L’Italia ha bisogno di un vero e proprio Piano interno per ristrutturare il suo sistema economico-sociale. E il sistema di welfare, se opportunamente adeguato alle esigenze della crescita, potrebbe dare un valido contributo
Innanzitutto grazie per l’invito che ho accolto con piacere.
Nel mio intervento in primo luogo, vorrei richiamare alcuni aspetti della crisi per evidenziarne i nessi con la distribuzione del reddito; quindi esaminerò come alcuni di questi nessi hanno operato nel processo unitario europeo e gli squilibri maggiori che hanno determinato. Da questi elementi d’analisi si possono derivare delle linee d’intervento: di tipo generale per le politiche comunitarie e più specifiche per l’Italia riguardanti lo stato sociale. Nelle conclusioni farò qualche riferimento al ruolo della politica e, in particolare, alle opportunità e ai problemi della sinistra.
Fin dall’inizio della crisi esplosa nel 2007-2008 – tra le più gravi delle economie capitalistiche in tempi di pace e la peggiore per l’Europa – era apparso chiaro che le sue cause non riguardavano solo il settore finanziario, che pure è stato particolarmente coinvolto, ma anche gli squilibri più strutturali del modello di crescita neoliberista che a partire degli anni ’80, è subentrato a quello keynesiano, che aveva sorretto il precedente trentennio della Golden Age.
Tra le motivazioni strutturali della crisi tre sono di particolare rilievo: la prima riguarda proprio il tema generale di questo Forum, cioè il sostanziale peggioramento della distribuzione del reddito; esso, oltre ad aumentare gli squilibri sociali, ha indebolito la domanda la cui dinamica ha avuto difficoltà crescenti ad equilibrare quella dell’offerta. I peggioramenti distributivi si sono verificati in connessione ai cambiamenti intervenuti nell’organizzazione e composizione della produzione, nella sua frammentazione territoriale estesa a livello globale e nei rapporti di forza tra le parti sociali, sia nei luoghi di lavoro sia negli equilibri politici e nelle scelte economico-sociali.
L’inadeguatezza della domanda è stata dunque favorita sia dalla riduzione della quota dei redditi da lavoro rispetto a profitti e rendite, i cui titolari hanno una minore propensione al consumo;
Lo squilibrio tra domanda e offerta ha stimolato la creazione di nuovi redditi e di corrispondente domanda generati dal settore della finanza e dalle bolle immobiliari, ma in un modo reso effimero e incerto per la riduzione della base concreta, sottostante la crescita e lo sviluppo economico. Da qui la crescente instabilità dell’economia e il rincorrersi di crisi locali e settoriali già negli anni ’90, fino alla crisi globale esplosa nel 2007-2008.
A questi motivi strutturali della crisi ha molto contribuito l’affermarsi della teoria economica neoliberista la quale, in evidente e crescente dissonanza con la realtà, continua a teorizzare la stabilità intrinseca della crescita generata dai mercati, purché essi siano liberati sia dai vincoli e dalla presenza invadente dell’intervento pubblico, sia da ostacoli alla flessibilità nell’uso dei fattori produttivi e di tutti i prezzi. In particolare, la stabilità della crescita sarebbe assicurata dalla flessibilizzazione della forza lavoro e dalla riduzione dei salari in presenza di disoccupazione. In effetti, queste condizioni sono state favorite dalla globalizzazione deregolamentata e, in particolare, dalla pressione competitiva alimentata dal dumping sociale delle economie emergenti.
Si sono dunque giustificate politiche di contrazione dell’intervento pubblico, anche in campo sociale, e di flessibilizzazione della forza lavoro e dei salari.
Questa schematica ricostruzione delle motivazioni della crisi, oltre ad evidenziare il ruolo negativo svolto dal peggioramento della distribuzione del reddito, evidenzia anche le connessioni tra la distribuzione e altri importanti aspetti del sistema economico sociale e politico quali: le modalità del processo di crescita e sviluppo, cioè come, cosa e dove si produce; i rapporti tra i mercati e le istituzioni e, non da ultimo per importanza, i rapporti di forza presenti nel mondo del lavoro e nella società i quali, peraltro, interagiscono con le visioni culturali che influenzano l’opinione pubblica e le scelte politiche.
