Top menu

Tutte le anime del trumpismo

Il 20 gennaio Donald Trump si insedierà alla Casa Bianca. Dal punto di vista delle politiche economiche il trumpismo appare un coacervo di idee diverse, talvolta incompatibili. Anche nel corso del suo secondo mandato assisteremo alla competizione fra diversi gruppi di pressione e schieramenti ideologici.

Trump Atto Primo: le fazioni in lotta

È un po’ come “cercare di indovinare cosa vuole un bambino” (like trying to figure out what a child wants). Così Katie Walsh, ex vicecapo di gabinetto di Donald Trump all’inizio del primo mandato presidenziale, ha descritto l’esperienza politica di cui è stata protagonista alla Casa Bianca. Secondo Walsh il presidente ha una serie di impulsi e credenze, molti dei quali presenti nella sua mente da tanti anni, alcuni piuttosto contradditori, e pochi capaci di adattarsi a tradizionali convenzioni politiche o legislative. Il compito del suo staff sarebbe quello di tradurre questi desideri e inclinazioni in un programma, nell’ambito di un processo che richiede parecchio lavoro su ipotesi e congetture.

A rendere ancor più complicata questa dinamica c’era la feroce competizione fra vari gruppi di pressione, interni alla squadra di Trump, per conquistare l’iniziativa politica. Ovvero, per aggiudicarsi l’interesse e il favore, sempre mutevoli e provvisori, del presidente. Gli schieramenti erano essenzialmente tre. Il primo, incarnato della figura di Steve Bannon, era quello riconducibile alla alt right, o destra “alternativa” e nazionalista americana: isolazionista in politica estera, protezionista nelle politiche commerciali, conservatrice, identitaria e “anti-woke” sul piano culturale, e decisa ad essere interprete del rancore della working class bianca impoverita dalla globalizzazione e dalla deindustrializzazione.

Il secondo, rappresentato dalla figura del capo di gabinetto Reince Priebus, era espressione del tradizionale establishment repubblicano, fautore di una politica economica pro-business, di deregolamentazione e di tagli alle tasse. Il terzo, guidato dalla coppia Ivanka Trump-Jared Kushner, era invece sensibile alle istanze liberal di una certa alta società newyorkese, nella quale sia Ivanka che Jared sono cresciuti. La linea moderata e centrista dei Cosmopolitans, come li chiamava sprezzantemente Bannon, aveva fra l’altro come obiettivo quello di rendere presentabile la figura di Trump in quegli ambienti che in passato lo avevo sempre trattato come un outsider, se non addirittura un paria.

Praticamente nessuno dei personaggi appena citati è sopravvissuto politicamente al frenetico ricambio di personale all’interno della corte trumpiana. Il presidente ha infatti gestito la sua prima amministrazione a colpi di you are fired! (sei licenziato!), il grido che lo ha fatto diventare un’icona televisiva negli Stati Uniti con il celebre reality The Apprentice. Il disordine e lo scompiglio in una macchina di governo paralizzata da spinte centrifughe hanno fortemente limitato la capacità di far avanzare una precisa agenda politica e legislativa.

Ciò non ha impedito a Trump di riuscire a centrare due obiettivi fondamentali per la sua variegata base elettorale: i tagli alle tasse del Tax Cuts and Jobs Act del 2017 e la nomina di tre giudici conservatori alla Corte Suprema, da cui è fra l’altro derivata la storica decisione di rovesciare la sentenza del 1973 con la quale si era legalizzato l’aborto a livello federale.

Trump Atto Secondo: nuovi protagonisti, vecchi conflitti

All’alba del secondo mandato di Trump, il cui insediamento  alla Casa Bianca avverrà ufficialmente il prossimo 20 gennaio, il movimento che si propone di Make America Great Again è ancora terreno di contesa fra visioni, interessi, ideologie diverse, non sempre del tutto compatibili fra loro. Le elezioni di novembre hanno provato che il presidente eletto continua ad essere una figura popolare fra i colletti blu d’America, specialmente se di pelle bianca, maschi e provenienti da realtà rurali. Per la prima volta dalle presidenziali del 2004 il candidato repubblicano ha ottenuto la maggioranza nel voto popolare, a dispetto di un’amministrazione democratica uscente che sotto molti punti di vista può essere considerata la più pro-labour almeno dai tempi di Lyndon Johnson.

