Mentre le industrie militari e degli idrocarburi macinano profitti record, si moltiplicano guerre e instabilità, si aggrava la crisi climatica, aumentano speculazione e disuguaglianze. Per scardinare il duopolio fossili-armi occorre una transizione verso un’economia decarbonizzata e demilitarizzata.
Il deludente esito della trentesima Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite sul Cambiamento climatico – la COP30 che si è di recente tenuta a Belém – ha mostrato ancora una volta quanto siano forti e organizzati gli interessi dell’industria fossile nel negoziato climatico internazionale. Nonostante l’evidenza scientifica abbia chiarito in modo inequivocabile che le emissioni derivanti dalla combustione di gas, petrolio e carbone siano la causa principale del riscaldamento climatico, la Global Mutirão Decision con cui si è chiuso il vertice brasiliano non contiene né accordi vincolanti, né una roadmap per l’uscita dagli idrocarburi.
Oltre all’impegno concreto per la decarbonizzazione, l’altra grande assente a Belém è stata la guerra. Nessun riferimento alla militarizzazione in atto a scala globale è entrato nelle decisioni finali, neanche per evidenziare la gravità dei danni ad ambiente e clima provocati dai conflitti. Nessun accenno al mancato obbligo di trasparenza e rendicontazione sulle emissioni del settore militare negli accordi sul clima, dal Protocollo di Kyoto in avanti, né all’enorme distrazione di risorse dal perseguimento degli obiettivi della transizione verde alla spesa per armi e difesa.
A partire da queste premesse, il contributo che segue intende illustrare la tesi secondo cui l’arretramento nel percorso della transizione ecologica ed energetica a cui stiamo assistendo dagli Stati Uniti all’Italia – passando per la Ue e la sistematica disarticolazione del Green Deal – non è un incidente di percorso o l’esito di un fallimento contingente delle politiche climatiche. Al contrario, è il risultato e l’espressione coerente del consolidamento di un capitalismo a “trazione fossile-militare”: una configurazione storicamente determinata del capitalismo in cui la dipendenza dai combustibili fossili e la crescente militarizzazione sono strutturalmente interconnesse.
In questo assetto, l’economia fossile non è solo una fonte primaria di emissioni climalteranti e di crisi ambientale, ma anche un fattore scatenante o un moltiplicatore di conflitti, shock dei prezzi energetici, competizione e instabilità geopolitiche. Tali dinamiche, a loro volta, creano le condizioni politiche ed economiche per l’espansione della spesa militare, la legittimazione del riarmo e il rafforzamento delle industrie belliche, in una spirale in cui guerra, idrocarburi e crisi climatica si alimentano reciprocamente.
Clima di guerra
Riavvolgiamo innanzitutto il nastro della memoria sul biennio 2022-23. In risposta alla crescente domanda legata all’insorgere delle guerre in Ucraina, prima, e a Gaza, poi, le cinque più grandi imprese belliche mondiali – Lockheed Martin, RTX, Northrop, Boeing, General Dynamics – hanno ricavato secondo il SIPRI quasi 400 miliardi di dollari dalla vendita di armamenti e servizi militari.
In Italia, la sola Leonardo – società a controllo pubblico con il Ministero dell’Economia come azionista di maggioranza – ha incassato oltre 25 miliardi di dollari. Le forniture per la Difesa coprono ormai circa l’80% della produzione industriale del gruppo italiano, i cui utili netti sono aumentati nel biennio di oltre il 20% rispetto alla media dei due anni immediatamente precedenti al Covid (2018-19).
I conflitti in Ucraina e a Gaza si inseriscono in un più ampio contesto di aumento di guerre e spese militari. Secondo il Global Peace Index, nel 2024, su 195 Paesi al mondo, 92 risultavano coinvolti in conflitti militari attivi. Il 2024 ha segnato anche il livello più elevato di conflittualità dalla Seconda guerra mondiale, con 56 guerre in corso. Questa tendenza è l’esito di una dinamica di lungo periodo: il numero dei conflitti globali è infatti quasi raddoppiato tra il 2010 e il 2022.
