Amos Cecchi, «Paul M. Sweezy. Monopolio e finanza nella crisi del capitalismo» (Firenze University Press). La vita e le idee del fondatore della Monthly Review perseguitato dal maccartismo. Da il manifesto.
Nel XX secolo, Paul Sweezy è stato uno dei principali critici dell’economia politica «borghese» e un acuto osservatore dei processi di metamorfosi del capitalismo prima fordista e poi finanziarizzato. È stato anche un grande divulgatore del pensiero alternativo, grazie soprattutto alla rivista Monthly Review, da lui fondata e diretta insieme a Leo Huberman.
Il libro di Amos Cecchi, Paul. M. Sweezy. Monopolio e finanza nella crisi del capitalismo (Firenze University Press, pp. 270, euro 24,90) ripercorre la vita dello studioso da studente e ricercatore ad Harward sino alla morte nel 2004. È la prima volta che in Italia si rende disponibile un libro così esaustivo e ricco su un pensatore di impostazione marxiana, aperta e creativa, in continua dialettica con l’alta elaborazione del XX secolo. Particolarmente interessanti sono i primi capitoli sulla permanenza ad Harward del giovane Sweezy, in un ambiente interdisciplinare, dove, pur essendo Harward uno dei bastioni della cultura mainstream americana, è possibile dialogare con studiosi del calibro di Schumpeter, Samuelson, Galbraith. Un ambiente variegato e stimolante quale dovrebbe essere quello universitario e che oggi, in tempi di specializzazione estrema e conformismo ideologico mainstream, è impossibile da ritrovare.
È IN QUESTO AMBITO, che Sweezy inizia a studiare la forma oligopolistica di mercato. Perseguitato dal maccartismo negli anni Cinquanta, Sweezy abbonda l’università ma non la sua impostazione marxista, sulla quale produce un testo (Teoria dello sviluppo capitalistico, 1942) che rappresenterà per molti studiosi (tra i quali chi scrive) uno strumento fondamentale per la comprensione del pensiero marxiano. Ma è nel 1966 che Sweezy, insieme all’amico e coeditore della Monthy Review, Paul Baran, pubblicherà il libro che gli darà fama: Il capitale monopolistico. dedicato a Che Guevara. Il sottotitolo, «Saggio sulla struttura economica e sociale americana», rende chiara la definizione dell’economia statunitense al massimo apogeo del paradigma fordista della grande impresa manageriale, in grado di sfruttare i rendimenti crescenti di scala e la gerarchia di mercato.
Da lì a poco, a seguito della distorsione nella struttura dei costi, causata dal crescente peso dei costi di transizione, e della saturazione della domanda nei settori dei beni durevoli, comincerà a declinare il ruolo egemone e trainante della grande corporation, avviando un processo di ristrutturazione che si dipanerà per tutti gli anni Settanta e Ottanta. La crisi della grande impresa è anche la crisi dell’egemonia economica americana, messa già in discussione dai movimenti di liberazioni anti-imperialistici e dalla crisi del dollaro, che porterà al collasso del sistema di Bretton Woods. L’economia Usa si rivela per quello che è: un colosso dai piedi di argilla, il cui tallone d’Achille viene evidenziato dalla crisi debitoria e finanziaria.
È in questa fase, che Sweezy incontra Minsky, altro grande teorico critico e sostenitore della strutturale instabilità di un’economia monetaria di produzione come è quella capitalistica. La contraddizione sta in uno degli assiomi fondanti della crescita economica: non c’è accumulazione senza indebitamento. E uno dei fattori della crisi fordista, stando alle analisi di Minsky, è stato proprio l’eccessivo indebitamento privato (oltre che pubblico) per mantenere in vita impianti produttivi oramai troppo grandi.
LA FINANZIARIZZAZIONE dell’economia è stata uno dei processi che sono stati avviati per consentire una maggior flessibilità nell’utilizzo delle risorse finanziarie. La centralità del mercato del credito ha lasciato sempre più spazio a quella dei mercati finanziari, sempre più liberalizzati e deregolamentati, soprattutto a partire dagli anni Ottanta.
Nella riflessione di Sweezy tale tendenza, lungi dal creare un fattore di maggior stabilità, rischia di provocare l’effetto opposto. Il primato dei mercati finanziari, anche a seguito delle innovazioni dei derivati, si fonda sull’attività speculativa, spesso sganciata da qualsiasi riferimento all’economia reale e dipendente dalla volatilità delle aspettative. Ne consegue, che una volta resasi autonoma e collocatosi al centro del sistema, la finanza accresce l’instabilità, l’insostenibilità e l’esposizione alla crisi.