La distribuzione del reddito è dunque inserita in un contesto economico sociale che non può essere trascurato per analizzare le sue modifiche, positive o negative, auspicate o temute.
Tornerò nelle conclusioni sulle responsabilità della politica; vorrei adesso esaminare come i collegamenti tra la crisi, la distribuzione e i fattori che la determinano abbiano operato in Europa e condizionato il suo processo d’unificazione.
Per l’Europa, il processo d’unificazione avrebbe dovuto e ancora potrebbe essere un punto di forza potenziale, capace di favorire la crescita e migliorare gli equilibri economici, inclusi quelli distributivi. Il passaggio da tante economie nazionali di dimensioni medie e piccole a una che sarebbe la più grande al mondo, attenuerebbe di molto il vincolo estero alle politiche di miglioramento della crescita e della distribuzione. La creazione di una federazione europea ridurrebbe l’attuale soggezione delle istituzioni nazionali ai mercati globali; le scelte collettive migliorerebbero la loro efficacia e la capacità interattiva con quelle individuali.
Purtroppo, le modalità controproducenti del processo unitario – e, in particolare, l’inadeguatezza delle sue istituzioni rispetto ai mercati – stanno rendendo il nostro continente il luogo della manifestazione più accentuata della crisi e ne ostacolano il superamento anche nel resto del mondo.
Negli ultimi decenni, l’Unione europea è stata diretta dalla visione neoliberista che considera le istituzioni un intralcio ai mercati; ciò spiega le carenze della dimensione istituzionale nella costruzione europea e il prevalere della strategia di affidarla essenzialmente alle unificazioni dei mercati e delle monete – che avrebbero dovuto trainare l’intero processo.
Invece sono state gravemente trascurate le politiche fiscali, produttive e sociali che sono più efficaci e comunque necessarie a perseguire la convergenza tra le differenze territoriali.
L’unificazione monetaria, eliminando la possibilità di compensare le disomogeneità dei sistemi produttivi tramite modifiche del tasso di cambio, ha richiesto un diverso aggiustamento degli squilibri; il loro onere si è concentrato sui paesi più deboli ai quali sono state imposte politiche di “rigore” che implicano una diminuzione relativa dei loro redditi e/o dei prezzi i cui effetti, tuttavia, non solo sono più dolorosi per chi li subisce, ma propagano effetti recessivi anche verso le economie più forti, abbassando la crescita media dell’Unione.
Una unificazione economica richiede che i paesi più arretrati recuperino il loro ritardo crescendo più della media; tuttavia, questa consapevolezza – che pure era stata sentita e praticata dalle autorità della Germania dell’Ovest in occasione dell’unificazione tedesca – non ha trovato sufficiente spazio nel processo unitario europeo.
La crisi, che avrebbe dovuto trovare nel processo unitario un elemento di freno, è stata invece accentuata dalla governance macroeconomica comunitaria che è risultata molto meno efficace di quella statunitense sostenuta da un assetto istituzionale più coeso.
Nei cinque anni di crisi dal 2008 al 2012, il Pil nell’Unione europea è mediamente calato dello 0,6% mentre negli USA – dove pure la crisi è esplosa – è aumentato del 3,6%. Il tasso di disoccupazione nell’Unione è mediamente aumentato del 3,4% mentre in Usa del 2,3%.
Ma l’aspetto ancor più preoccupante delle politiche comunitarie di contrasto alla crisi è l’aumento delle divergenze tra le situazioni economiche dei paesi membri.
La Oxford Economics segnala che con l’inizio della crisi, il suo indice sulla convergenza economica dei paesi euro sta diminuendo; le distanze tra le situazioni economiche nazionali stanno dunque crescendo e si prevede che la tendenza proseguirà anche nel 2014 e che solo nel 2018 si tornerà ai valor dell’indice dei primi anni 2000.