Non a caso, la spesa militare nel 2024 ha superato la cifra di 2.700 miliardi di dollari, con il maggiore incremento su base annua dalla fine della Guerra Fredda e un’impennata di quasi il 20% in soli tre anni. Tale spesa è aumentata in tutte le regioni del mondo, in particolare in Europa e in Medio Oriente. Al contempo, languono i finanziamenti necessari per affrontare la crisi climatica.
Secondo le Nazioni Unite reinvestire il 15% del totale, 387 miliardi di dollari, basterebbe a coprire i costi annuali di adattamento al cambiamento climatico nei Paesi in via di sviluppo. Tuttavia, le nazioni ad alto reddito continuano a destinare alla spesa militare risorse 30 volte superiori rispetto a quelle per il finanziamento climatico.
Così facendo, si depotenziano gli sforzi per il contrasto al climate change, soprattutto nelle regioni più povere, già fortemente esposte sia ai conflitti armati sia al degrado ambientale. In tal senso, la mancata riallocazione dei fondi dalla spesa militare alla cooperazione climatica rappresenta una scelta politica pericolosa e fallimentare, che ostacola una risposta efficace e giusta alla crisi climatica globale.
Nel rapporto a somma zero tra economia di guerra e transizione ecologica occorre poi considerare il peso della componente militare sulle emissioni climalteranti: le forze armate sono responsabili del 5,5% di quelle globali. In altri termini, se tutti gli eserciti mondiali fossero uno Stato, avrebbero la quarta impronta di carbonio più grande al mondo, superiore a quella dell’intera Russia e inferiore soltanto a quella di Stati Uniti, Cina e India.
È stato stimato che un aumento di un punto percentuale della spesa militare in rapporto al PIL sia associato a un incremento delle emissioni nazionali compreso tra l’1% e l’1,5%. Insieme all’impatto diretto sulle emissioni, la crescita della spesa militare favorisce l’espansione dei settori ad alta intensità energetica e fossile, rafforzando le posizioni di potere degli attori più emissivi e producendo effetti di spiazzamento sull’innovazione e gli investimenti per la decarbonizzazione.
Le guerre non producono solo morti e distruzioni, ma generano degrado ambientale di lungo periodo, attraverso deforestazione, inquinamento e depauperamento di risorse naturali essenziali, compromettendo sia gli ecosistemi sia i mezzi di sussistenza delle popolazioni. Tali impatti colpiscono in maniera sproporzionata le comunità vulnerabili, aggravando le disuguaglianze.
Nel loro insieme, tutti questi fattori alimentano un circolo vizioso tra conflitti e danno all’ambiente: il peggioramento delle condizioni ambientali – incluse la scarsità di risorse e gli sfollamenti indotti sia dai conflitti armati sia dal cambiamento climatico – contribuisce ad accrescere le tensioni sociali e geopolitiche, favorendo l’insorgere di nuovi conflitti che, a loro volta, accelerano ulteriormente il deterioramento degli ecosistemi.
Guerre, riarmo e militarizzazione minacciano il nostro ecosistema e alimentano il cambiamento climatico, compromettendo il cammino della transizione verde. La saldatura è evidente nel caso dell’Ucraina e di Gaza. In Ucraina, le emissioni di gas serra causate dalla guerra sono pari alla somma delle emissioni annuali di Austria, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia messe insieme.
Nella Striscia di Gaza si sta consumando una devastazione senza precedenti dell’ambiente e del territorio. Secondo l’UNEP, il conflitto ha prodotto oltre 61 milioni di tonnellate di detriti, una contaminazione e compromissione diffuse, rispettivamente, delle risorse e delle infrastrutture idriche, una distruzione senza precedenti degli ecosistemi terrestri, con la perdita di circa il 95% degli arbusti, il 97% delle colture arboree, l’82% delle colture annuali.
