Occupazione e ambiente: due emergenze, un’opportunità. I costi e le concrete possibilità di intervento per creare lavoro nelle eco-industrie in Italia
Il 2009 si è chiuso con 15 milioni di disoccupati negli Stati Uniti e circa 23 milioni nell’Unione Europea. In entrambi i casi, il tasso di disoccupazione è prossimo al 10%. Dall’inizio della crisi sono stati persi più di 7 milioni di posti di lavoro negli Usa e più di 5 in Europa. Di fronte a queste cifre, parlare di fuoriuscita da politiche di sostegno all’economia o, con un eufemismo, di “rimettere a posto i conti pubblici” è semplicemente irresponsabile. Negli ultimi mesi dell’anno le borse sono tornate a crescere, le grandi istituzioni finanziarie (salvate a spese dei contribuenti) a fare profitti, il Pil a registrare un debole segno positivo, ma tutto ciò ha prodotto effetti nulli o assai modesti sul mercato del lavoro. Non a caso, quello che paventano gli osservatori e i governi più sensibili (una minoranza, purtroppo) è lo spettro di una “ripresa senza occupazione”.
Per provare a scongiurarla, il governo degli Stati Uniti ha avanzato un pacchetto di 155 miliardi di dollari (approvato il 16 dicembre dalla Camera ma ancora in forse al Senato) finalizzato alla creazione di posti di lavoro. In Europa, di simili interventi straordinari non se ne ha notizia. Eppure, anche gli osservatori più ottimisti non nascondono che le difficoltà occupazionali si protrarranno per tutto il biennio 2010-2011. Ne deriva che, nei prossimi due anni, i paesi della Ue si troveranno di fronte non solo il problema di trovare posti di lavoro per i giovani in cerca di prima occupazione (per non parlare dell’esigenza di elevare il tasso di occupazione delle donne!) ma di ricollocare 5 milioni di persone che il lavoro l’hanno perso.
In Italia, secondo l’Istat, il tasso di disoccupazione era dell’8.2% nell’ottobre 2009 (il dato peggiore dal 2004) e, quindi, le persone in cerca di occupazione avevano già superato la soglia dei 2 milioni (2 milioni e 39 mila, per la precisione). Considerando che negli ultimi due mesi dell’anno la situazione è peggiorata, che parecchi, tra giovani e donne, non cercano attivamente un lavoro e che una fetta di lavoratori in cassa integrazione non sarà riassunta è ragionevole assumere che, nei primi mesi del 2010, il numero di effettivi disoccupati sarà prossimo a 2 milioni e 200 mila unità. Ciò significa che, per tornare ad un tasso di disoccupazione “accettabile” del 6% (corrispondente a 1 milione e 500 mila individui) ci troveremo di fronte all’esigenza di (ri)collocare sul mercato del lavoro circa 700 mila persone. Tutto ciò va fatto nel più breve tempo possibile, cioè a dire entro i prossimi due anni, onde evitare che molte persone, soprattutto quelle meno giovani, restino intrappolate nella disoccupazione di lunga durata e, quindi, vedano diminuire la probabilità di assunzione.
Poiché, anche assumendo che la ripresa si dispieghi in modo sostenuto, il mercato lasciato a se stesso non garantisce affatto l’obiettivo di cui sopra, un governo che si rispetti non può disconoscere che quella occupazionale è una emergenza da affrontare urgentemente attraverso un piano (straordinario) di interventi pubblici. A mio avviso, tuttavia, è opportuno e possibile che tali interventi colpiscano congiuntamente gli obiettivi dell’occupazione e della tutela dell’ambiente, essendo quella ambientale un’altra impellente emergenza, non solo a livello nazionale ma globale.
Mi riferisco, quindi, allo sviluppo delle “eco-industrie”, un aggregato ampio di attività a cui il concetto di green economy dovrebbe rinviare. Secondo la definizione proposta da Eurostat e Ocse, le eco-industrie comprendono tutte le attività finalizzate alla produzione di beni e servizi che misurano, prevengono, limitano, riducono e correggono i danni ambientali causati all’acqua, all’aria e alla terra, così come i problemi legati ai rifiuti, all’inquinamento acustico e, più in generale, all’eco-sistema; esse includono le innovazioni nelle tecnologie pulite, nei prodotti e servizi che riducono i rischi ambientali, l’inquinamento e l’uso di risorse materiali.