Dai dati Eurostat emerge che, fatto pari a 100 il Pil pro capite a parità di potere d’acquisto della media europea, tra il 2007 e il 2012 sono cresciuti i valori, già superiori alla media, di paesi come la Germania (+6), l’Austria (+6), la Norvegia (+14), la Svizzera (+15), il Belgio (+3) e la Danimarca (+2); invece sono diminuiti i valori di paesi come l’Irlanda (-16), la Grecia (-15), la Spagna (-8), l’Italia (-5), il Portogallo (-4). Va segnalato che riduzioni ci sono state anche in paesi come l’Olanda (-4) e la Finlandia (-3), ma nell’ambito di una tendenza media al peggioramento, la crisi ha esercitato i suoi effetti peggiori sui paesi che già erano più in basso nella classifica delle condizioni economiche.
Le politiche per la crescita e per la coesione sociale – che se ben calibrate interagiscono positivamente – sono state subordinate al “rigore” finanziario invocato per i bilanci pubblici, seguendo un approccio ideologico controproducente rispetto agli interessi generali.
I disavanzi statali di cui oggi si chiede il risanamento come precondizione anche etica per riavviare la crescita, sono stati generati o significativamente ampliati dal trasferimento sui bilanci pubblici dei disavanzi privati a loro volta generati da comportamenti finanziari molto poco “rigorosi”, ma giustificati e stimolati dalla stessa visione teorica neoliberista.
Nelle politiche comunitarie, vincoli di tipo ragionieristico – opportuni in ambito aziendale, ma proprio li disattesi, specialmente nel settore finanziario – hanno impropriamente prevalso rispetto alla logica macro economica, sociale e politica indispensabile per realizzare l’unione economica di un continente.
Il prevalere di questo approccio ha determinato pericolose asimmetrie istituzionali con effetti penalizzanti mal distribuiti tra i singoli paesi membri e negativi per il complessivo progetto unitario.
A tutt’oggi l’unica istituzione della UE con poteri autonomi dagli stati nazionali è la Banca Centrale Europea; naturalmente andava fatta, ma è stata creata prima dello stato federale cosicché la sua indipendenza arriva al punto di non avere affatto un governo di riferimento.
Allo stesso tempo, ciascun paese dell’area Euro, non avendo più una banca centrale prestatrice d’ultima istanza, è venuto a trovarsi in una situazione di debolezza strutturale rispetto agli altri sistemi economici, ai mercati e alla speculazione internazionale.
Inoltre, essendo la BCE guidata dal solo compito assegnatole di salvaguardare la stabilità dei prezzi – e non anche di sostenere l’occupazione come avviene per la Fed americana – quest’ultimo obiettivo non trova nella UE nessuna istituzione responsabile.
Mancando un’autorità che manovri la politica fiscale, siamo al paradosso che a livello comunitario gli obiettivi della crescita e dell’occupazione possono essere perseguiti solo con lo strumento meno idoneo quale è la politica monetaria.
Ma l’ortodossia comunitaria condiziona negativamente anche le politiche fiscali nazionali e la loro convergenza. Il Trattato di Stabilità e l’obbligo d’inserire nelle costituzioni nazionali il vincolo del bilancio in pareggio sono esempi di questa visione che si traducono in una governance economica errata con effetti recessivi per tutti e controproducenti rispetto al processo unitario.
All’asimmetrico rigore finanziario – applicato molto ai bilanci pubblici e poco a quelli privati – è andato aggiungendosi il ritorno di ataviche idiosincrasie nazionali.
A quest’ultimo riguardo, tipica è la pretesa illogica (una vera e propria fallacia di composizione) di volere estendere il modello export-led tedesco all’intera economia dell’UE che, diventando la più grande del mondo, non potrebbe avere un attivo commerciale strutturale e duraturo senza una corrispondente posizione debitoria nel resto del mondo, il ché creerebbe tensioni economiche e finanziare ancora più destabilizzanti di quelle che stanno caratterizzando l’attuale crisi globale.