Il fronte fossile
Per completare il quadro, spostiamo lo sguardo dal settore militare a quello dell’economia fossile. Il 2022, con la sostituzione delle forniture russe, in particolare del gas, è stato l’anno dell’impennata globale dei prezzi energetici, accompagnata da una speculazione senza precedenti sul mercato degli idrocarburi. L’estrema volatilità dei prezzi si è scaricata, come è noto, sulle bollette di famiglie e imprese, mentre alcuni attori economici hanno registrato profitti record.
L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha definito il 2022 “un anno straordinariamente redditizio” per il settore fossile. I produttori di petrolio e gas hanno realizzato 4.000 miliardi di dollari di profitti, più del doppio della media degli anni precedenti. Nel biennio 2022-23, le cinque maggiori compagnie oil&gas private mondiali – BP, Chevron, ExxonMobil, TotalEnergies, Shell – hanno realizzato oltre 280 miliardi di dollari di profitti, producendo solo nel 2023 emissioni pari a circa il doppio di quelle del Brasile.
In Italia, sempre nel 2022-23, ENI (altra società partecipata dallo Stato) ha più che quadruplicato i propri profitti rispetto al biennio pre-Covid 2018-2019. I guadagni stellari, del resto, non riguardano soltanto i produttori, ma anche gli intermediari. I quattro maggiori trader globali di energia fossile – Vitol, Trafigura, Mercuria, Gunvor – hanno registrato nel 2022-23 oltre 50 miliardi di dollari di profitti, sette volte superiori a quelli ottenuti nel 2018-19.
La crisi energetica innescata dalla guerra in Ucraina, insomma, è stata – ed è tuttora – una straordinaria fonte di guadagno, con un massiccio trasferimento di risorse da famiglie e imprese verso gli operatori di petrolio, gas e carbone lungo tutta la filiera, dall’estrazione fino a raffinazione, distribuzione e trading.
Peraltro, lo shock del 2022-23 non ha rappresentato solo un problema passeggero di approvvigionamento, ma ha segnato l’ingresso dei mercati del gas in una fase strutturalmente più fragile, caratterizzata da forte instabilità geopolitica, riduzione della capacità di offerta flessibile e crescente dipendenza, come si vedrà anche più avanti, dal gas liquefatto (GNL).
In questo contesto, secondo la stessa Agenzia Internazionale dell’Energia, l’impennata dei prezzi non ha prodotto una risposta significativa sul lato dell’offerta, ma ha scaricato l’aggiustamento quasi interamente sulla domanda, attraverso distruzione dei consumi, crisi industriali e trasferimenti regressivi di reddito. Pur essendo tornato disponibile con il passare del tempo, il gas è risultato di fatto inaccessibile per molte famiglie e imprese.
Gli effetti della guerra in Ucraina hanno così messo in luce come l’attuale assetto dei mercati energetici, lungi dal garantire stabilità e sicurezza, tenda ad amplificare speculazione e conflitti distributivi, rafforzando quell’intreccio tra rendite da idrocarburi, instabilità geopolitica e disuguaglianze che costituisce uno dei pilastri del capitalismo a trazione fossile-militare a cui abbiamo fatto riferimento sopra.
Si tratta di una dinamica particolarmente evidente in Europa, dove l’aumento dei profitti delle compagnie oil&gas è trainato da effetti prezzo piuttosto che da investimenti o innovazione. La combinazione tra extraprofitti fossili e persistenza di elevati livelli emissivi implica inoltre un trasferimento dei costi climatici sulla collettività, senza peraltro che gli extra-margini generati siano reinvestiti nel processo di transizione energetica.
