I conti non tornano/L’Italia ha finito per conseguire i minori tassi di crescita, i maggiori tassi di disoccupazione e gli aumenti più elevati di povertà e diseguaglianze
La sentenza della Corte Costituzionale sull’adeguamento delle pensioni, continua a suscitare reazioni di metodo e di merito. Su questi argomenti, alcune considerazioni sono già state svolte da chi scrive su il manifesto di sabato scorso; il protrarsi del dibattito suscita qualche ulteriore approfondimento.
Due aspetti particolarmente discussi sono le difficoltà che la sentenza causerebbe al rispetto degli obiettivi di bilancio pubblico e dei vincoli europei, e che essa dirotterebbe risorse agli anziani sottraendole ai giovani.
Sul primo argomento c’è chi insiste sull’inopportunità che la Corte possa alterare le scelte economiche e distributive del Governo. E’ una posizione che, indipendentemente dal merito, critica non solo la sentenza della Corte, ma il tratto distintivo del costituzionalismo moderno che delimita i poteri del Governo. Dopo di che una sentenza può essere commentata e discussa (anche se comunque va applicata). Naturalmente si può ben capire il disagio di un governo che, in un periodo disgraziato (che però non è frutto di una calamità naturale), nel quale una cifra inferiore a 1,5 miliardi di euro viene considerato un “tesoretto”, si trova a dover fronteggiare un improvviso onere di bilancio che può arrivare a circa 16,5 miliardi (più interessi e meno le ritenute fiscali). In questo contesto si può anche capire (non necessariamente giustificare), la preoccupazione di non incorrere in una procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea. Tuttavia, da un lato, i vincoli comunitari non hanno per noi una valenza più categorica della nostra Costituzione (come i tedeschi spesso ricordano per la loro); d’altro lato, il problema di bilancio dell’attuale governo deriva da scelte improvvide fatte da un altro governo, ovvero dalla riforma Fornero-Monti del 2011, di cui si capirono subito i numerosi elementi di “irragionevolezza” che, purtroppo, solo tre anni e mezzo dopo sono stati segnalati dalla Corte. Quella riforma in un colpo solo creò quasi 380.000 ”esodati” (anziani senza reddito da lavoro o da pensione a cui si sta cercando di provvedere con inevitabili oneri finanziari); ridusse il turn-over cosicché gli anziani costretti in attività ostacolano l’accesso dei giovani al lavoro; aumentò l’età media degli occupati, incrementando il loro costo e riducendo la loro produttività e capacità innovativa; fece cassa riducendo l’adeguamento all’inflazione anche per pensioni di circa 1200 euro netti, nonostante il sistema pensionistico già alimentava positivamente il bilancio pubblico e non mancavano altri redditi e ricchezze che sarebbe stato più equo colpire. Quella riforma ha poi accentuato il processo di creazione in atto di un vero e proprio disastro sociale che si concretizzerà in un grande numero degli attuali giovani che non riusciranno a maturare una pensione decente. Il sistema contributivo, per garantire una pensione adeguata, richiede una vita lavorativa continua che dura fino a tarda età, un storia retributiva adeguata e aliquote contributive piene. Tuttavia, il passaggio al metodo contributivo fu accompagnato dalle riforme miranti a flessibilizzare il mercato del lavoro ovvero dalla creazione di posti di lavoro prevalentemente precari, con aliquote contributive ridotte e bassi salari. La riforma del 2011 ha aumentato l’età di pensionamento, ma ciò non assicura affatto una più lunga storia lavorativa e contributiva. Le simulazioni fatte nel Rapporto sullo stato sociale che verrà presentato l’8 giugno alla “Sapienza” evidenziano come nell’assetto attuale determinato anche dalla riforma Fornero, molti lavoratori – gli attuali giovani – per maturare una pensione non necessariamente sufficiente saranno costretti a lavorare anche oltre l’età di pensionamento, che nel frattempo sarà arrivata a 70 anni. Ma di chi è la responsabilità di questo stato di cose attuale e prospettico?
L’ex ministra Fornero ha criticato gli effetti negativi che deriverebbero per i giovani dalla restituzione del mancato adeguamento a favore dei pensionati; ma – come si è visto – la sua riforma non ha favorito la situazione dei giovani, anzi! Loro come gli anziani hanno pagato non solo la grossolanità tecnica di quel provvedimento (e non erano mancati avvertimenti anche precisi, da parte sia di singoli studiosi sia di enti e strutture tecniche della PA). La gran parte della popolazione, a prescindere dall’età, ha subito la visione perversa di cui ere intrisa la complessiva Agenda Monti secondo cui, ad esempio, riducendo il costo del lavoro e alzando l’età di pensionamento, sarebbe aumentata la popolazione attiva, l’offerta di lavoro, l’occupazione e la crescita del reddito. Ma, nel Rapporto si mostra anche come queste politiche di consolidamento fiscale siano state e continuino ad essere fallimentari, specialmente nei paesi con debito pubblico elevato come il nostro. In una Europa in crisi, l’Italia – grazie anche all’applicazione particolarmente convinta di quelle politiche da parte dei nostri governi – ha conseguito i minori tassi di crescita, i maggiori tassi di disoccupazione e gli aumenti più elevati di povertà e diseguaglianze. Il nostro reddito pro capite, che ancora nella seconda metà degli anni ’90 era superiore alla media europea, adesso è inferiore del 16% e l’Ocse ha abbassato fino alla stazionarietà anche le prospettive del nostro reddito potenziale.