Persistono poi, anche se al momento sono solo latenti, ingiustificate preoccupazioni inflazionistiche derivanti dal ricordo di crisi passate – come quelle della Repubblica di Weimar e della stagflazione che, tuttavia, rispetto alla crisi attuale, avevano motivazioni completamente diverse, collegate a problematiche operanti prevalentemente dal lato dell’offerta anziché, come avviene oggi, a carenze riguardanti l’entità e la stabilità della domanda.
Nelle scelte comunitarie c’è anche una pericolosa miopia politica. L’evidenza che i vincoli e le sanzioni dipendono dai rapporti di forza intergovernativi sta riducendo l’entusiasmo popolare per la costruzione europea. Naturalmente, in un processo unitario, la devoluzione dei poteri è nell’ordine delle cose; ma assume connotazioni preoccupanti e genera contrarietà se, come sta avvenendo, sposta la sovranità verso istituzioni comunitarie non altrettanto rappresentative di quelle nazionali.
Si potrebbe dire molto altro sugli errori e le incertezze che stanno accompagnando la costruzione europea; tuttavia essi non intaccano tre importanti considerazioni:
Credo che oggi non si possa essere coerentemente progressisti – e, dunque, anche coerentemente pacifisti – se non si è convinti della necessità dell’Unione Europea e che essa si dia istituzioni democraticamente rappresentative nelle quali sarà più facile battersi per superare la visione austero-liberista e le tendenze nazionaliste più o meno consapevoli esistenti anche tra chi si ritiene progressista.
Sulla base di queste analisi, una prima serie di indicazioni sul che fare è la seguente: la crisi, avendo caratteristiche strutturali e dimensioni epocali, richiede – per essere superata in una direzione di progresso – un nuovo assetto economico, sociale e istituzionale radicalmente diverso da quello neoliberista affermatosi nell’ultimo trentennio; esso deve fondarsi:
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Su una distribuzione del reddito più equa; non solo per motivi etico-sociali giustificati in sé, ma perché necessaria a ristabilire una dinamica della domanda più sostenuta e stabile e capace di equilibrare la capacità d’offerta.
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La distribuzione non migliorerà senza una ripresa della crescita e senza una sua riqualificazione qualitativa che riguarda sia il cosa produrre sia le tecniche produttive sia le relazioni contrattuali. Il miglioramento della qualità sociale e ambientale dei processi produttivi deve costituire la nuova variabile indipendente, il vincolo e lo stimolo del nuovo assetto socio-economico.
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I cambiamenti richiesti all’assetto produttivo e distributivo avranno bisogno di rimodulare le relazioni tra l’operato dei mercati e quello delle istituzioni. La globalizzazione dei primi presenta aspetti positivi da non perdere e comunque sarebbe pericoloso pensare di fronteggiarne i difetti con politiche nazionali tese a ricondurre i mercati negli ambiti circoscritti di ciascun paese. Questa strada è stata già seguita in passato dopo i processi di globalizzazione che c’erano stati alla fine dell’Ottocento e nel primo decennio del Novecento, ma il perc rso che si avviò allora portò ai disastri della prima metà del secolo scorso.
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In Europa, il rafforzamento della capacità delle istituzioni rispetto ai mercati può e deve avvalersi del suo processo di unificazione; anzi ogni sua interruzione sarebbe controproducente dal punto di vista economico, sociale e politico.
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La costruzione europea deve recuperare la priorità dei suoi aspetti istituzionali anche nell’impianto della sua struttura economica. Le politiche per la produzione, quelle fiscali e quelle sociali, le regolamentazioni dei mercati a cominciare da quelli finanziari devono affiancarsi alla politica monetaria, ristabilendo il ruolo strumentale della finanza – comunque importante – rispetto al settore reale dell’economia.