In tutto ciò, si ricordi che i Paesi con le più alte emissioni di gas serra – oggi come ieri – sono anche quelli con la più alta spesa militare. Non è una coincidenza, ma un elemento strutturale del modo in cui lo sviluppo e l’espansione dei combustibili fossili sono intrecciati alle dinamiche di militarizzazione: l’impiego di armi ed eserciti è storicamente legato all’accesso o al presidio di rotte e infrastrutture fossili strategiche, come oleodotti, terminali, aree di estrazione. Nel 2024, l’Italia ha destinato 840 milioni di euro ad attività militari di tutela e sicurezza legate a gas e petrolio.
Componendo tutti i frammenti finora raccolti emergono così i contorni di un’immagine che mostra come economia di guerra, dipendenza dai fossili, filiere industriali ad alte emissioni e speculazione finanziaria siano elementi legati l’uno all’altro. Per meglio dire, militarizzazione, cambiamento climatico ed economia fossile appaiono come parti funzionalmente integrate di uno stesso sistema.
Brutti affari
Se l’intreccio tra guerra, combustibili fossili e crisi climatica costituisce l’architrave del capitalismo a trazione fossile-militare di cui abbiamo parlato, la contrapposizione tra Green Deal e “War Deal” non può essere letta soltanto come una questione valoriale o ambientale. Essa investe innanzitutto una scelta di fondo riguardo all’allocazione delle risorse pubbliche: orientarle verso un’economia fondata sul nesso tra idrocarburi e riarmo, oppure verso un modello basato su decarbonizzazione e demilitarizzazione.
Il nodo si chiarisce osservandolo attraverso la lente degli effetti macroeconomici e occupazionali degli investimenti pubblici. In uno studio di Sbilanciamoci! e Greenpeace si stima che, in Italia, un miliardo di euro di spesa aggiuntiva in armamenti potrebbe portare a un aumento dell’occupazione di circa 3.000 unità, mentre la stessa somma investita su ambiente, sanità e istruzione genererebbe nuovi posti di lavoro da tre a quattro volte superiori.
Un’analoga dinamica si osserva anche per l’impatto sulla produzione nazionale: una spesa aggiuntiva di un miliardo di euro per l’acquisto di armi porterebbe a un aumento della produzione interna di soli 741 milioni, poiché gran parte della spesa andrebbe in importazioni dall’estero. Lo stesso investimento sulla protezione ambientale sarebbe invece in grado di generare un aumento della produzione interna pari a 1.900 milioni.
Le stime relative a Spagna e Germania contenute nello studio corroborano i risultati dell’Italia. Un altro report svela evidenze del tutto comparabili anche per gli Stati Uniti. Qui la spesa militare produce in media 5 posti di lavoro diretti e indiretti per ogni milione di dollari speso, quella nell’istruzione 13, quasi il triplo. La spesa sanitaria genera inoltre l’84% di posti di lavoro in più rispetto a quella militare, mentre infrastrutture ed energia pulita ne creano dal 24% al 64% in più.
Investire sulle armi non appare quindi come un “buon affare”, né sotto il profilo della sicurezza, né tanto meno sotto il profilo economico, produttivo e occupazionale. Eppure, oggi è in atto un rovesciamento delle priorità politiche e di spesa a favore della militarizzazione. In Europa, il nuovo quadro finanziario pluriennale 2028-2034 della Ue prevede circa 130 miliardi di euro per la difesa e l’industria militare, mentre il piano ReArm EU punta a mobilitare fino a 800 miliardi su tali capitoli. Una mole ingentissima di risorse che, grazie alla possibilità concessa agli Stati membri di attivare la clausola di emergenza, sono di fatto sottratte al rispetto del Patto di stabilità e crescita.
Il riarmo diventa così l’ambito nel quale l’Unione europea allenta regole di bilancio e cordoni della spesa pubblica, mentre impone vincoli e condizionalità stringenti su welfare, sanità e sistemi pensionistici. Lo stesso discorso vale per la transizione alla neutralità climatica, che in Europa richiederebbe circa 1.200 miliardi di euro l’anno di investimenti verdi fino al 2030, con un fabbisogno aggiuntivo stimato in 480 miliardi l’anno rispetto ai livelli attuali.