Nel rapporto A Green New Deal for Europe (predisposto dal Wuppertal Institute e pubblicato nel settembre 2009; si veda, su questo sito, Matteo Lucchese, “Dall’economia dei disastri al Green New Deal”) viene stimato, per il 2004, il peso delle eco-industrie sul Pil dei paesi europei (osservando le stime relative al 1999, si può inferire che il peso sull’occupazione totale sia pressoché identico). Esso è pari al 31% per la Germania, seguita dalla Francia con il 21% mentre la media Ue si attesta sul 14%. L’Italia risulta al di sotto della media con un peso delle eco-industrie pari a circa il 9%. Ponendosi il traguardo minimale di raggiungere la media Ue nei prossimi due anni, i posti di lavoro che potrebbero essere creati in Italia nel settore della green economy sarebbero circa 140 mila, vale a dire il 20% dei 700 mila di cui il paese avrebbe bisogno per tornare, nel 2012, a condizioni occupazionali accettabili.
L’impatto quantitativo dell’intervento sarebbe quindi rilevante. Per verificarne la fattibilità occorre però valutare l’entità della spesa pubblica necessaria alla sua realizzazione. A questo fine, possiamo prendere come riferimento la legge 488/92 (con la quale il ministero dello Sviluppo Economico sostiene, tramite contributi in conto capitale, gli investimenti delle imprese nelle aree depresse): nel 2007 il costo medio pubblico per ogni nuovo addetto generato dagli investimenti agevolati da questo strumento ammontava a 40 mila euro (si veda l’articolo di Claudio Tucci, “Rischio revoca per il 37% dei progetti incentivati dalla 488”, pubblicato su Il Sole 24 Ore del 29/11/2007). Possiamo quindi supporre che per ogni posto di lavoro creato occorrano, attualmente, 50 mila euro di contributi pubblici a fondo perduto. La spesa pubblica complessiva per attivare 70 mila posti di lavoro in un anno sarebbe pari a 3 miliardi e mezzo di euro. Questa potrebbe essere sostenuta per 2 miliardi dal governo centrale mentre la parte restante sarebbe a carico delle regioni italiane che, di fatto, gestirebbero gli interventi. Per far fronte alla loro quota, le regioni potrebbero, da un lato, destinare alle eco-industrie una frazione maggiore dei Fondi Strutturali di cui dispongono per il periodo 2007-2013 e, dall’altro, mobilitare risorse aggiuntive (in modo autonomo o partecipando ai progetti comunitari nei settori dell’energia e dell’ambiente). Dal punto di vista del governo centrale, la spesa annuale ammonterebbe allo 0.16% del PIL, una frazione modesta che potrebbe essere finanziata con le modalità proposte da Sbilanciamoci! per la Finanziaria 2009 (la presente proposta, in effetti, può essere vista come un’ulteriore specificazione di quelle già avanzate in quel documento sui temi dell’occupazione e dell’ambiente).
Stabilita la rilevanza quantitativa e la fattibilità finanziaria dell’intervento, è opportuno aggiungere qualche riflessione qualitativa. Coniugare gli obiettivi dell’occupazione e dell’ambiente significa far fronte a due diverse emergenze, la prima di breve e l’altra di lungo periodo. Significa, in altre parole, trasformare la crisi attuale in una opportunità e, quindi, avviare un processo di cambiamento strutturale dell’economia al fine di renderne sostenibile lo sviluppo futuro. Per un paese come il nostro, troppo fossilizzato su specializzazioni tradizionali, significa anche diversificare maggiormente le attività produttive. In questo senso, accrescere il peso delle eco-industrie è anche un obiettivo di politica industriale. Infine, esso si sposa particolarmente bene con l’esigenza di far fronte alla crisi occupazionale. Infatti, le eco-industrie comprendono attività ad alta intensità di lavoro che richiedono diversi livelli di professionalità: non solo qualifiche alte da destinare alle “eco-innovazioni”, ma anche medie e basse da impiegare, ad esempio, nel recupero e riciclaggio di materiali o per rendere le abitazioni e gli impianti industriali meno inquinanti e più efficienti dal punto di vista dei consumi energetici. Per svolgere queste mansioni occorrono certamente nuove competenze che però non sostituiscono ma si cumulano a quelle esistenti. Di conseguenza, le persone che sono state espulse dai settori dell’industria e dell’edilizia possono essere riqualificate in tempi relativamente brevi e a costi relativamente contenuti. E questo è un vantaggio non da poco considerando che, in buona parte, si tratta di soggetti non giovani ma, al tempo stesso, ben lontani dall’età pensionabile.