Insistere sull’impegno per la costruzione europea non significa sottovalutare la necessità e gli spazi per politiche e istituzioni più efficaci anche a livello nazionale.
Altre relazioni analizzeranno specificamente la situazione italiana e in particolare gli aspetti distributivi.
Voglio solo sottolineare che, nell’ambito della crisi delle economie avanzate, l’evoluzione negativa di quella italiana è particolarmente accentuata per diversi motivi.
Queste circostanze confermano che l’Italia ha particolarmente bisogno di un vero e proprio Piano interno per ristrutturare il suo sistema economico-sociale.
Si tratta di un compito che non è alla portata delle sole forze di mercato; il sistema produttivo privato per recuperare i ritardi ha bisogno di un sostegno pubblico, ma questo deve essere efficiente ed efficace.
Il sistema di welfare, se opportunamente adeguato alle esigenze della crescita, potrebbe dare un valido contributo.
Nel Rapporto sullo Stato Sociale 2013 presentato due mesi e mezzo fa alla Sapienza ci sono diverse proposte concrete che vanno in questa direzione.
Esse sono in discussione anche nella Cgil, nella Fiom, in ambiti politici e tecnici. Per alcune sono in corso progetti legislativi che incontreranno resistenze e, dunque, avranno bisogno di sostegno dentro e fuori il Parlamento.
Non è possibile adesso entrare nel dettaglio di ciascuna di queste proposte e del confronto in corso su di esse, ma vorrei almeno accennarne qualcuna
A. In campo pensionistico occorre fare il punto sui ruoli della previdenza pubblica a ripartizione e di quella privata a capitalizzazione.
La crisi finanziaria dovrebbe avere definitivamente chiarito che la seconda, offrendo prestazioni più incerte e costose, può svolgere solo un ruolo aggiuntivo e non sostitutivo della prima.
La stessa Banca Mondiale, che in passato ha favorito la diffusione dei fondi a capitalizzazione, a partire dal Cile di Pinochet e dei Chicago boys, ha dovuto rivedere la sua posizione.
Adesso bisognerebbe prenderne atto specialmente in paesi come il nostro, dove –oltretutto – le carenze del sistema produttivo e borsistico inducono i fondi a canalizzare verso l’estero il nostro risparmio previdenziale.
Tuttavia occorre vincere gli interessi finanziari i quali, peraltro, sono difesi dai neofiti impiegati in questo settore che trovano ascolto anche nelle rappresentanze della sinistra.
Nella previdenza pubblica occorre ripristinare meccanismi di solidarietà interna e darle la possibilità di fornire una sufficiente copertura pensionistica a tutti i lavoratori con una lunga permanenza nel mercato del lavoro, indipendentemente dai periodi di disoccupazione involontaria che andrebbero coperti da contribuzioni figurative.
In ogni caso, vanno eliminati i danni della riforma Monti-Fornero, a cominciare dagli “esodati”, e va recuperata la flessibilità attuariale dell’età di pensionamento.
Riguardo agli aspetti finanziari, faccio presente che dopo le riforme del 1992 e del 1995, già dal 1996 e poi stabilmente dal 1998, il sistema pensionistico pubblico presenta un saldo attivo annuo tra contributi e prestazioni previdenziali al netto delle imposte che attualmente è pari all’1,5% del PIL cioè circa 24 miliardi di euro.
La scelta politica fatta negli ultimi anni è stata di trasferire risorse dal mondo della previdenza che pure è in attivo al resto del bilancio pubblico, ma al prezzo di abbassare le prestazioni, specialmente quelle future, spingendo anacronisticamente verso la previdenza privata che è fiscalmente incentivata.
B. In ogni caso ciascun lavoratore che voglia incrementare la sua pensione obbligatoria dovrebbe poter scegliere liberamente tra tutti i canali previdenziali esistenti; dunque non solo – come oggi è limitato a fare – aderendo ai fondi privati, ma anche incrementando la copertura pensionistica dello stesso sistema pubblico, aumentando, nella misura e per il tempo preferiti, l’aliquota contributiva.