A questo si aggiunge il tema degli altissimi costi sociali ed economici legati alla dipendenza energetica dalle fonti fossili: negli ultimi dieci anni, le emissioni climalteranti attribuibili alle cinque più grandi compagnie oil&gas mondiali insieme a quelle dell’italiana ENI hanno generato danni economici cumulati per oltre 5.000 miliardi di euro. Per ENI, in particolare, il conto scaricato sulla collettività è di 460 miliardi di euro.
In altri termini, proprio quando la decarbonizzazione avrebbe più bisogno di interventi e investimenti strutturali, si procede in tutt’altra direzione: una direzione nei fatti contraria rispetto a quelli che dovrebbero essere gli stessi interessi economici e strategici europei. Le vicende dell’estate 2025 sono illuminanti in proposito.
Nella trattativa sui dazi americani, come si ricorderà, l’Unione europea non solo ha accettato praticamente senza riserve le volontà degli Stati Uniti, ma si è anche impegnata a investire 600 miliardi di dollari negli USA e, soprattutto, ad acquistare 750 miliardi di dollari di prodotti energetici americani entro il 2028, principalmente GNL e petrolio.
A questo proposito, è necessario ricordare che gli Stati Uniti sono in vetta alla classifica mondiale, oltre che per le spese militari, per l’emissione di CO2 pro capite, per la produzione petrolifera e per l’esportazione di gas metano e GNL. Sono, in altre parole, il motore del capitalismo a trazione fossile-militare. Il risultato della subalternità nei confronti di Washington è sotto gli occhi di tutti.
Come ha ricordato Mario Draghi a un anno dalla presentazione del suo Rapporto sulle sfide di crescita, competitività e sicurezza dell’Unione, a partire da marzo 2025 il gas naturale liquefatto sbarcato in Europa è costato tra il 60% e il 90% in più rispetto allo stesso gas negli Stati Uniti, anche tenendo conto dei costi di logistica e rigassificazione.
I prezzi del gas restano ancora quasi quattro volte superiori a quelli statunitensi, mentre quelli dell’elettricità sono in media più che doppi; al contempo, nel 2024 la spesa dell’Unione europea per importare combustibili fossili ha superato i 375 miliardi di euro: insomma, un’altra serie di pessimi affari. L’Europa avrebbe potuto e dovuto seguire una strada completamente diversa: la via della decarbonizzazione per affrancarsi dalla dipendenza dalle fonti fossili, e da interessi che non collimano con i propri.
Un conto salatissimo
Adottando questa chiave interpretativa, appare evidente come la partita della transizione non riguardi soltanto il clima e l’ambiente, ma investa più in profondità la sicurezza energetica, l’autonomia strategica e il futuro stesso dell’economia e dell’industria continentali. Nel frattempo, mentre le scelte politiche privilegiano il riarmo e la continuità del modello estrattivista fossile, il clima presenta un conto sempre più salato. Che non tutti pagano.
Ricordiamo innanzitutto che il 2024 è stato l’anno più caldo mai osservato, con concentrazioni di gas serra in costante crescita ed emissioni antropogeniche strutturalmente elevate. L’esposizione al caldo ha comportato a livello mondiale la perdita di 639 miliardi di ore di lavoro, equivalenti a 307 milioni di posti di lavoro a tempo pieno: per fare un paragone, i posti di lavoro a tempo pieno in Italia sono circa 15 milioni. Le potenziali perdite di reddito stimate superano i 1.000 miliardi di dollari, un valore paragonabile all’economia della Polonia.
Sul versante sanitario, secondo i dati del Lancet Countdown, nel 2022 il mancato passaggio a fonti energetiche pulite è stato associato a circa 2,5 milioni di morti premature dovute all’inquinamento atmosferico esterno da combustibili fossili e a circa 2,3 milioni di decessi riconducibili all’inquinamento dell’aria domestica legato all’uso di combustibili inquinanti, ad esempio carbone o combustibili liquidi.
