Solo l’aumento della spesa pubblica può rimettere in moto la domanda. È quello che hanno fatto Usa e Cina ed è quello che l’Europa ostinatamente si rifiuta di fare, autocondannandosi al declino
Sembra che nel dichiarare guerra alla disoccupazione il governo italiano abbia finalmente preso atto di una semplice verità: i posti di lavoro sono scomparsi perché il fatturato delle imprese è crollato – e senza domanda, non c’è lavoro. Da qui nasce il provvedimento che riduce il prelievo fiscale sui lavoratori dipendenti per dare una mano alla ripresa dei consumi. Renzi avrebbe preferito poterlo fare senza vincoli sul rapporto deficit/Pil, ma dovrà rassegnarsi a farlo tagliando contestualmente la spesa pubblica. Dovrà insomma trovare risparmi di spesa sufficienti a finanziare la perdita stimata del gettito. Come ha ribadito il ministro Padoan, “tagli permanenti di tasse saranno finanziati da tagli permanenti di spesa”.
Non serve la sfera di cristallo per prevedere gli effetti strettamente legati a questa manovra. Molto semplicemente, qualcuno in Italia starà meglio e qualcun altro starà peggio. La riduzione della spesa (buona o cattiva che sia) comprime immediatamente redditi e risparmi del settore privato. D’altro canto, la riduzione dell’Irpef lascerà nelle tasche di qualcun altro più reddito e più risparmio. Crescerà la domanda interna? Poco o nulla. E anzi calerà, se una fetta di quel reddito redistribuito ai lavoratori dipendenti non dovesse essere spesa.
Sarebbe più efficace questa manovra se Renzi potesse sforare i limiti imposti dalle regole comuni sul disavanzo? Sì, ma solo marginalmente. Perché se i risparmi creati dalla riduzione fiscale saranno spesi in merci tedesche, crescerà il Pil della Germania e l’Italia si ritroverà presto col rapporto deficit/Pil di nuovo in allarme rosso.
Insomma, a parte i comprensibili obiettivi elettorali, l’impostazione del governo italiano sembra ancora legata a una visione del problema della disoccupazione che non va oltre il proprio orticello. E in questo Renzi in Europa è in buona compagnia. L’auspicio rimane quello che i leader europei (Renzi compreso) si muniscano di una lente con una focale diversa, in grado di abbracciare la questione complessiva dell’Eurozona (e dell’Unione Europea). Vediamo perché.
Come spiego in Salviamo l’Europa dall’austerità (Vita e Pensiero, 2014, pp.104, €10,00; E-book €6,99), il denaro in circolazione nell’economia può crescere solo in tre modi: 1) quando il settore privato aumenta il proprio debito con le banche, 2) quando il settore estero spende per i nostri prodotti più di quanto noi spendiamo per i prodotti esteri e 3) quando il settore pubblico spende di più di quanto incassa in forma di imposte. Fin qui la logica macroeconomica. Ora, nel caso europeo, quale fra queste è la strada più efficace?
L’opzione 1 (più credito bancario) non è realistica e la Bce non può fare quasi nulla: se la domanda è depressa, le imprese non investono, né le banche sono propense a rischiare. Tassi negativi e QE sono solo palliativi.
L’opzione 2 (più export) non è realistica nemmeno se la Bce riuscisse (e non è detto) a far scendere un po’ il valore dell’euro: non basterebbe a restituire quei sette milioni di posti di lavoro che mancano all’appello dal 2008, per non parlare dei 19 milioni di posti di lavoro che mancano complessivamente nell’Eurozona. Si dice: ma se fossimo tutti competitivi come la Germania? È la ricetta del presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. E non si sa se ridere o preoccuparsi (più la seconda). Significherebbe accontentarsi di prezzi più bassi per portar via fatturato agli altri, allargando a tutta l’Europa quella stessa strategia che la Germania ha potuto realizzare solo grazie al fatto che qualcun altro, altrove in Europa o nel mondo, alimentava il fatturato delle proprie imprese.
L’opzione 3 (più disavanzo pubblico) è il motore delle altre due, ed è il vero ed unico carburante della domanda. È quello che è venuto drammaticamente a mancare nel 2008. È quello che gli Stati Uniti hanno impiegato, pur col contagocce, per uscire dalla recessione. È quello di cui la Cina si è servita, in dosi massicce, per evitare la recessione globale. Ed è quello che l’Europa ostinatamente si rifiuta di impiegare, autocondannandosi al declino.
In Europa, prevale la convinzione (infondata) per cui il disavanzo pubblico è una sorta di “ripiego”, di “droga” da cui è bene stare alla larga pena l’assuefazione, l’inflazione o un’altra crisi finanziaria. Un punto di vista sbagliato che non tiene conto del fatto che la fonte ultima di denaro in circolazione nelle economie monetarie contemporanee è la spesa del settore pubblico che eccede gli introiti fiscali. Le uniche alternative possibili sono: portar via carburante agli altri importando meno di quanto esportiamo, oppure aumentare la resa del motore facendo crescere l’esposizione del settore bancario. Quanto alla politica monetaria, questa può assicurare stabilità alle banche e ai mercati rifornendoli di liquidità, ma si tratta pur sempre dell’olio che lubrifica il motore, non del carburante che lo fa girare.
Per l’Europa, insomma, si tratta di una scelta obbligata. Ma come lasciar crescere il disavanzo pubblico europeo in maniera economicamente e politicamente equilibrata?
Non certo concedendo a questo o a quel paese di sforare il tetto nazionale consentito. Dobbiamo smetterla di pensare all’economia italiana in contrapposizione alle economie degli altri paesi (e questo vale anche per i tedeschi, per i francesi, ecc. ecc.). È da questo vizio di fondo che discende una visione distorta della politica economica che certo non aiuta a sgarbugliare il filo della matassa. La moneta è unica, e il denaro circola liberamente nell’Eurozona.
Così come non sembra politicamente intelligente chiedere, come ha fatto Obama, che i paesi coi deficit pubblici più piccoli mettano a repentaglio le proprie finanze pubbliche per aiutare gli altri. Né possiamo accontentarci delle parole che Draghi pronuncia una volta al mese ripetendo che il risanamento delle banche e delle finanze pubbliche farà crescere la fiducia. Nemmeno i ricercatori più attenti della Bce ci credono, visto che alcuni di loro hanno scritto che la devastante crisi tedesca del 1931 fu causata dall’austerità.
E allora l’obiettivo deve essere, come spiego nel libro, quello di creare un “disavanzo pubblico europeo” finalizzato alla piena occupazione. Risolverebbe molti problemi assieme: dal rispetto dei vincoli nazionali, allo spread, al rilancio del credito bancario. È insomma indispensabile, e drammaticamente urgente, studiare una soluzione condivisa.