Il metodo contributivo si presterebbe benissimo a questo ulteriore compito che non richiederebbe nessun costo gestionale aggiuntivo, con evidente vantaggio per le prestazioni.
Questo nuovo canale di previdenza complementare, potrebbe stimolare una quantità maggiore di risparmio previdenziale e dovrebbe poter coinvolgere il TFR e i contributi delle imprese.
L’uso di questa nuova opzione avrebbe un effetto finanziario di particolare rilievo.
Ipotizzando che le iscrizioni ai fondi pensione rimangano all’attuale 25% degli aderenti potenziali e che del rimanente 75% solo un quarto decida d’incrementare la copertura del sistema pubblico, ci sarebbe un aumento delle entrate annue del bilancio pubblico di circa 8-9 miliardi di euro che potrebbero aggiungersi ai fondi per finanziare lo sviluppo economico-sociale di cui si dirà nella successiva proposta.
In ogni caso, questa misura aumenterebbe la copertura pensionistica e migliorerebbe il bilancio pubblico.
C. Un’ulteriore proposta parte dalla constatazione che tutti i fondi pensione attualmente gestiscono un patrimonio di oltre 100 miliardi di Euro; esso cresce annualmente di circa 12 miliardi, ma il 70% è allocato all’estero e solo lo 0,8% viene investito in azioni italiane.
Fermo rimanendo il compito primario dei fondi di garantire al meglio la pensione ai loro iscritti, sarebbe auspicabile che una parte maggiore delle risorse da essi gestite rimanesse nel nostro paese e contribuisse a migliorare le sue strutture produttive e sociali.
A tal fine, sindacati, imprese e stato potrebbero concordare nuove possibilità d’impiego dei fondi pensione costituite da attività creditizie verso lo stato pensate ad hoc, al fine di perseguire due obiettivi collegati:
Inoltre, potrebbero essere gestiti senza costi d’intermediazione per gestori finanziari a beneficio delle prestazioni.
Stato e parti sociali, collaborerebbero nella definizione di un Piano di sviluppo economico e sociale del Paese nonché di ampliamento della democrazia economica istituzionale, utilizzando risparmio previdenziale raccolto dai fondi pensione che beneficerebbero di rendimenti più stabili.
D. L’assetto attuale di regolamentazione e controllo della previdenza complementare richiede anche altri importanti aggiustamenti che nel Rapporto vengono dettagliati; comunque occorre un ripensamento dell’azione di controllo e vigilanza del settore svolta dalla COVIP che, peraltro, è in una fase di ristrutturazione degli organi.
E. Un’altra proposta presente nel Rapporto riguarda il nostro sistema sanitario.
La nostra spesa sanitaria pro capite, è inferiore del 22% alla media europea e del 32% al valore tedesco.
Ciò nonostante, per il triennio 2012-2014 sono previsti ulteriori tagli per un totale di 27 miliardi di Euro che renderanno ancora più difficile l’accesso alle cure sanitarie e la loro appropriatezza.
Peraltro, la nostra Costituzione stabilisce «livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale»1. Tra questi diritti, che devono essere assicurati dalla PA, c’è quello alla cura della salute.
Naturalmente, tale compito deve fare i conti con l’equilibrio dei bilanci pubblici, ma rimane che lo stato deve perequare i trattamenti nei vari territori del Paese, dunque travalicando le scelte regionali.
In effetti, la garanzia di un diritto di cittadinanza primario come la salute si concilia poco o nulla con il suo frazionamento locale.
Ciò è vero anche per ragioni di efficienza economica che individuano nell’offerta del bene salute economie di scala fruibili solo o più facilmente con la sua centralizzazione.
La regionalizzazione del sistema sanitario è una vera e propria incongruenza, accentuata dal fatto che i bilanci regionali sono venuti a trovarsi «ingombrati» per circa l’80% dalla spesa sanitaria la cui gestione, peraltro, è diventata l’epicentro della diffusa serie di comportamenti opportunistici operati dai politici locali.