Di fronte a questo scenario, è stato stimato che l’adozione di politiche climatiche efficaci, in grado di mantenere l’aumento della temperatura globale entro un grado e mezzo, potrebbe evitare entro il 2030 200.000 morti premature da inquinamento atmosferico e far risparmiare oltre 2.200 miliardi di dollari di danni economici.
Dietro tutti questi numeri vi sono effetti concreti sull’aumento delle disuguaglianze sociali e ambientali, in un intreccio sempre più stretto tra crisi climatica e crisi socioeconomica. Come mostra il Climate Inequality Report 2025, tali impatti non sono distribuiti in modo uniforme.
L’aggravarsi della crisi climatica procede di pari passo con una crescente concentrazione della ricchezza e delle emissioni, alimentata dalla proprietà e dal controllo di asset fossili e finanziari da parte di un’élite globale di super-ricchi. A livello globale, l’1% più ricco della popolazione è responsabile di circa il 41% delle emissioni legate alla proprietà privata del capitale, mentre la metà più povera del pianeta contribuisce per circa il 3%.
A sua volta, Oxfam stima che un individuo appartenente allo 0,1% più ricco del pianeta emetta in un giorno più CO2 di quanto il 50% più povero della popolazione mondiale faccia in un anno. Dal 1990, le emissioni dei super-ricchi sono cresciute del 32%, quelle della metà più povera si sono ridotte del 3%. I costi economici, sanitari e sociali della crisi climatica ricadono così sulla collettività, mentre i benefici del modello fossile continuano a concentrarsi nelle mani di una ristretta minoranza.
Italia a tutto gas
L’Italia è uno degli Stati europei più esposti agli effetti di questa duplice, convergente, crisi climatica e socioeconomica. Da un lato, ciò è dovuto alle sue caratteristiche geomorfologiche e idrogeologiche, insieme alla distribuzione di attività produttive e insediamenti sul territorio, che ne amplificano l’esposizione ai rischi; dall’altro, alla persistenza di un modello economico-energetico che continua a produrre vulnerabilità, trasferendo costi sociali elevati sulla popolazione.
Nel nostro Paese l’aumento delle temperature medie corre a una velocità doppia rispetto alla media mondiale. Il 2024 non è stato solo l’anno più caldo di sempre, ma anche quello con il record di eventi climatici estremi: oltre 3.600 episodi fra alluvioni, grandinate, tornado, raffiche di vento, una cifra quasi quadruplicata rispetto al 2018. L’impatto economico è enorme: secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente, tra il 1980 e il 2024, i costi complessivi per l’Italia hanno superato i 145 miliardi di euro. Soltanto i danni delle alluvioni di maggio 2023 in Emilia sfiorano i 9 miliardi.
Ancora più preoccupanti sono le proiezioni sulle finanze pubbliche italiane: se le politiche climatiche ed energetiche non dovessero cambiare rispetto a quelle oggi in vigore, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio stima che l’impatto annuale degli eventi estremi sulle casse dello Stato potrebbe arrivare al 5,1% del nostro PIL nel 2050. Si tratta di circa 100 miliardi di euro l’anno, l’equivalente della cubatura finanziaria di cinque Leggi di Bilancio come quella per il 2026-2028.
Nonostante la gravità di queste prospettive, le risposte sono del tutto inadeguate. Da un lato, in Italia sta crescendo a ritmo sostenuto la produzione di elettricità da rinnovabili, che nei primi sei mesi del 2024 ha superato per la prima volta quella da fonti fossili. Dall’altro, tuttavia, l’elettricità continua a essere molto più costosa del gas. Una delle cause principali – come mostra ECCO – è la presenza di oneri fiscali e parafiscali, come accise e oneri generali di sistema, che pesano in modo sproporzionato sulla bolletta elettrica di famiglie e imprese rispetto a quella del gas.
