluso il piano Fanfani, la questione casa in Italia è sempre stata affrontata soltanto in termini emergenziali e mai strutturali. Il diritto all’abitare, pur essendo uno di quelli fondamentali per l’uomo, non è mai stato esentato dalla logica della massimizzazione dei profitti e dalla progressiva finanziarizzazione della società. Nonostante una dotazione finanziaria di 2 miliardi di euro, il Fondo Investimenti per l’Abitare (Fia) gestito da Cassa Depositi e Prestiti e creato dal governo Berlusconi, ha fallito. Ma non per colpa della crisi. Era nato per incrementare l’offerta di alloggi intermedia tra l’edilizia residenziale pubblica e il mercato, ma la mancanza di un tetto ai valori di apporto delle aree edificabili e soprattutto alla remunerazione dei soggetti privati partecipanti, ne ha stravolto la natura e gli obiettivi. Per far tornare i rendimenti finanziari attesi (speculativi) sono state introdotte quote sempre maggiori di abitazioni da destinare alla vendita anziché alla locazione sociale. Con la crisi, la caduta dei prezzi e della domanda di abitazioni, nonché la difficoltà di accesso ai mutui, l’iniziativa si è fermata.
Eppure, in questo momento storico sono presenti tutte le condizioni per una politica abitativa sana e a vantaggio delle persone meno abbienti: i costruttori hanno enormi quantità di invenduto; le banche hanno ingenti crediti in sofferenza verso i costruttori; le regioni e i comuni possono vendere parte del loro patrimonio Erp (a valori catastali abbattuti del 30%); esiste la rilevante disponibilità finanziaria del Fia (solo 450 milioni di euro deliberati su 2 miliardi); e soprattutto, 2,5 milioni di famiglie si trovano in una situazione di disagio abitativo (quota di reddito destinata ai canoni di locazione maggiore del 40%, come afferma il governo Renzi). Risulta pertanto possibile da una parte valorizzare l’offerta edilizia esistente orientando la domanda impropria e non tradizionale (studenti, immigrati, lavoratori temporanei, single, separati e divorziati, anziani) su specifiche linee di offerta da realizzare (ad esempio campus universitari, silver co-housing e per giovani); e dall’altro recuperare le abitazioni invendute delle imprese di costruzioni (acquistandole a prezzi non speculativi), evitando loro procedure concorsuali e consentendo alle banche di recuperare i crediti incagliati per rimettere in circolo denaro per l’economia reale.
Da un punto di vista economicofinanziario esistono le condizioni per la creazione di un fondo immobiliare a profitto limitato, composto da abitazioni da dare in locazione a canoni sostenibili per i redditi delle famiglie medie (5-6 euro mq/mese nelle grandi città) e con patto di riscatto (ad es. a 8 anni). Senza denaro pubblico a fondo perduto e a condizione che la remunerazione degli investimenti sia non speculativa. Gli investitori e i finanziatori coinvolgibili possono essere pubblici (anche con alienazione di unità Erp: ogni 4 unità alienate – con grande soddisfazione delle famiglie attualmente locatarie se ne potrebbero metterne 10, oggi vuote, per nuove famiglie in affitto a canoni sostenibili); privati (Fia per parte dell’equity e banche per mutui di lungo termine); le famiglie (azionariato etico diffuso). Ciò potrebbe dare l’avvio non solo ad una politica abitativa di tipo strutturale, ma anche ad un’operazione in grado di porre le condizioni per iniziare la riduzione della diseguaglianza nel Paese. Una svolta dell’azione politico-amministrativa tanto annunciata dal nuovo Presidente del Consiglio e non ancora evidente, stando ai contenuti del recente dl sul “piano casa”.