Da un lato, liberare le Regioni dall’invadente e spesso inquinante amministrazione della spesa sanitaria favorirebbe i loro più congrui compiti di valorizzare lo sviluppo economico-sociale territoriale.
D’altro lato, ogni spreco nella gestione del sistema sanitario – come quelli generati dalla regionalizzazione ‒ pregiudica ulteriormente la sua efficacia.
Queste proposte specifiche vanno approfondite e discusse, ma mostrano che obiettivi politici progressisti di crescita, di sviluppo equo e sostenibile e di democrazia economica istituzionale possono essere perseguiti con progetti tecnicamente e finanziariamente compatibili, pur seguendo logiche del tutto estranee a quella dell’austerità.
Tuttavia, per l’affermazione concreta di idee e programmi innovativi è necessaria un’efficace interazione non solo tra mercati e istituzioni, ma anche di entrambi con la conoscenza organizzata e con la politica.
Purtroppo la gravità della crisi riguarda sia il carente funzionamento dei mercati sia la scarsa capacità della politica di governare le istituzioni e d’interagire con la conoscenza organizzata e col sistema produttivo.
La sinistra sarebbe la parte politica più attrezzata per affrontare positivamente la crisi perché le misure più efficaci per superarla sono anche quelle a lei più congeniali.
Basti pensare alla necessità di:
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migliorare la distribuzione;
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riequilibrare i rapporti tra mercati e istituzioni;
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riorientare la struttura dei consumi e i processi produttivi in funzione di più elevate priorità ecologiche e sociali.
Purtroppo anche nella sinistra si praticano comportamenti che giustificano la sfiducia nella politica diffusa nell’opinione pubblica. Anche le sue rappresentanze soffrono
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di autoreferenzialità e di esasperazioni identitarie e personalistiche
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di resistenza al rinnovamento e al merito come criterio di selezione,
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d’inadeguata percezione delle crescenti insofferenze sociali,
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di scollamento con la conoscenza organizzata e con i saperi diffusi.
Questi limiti pregiudicano la capacità di definire, proporre e realizzare progetti concretamente idonei a superare positivamente i vecchi equilibri economici, sociali e politici caduti in crisi.
Nella sinistra convivono poi diverse tendenze che non ne rappresentano la totalità, ma che riescono a paralizzarla e a frenarne i consensi nell’opinione pubblica:
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c’è una sinistra che si considera “responsabile”, ma che, invece, spesso scivola nel conformismo e nella saggezza convenzionale, e non capisce che proprio la crisi ha accentuato la necessità di cambiamenti sostanziali nell’assetto attuale; essa, prima ancora di valutare le mediazioni con i possibili alleati, annacqua il proprio progetto politico; ma in tal modo essa stessa lo depotenzia e lo rende meno credibile: è la paura di vincere
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c’è poi una sinistra che si sente “alternativa”, ma lo è più nello spirito e nella nostalgia che non nella capacità concreta di affrontare la complessità dei problemi strutturali della crisi globale dell’UE e del nostro paese; il quale rimane comunque la settima–ottava economia mondiale ed è uno dei principali membri dell’Unione Europea che rappresenta la prima area economica al mondo.
Queste tendenze vanno superate entrambe e ricomposte. La fase di transizione storica che stiamo attraversando offre e chiede alla sinistra di operare concretamente, ma coerentemente ai suoi valori resi attuali poiché essi coincidono con l’interesse generale.
Occorre poi tener presente che nemmeno in politica esiste il vuoto e quando si esso crea viene comunque riempito, anche con soluzioni regressive. Perché ciò non accada, la Sinistra deve affrettarsi ad assumere la responsabilità di classe dirigente, cioè
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consapevole della complessità dei problemi e dei vincoli esistenti
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e determinata nel superarli coerentemente ai propri valori di progresso.