Nel settore domestico il carico sull’elettricità è tre volte più alto di quello applicato al gas naturale. Nel settore produttivo e industriale lo squilibrio è ancora più ampio, con un carico sull’elettricità di quasi sette volte superiore rispetto a quello sul gas. Questo rallenta la decarbonizzazione rendendo meno competitive le alternative elettriche pulite, come le pompe di calore, e sfavorisce le imprese che intendono elettrificare rispetto a quelle che rimangono ancorate al gas.
Applicando ai combustibili fossili lo stesso livello di imposizione dell’elettricità, emergono sussidi ambientalmente dannosi impliciti che ammontano a circa 6,8 miliardi di euro nel settore domestico e oltre 17 miliardi negli usi non domestici. In sostanza, il sistema di imposizione fiscale sull’energia in Italia frena l’elettrificazione e garantisce un sostegno occulto ai combustibili fossili – pari a quasi 24 miliardi di euro –, riducendo le entrate erariali e distorcendo i prezzi energetici.
A tutto ciò si aggiunge il modo in cui viene stabilito il prezzo dell’elettricità sul mercato, attraverso la cosiddetta “tecnologia marginale”. Il prezzo, cioè, non è determinato dalla fonte più economica – le rinnovabili –, ma dal produttore più costoso necessario a soddisfare la domanda residua. In Italia, tale ruolo è svolto dalle centrali a gas, che nel complesso producono poco più del 40% della nostra elettricità, ma che vengono attivate quando le rinnovabili non bastano a coprire la richiesta.
Di conseguenza, anche quando solare ed eolico producono energia a bassissimo costo, il prezzo finale riflette il costo del gas: un costo che, come si è visto, è elevato, volatile e dipendente dalla speculazione sui mercati internazionali. Il risultato è che nei primi dieci mesi del 2025 l’Italia ha registrato un prezzo medio all’ingrosso dell’energia elettrica di 116 euro per megawattora, quasi il doppio di Spagna e Francia. Le imprese pagano l’energia elettrica il 30% in più della media europea. Ciò penalizza la competitività e rallenta la transizione energetica del Paese.
Da qui la necessità di disaccoppiare i prezzi del gas da quelli dell’elettricità e di accelerare lo sviluppo delle rinnovabili. In proposito, ricordiamo che gli incentivi alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili sono cresciuti in modo significativo, passando da 7,1 miliardi di euro nel 2023 a 8,9 nel 2024, con una stima di 9,6 miliardi per il 2025. D’altro canto, l’Italia destina quasi 20 miliardi l’anno in Sussidi Ambientalmente Dannosi a favore delle fonti fossili.
Anche sul fronte delle emissioni i risultati sono quanto meno ambivalenti. Grazie alla crescita delle rinnovabili, le emissioni di gas serra sono diminuite di poco più di un quarto rispetto ai livelli del 1990. Eppure l’Italia è ancora lontana dal target europeo di riduzione del 55% entro il 2030 e resta tra i Paesi con la più alta dipendenza energetica dall’estero: nel 2024 è stato importato il 72% del fabbisogno complessivo di energia, in particolare gas e petrolio.
Guardando alla fattura energetica, nel triennio 2022-2024 l’Italia ha speso quasi 200 miliardi di euro per importare fossili: più di 112 per il gas, più di 83 per il petrolio. Nel solo 2024, il totale è di oltre 44 miliardi. Non si tratta soltanto cifre altissime. Questi dati indicano una fragilità strutturale: dipendere dagli idrocarburi significa rinunciare alla propria sicurezza e autonomia energetica, rimanendo esposti ai rovesci geopolitici e alla volatilità dei mercati, come mostra il caso della crisi energetica legata alla guerra in Ucraina.
Conclusioni
Nel complesso, il quadro fin qui descritto è quello di una decarbonizzazione che avanza a stento, ostacolata da un deficit di consenso politico, scelte deboli e contraddittorie, finanziamenti largamente insufficienti. È emersa, al contempo, l’evidenza di politiche pubbliche che continuano a privilegiare un modello di sviluppo fondato sull’intreccio tra dipendenza dagli idrocarburi e crescente militarizzazione.
Il risultato è un circolo vizioso in cui economia di guerra, economia fossile e crisi climatica si alimentano reciprocamente, producendo costi economici, sociali, sanitari e ambientali sempre più alti e insostenibili per la collettività, mentre i benefici si concentrano in poche mani. Questa dinamica si riflette direttamente nel modo in cui vengono allocate le risorse.
Sul versante energetico, si è visto come l’Italia sostenga generosamente il sistema fossile, con un esborso di oltre 88 miliardi nel solo 2024 tra importazioni di gas e petrolio e sussidi ambientalmente dannosi certificati e occulti. Oltre a rappresentare un notevole onere finanziario, ciò penalizza le rinnovabili e l’elettrificazione, consolidando un sistema energetico fortemente dipendente dall’import fossile ed esposto alla volatilità dei mercati e agli shock geopolitici.
Parallelamente, nel contesto di un’impennata degli investimenti in armi in tutto il mondo e di un allentamento dei vincoli di bilancio per la Difesa nella Ue, la spesa militare sta assumendo in Italia un ruolo sempre più centrale nella politica di bilancio e industriale, a scapito delle produzioni civili: nel 2026 tale spesa sfiorerà i 34 miliardi di euro, ed è previsto un significativo aumento nel prossimo triennio, pari a 23-24 miliardi aggiuntivi.
Nel 2026-2028, agli investimenti per la Difesa andrà oltre il 40% – più di 10 miliardi – del budget del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, all’interno di una programmazione che prevede oltre 130 miliardi destinati a nuovi sistemi d’arma nei prossimi 15 anni. Occorre qui ricordare che gli investimenti nel militare presentino moltiplicatori ben più bassi rispetto a quelli nell’ambiente, nell’istruzione e nella sanità, con effetti modesti su occupazione e produzione interna.
In quest’ottica, è insensato ritenere che la transizione sia “un lusso”. Al contrario, se adeguatamente finanziata e governata, con un ruolo centrale dell’attore pubblico, essa rappresenta l’unica politica di sicurezza integrata – socioeconomica, climatica e ambientale – che possiamo permetterci.
Investire in una giusta transizione significa assicurare la nostra autonomia energetica e ridurre l’esposizione alla volatilità dei prezzi, ai ricatti geopolitici e alla speculazione, rafforzando al contempo la capacità di risposta a una crisi climatica che presenta un conto sempre più salato in termini di compromissione della salute e degli ecosistemi, perdita di produzioni e lavoro, pressione sulle finanze pubbliche. Al tempo stesso, significa attivare una leva industriale strategica per sostenere la riconversione industriale e favorire la creazione di nuove filiere produttive.
Le risorse oggi assorbite da importazioni fossili, sussidi ambientalmente dannosi e spesa militare dovrebbero essere riallocate verso rinnovabili, efficienza energetica, elettrificazione, riconversione produttiva – accanto a piani di tutela ambientale, mitigazione e adattamento climatico –, garantendo l’occupazione e i salari e sostenendo con politiche attive i percorsi di formazione e riqualificazione di lavoratrici e lavoratori nei nuovi settori e professioni della transizione verde.
La nostra sicurezza non è garantita dalle armi, né dalla dipendenza da gas e petrolio. Continuare a finanziare combustibili fossili e spese militari non fa che consolidare un modello strutturalmente votato alla moltiplicazione di conflitti, crisi e disuguaglianze. Orientare le politiche pubbliche verso la decarbonizzazione e la demilitarizzazione è l’unica via per un clima migliore, un ambiente più salubre e un sistema socioeconomico più sicuro, giusto e sostenibile.
Il cammino della transizione passa inevitabilmente dal superamento del blocco fossile-militare che ne ostacola il passo.