In campagna elettorale Trump ha promesso la più grande operazione di espulsione di immigrati clandestini della storia degli Stati Uniti d’America: “stanno avvelenando il sangue del nostro Paese”, ha dichiarato (ignaro, c’è da sperare, della sinistra eco storica di queste parole. Ma fa davvero tanta differenza se ne fosse consapevole o meno?). Le stime più attendibili indicano in circa 11 milioni gli immigrati sprovvisti di documenti in USA (Trump ha parlato di 15-20 milioni). L’obiettivo indicato dal vicepresidente Vance è quello di procedere al ritmo di 1 milione di rimpatri l’anno. Nell’intero primo mandato di Trump, durato quattro anni, i rimpatri complessivi erano stati 1,5 milioni.

Le potenziali conseguenze economiche di una operazione di così vasta scala e radicalità non hanno mancato di suscitare preoccupazione anche negli ambienti del business più vicini al trumpismo. La manodopera straniera è spesso impiegata in settori vitali per l’economia americana, come l’agricoltura, le costruzioni, l’industria dell’ospitalità e l’assistenza sanitaria. Con una disoccupazione ancora su livelli molto bassi (4,2%), un tale shock sul lato dell’offerta di lavoro potrebbe compromettere le capacità produttive di molte aziende.

La frattura all’interno del trumpismo sull’immigrazione è emersa allo scoperto recentemente con una polemica partita dalla nomina di Sriram Krishnan a consigliere politico per l’intelligenza artificiale presso l’Office of Science and Technology Policy della Casa Bianca. I militanti della destra nativista filo-trumpiana hanno accusato Krishnan, e con lui gli esponenti della Silicon Valley nell’orbita del trumpismo, di voler incrementare le concessioni di permessi di soggiorno nell’ambito di specifici programmi diretti a lavoratori stranieri qualificati. Una politica, a loro dire, agli antipodi della filosofia America First del presidente eletto.

Prima di diventare uno sfegatato fan delle formazioni di estrema destra di mezzo mondo, Elon Musk è stato un immigrato negli Stati Uniti di origini sudafricane. L’uomo più ricco del mondo, appena nominato da Trump a capo di un Dipartimento per l’Efficienza Governativa, è intervenuto nella disputa sui permessi di soggiorno denunciando la “drammatica carenza di ingegneri motivati e di talento in America”. “Alla fine, tutto si riduce a questo”, ha scritto su X. “Volete che l’America VINCA o che PERDA? Se costringete i migliori talenti a giocare per l’altra squadra, l’America PERDERA’”.

Quest’ultimo punto di vista potrebbe risultare rafforzato dal riallineamento innescatosi dopo le presidenziali fra i miliardari del settore high tech che in passato erano entrati in rotta di collisione con Trump. Si pensi a personalità come quella di Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook e amministratore delegato di Meta (la società che possiede anche Instagram). Minacciato in passato da Trump di essere spedito in galera, lo scorso novembre Zuckerberg è stato ospite del presidente eletto a Mar-a-Lago, e si è congratulato con lui per la vittoria. Proprio in questi giorni, Nick Clegg, presidente degli affari globali e delle comunicazioni di Meta, ha annunciato il suo addio alla società. Clegg, che in precedenza era stato segretario del partito liberaldemocratico britannico (formazione su posizioni di sinistra moderata), sarà sostituito dal repubblicano Joel Kaplan.

I tech tycoon sono, per definizione, dei tecno-ottimisti. Credono nel valore della schumpeteriana “distruzione creatrice”. La loro visione è lontana, per molti aspetti, da quella di chi vede in Trump l’interprete più ispirato del risentimento e dalla rabbia dell’America profonda, un’America nostalgica dei valori tradizionali, e legata al mito dell’industria manifatturiera come produttrice di “comunità”, prima ancora che di alti salari e di sicurezza sociale. La manifattura dell’acciaio e delle auto con motore a combustione, non quella dei pannelli solari cara alle “élite di Washington”.

A dicembre Trump ha messo tutto il suo peso di presidente eletto a sostegno del sindacato dei portuali (International Longshoremen’s Association, ILA) impegnato in una dura disputa con i propri datori di lavoro. Il nodo più spinoso della trattativa è quello sull’“automazione”, ovvero di un più largo uso di gru semiautomatiche per le operazioni di carico e scarico. “Ho studiato il problema dell’automazione e conosco praticamente tutto quello che c’è da sapere a riguardo”, ha dichiarato Trump (beato lui). “Il risparmio economico [portato dalla diffusione della nuova tecnologia] non vale minimamente il danno che causerebbe ai lavoratori americani”.

Come ministro del lavoro Trump ha indicato Lori Chavez-DeRemer, appartenente alla ristrettissima manciata di parlamentari repubblicani sostenitori del Protecting the Right to Organize Act. La legge, che è stata discussa a partire dal 2021 al Congresso ma non ha ricevuto un’approvazione definitiva, rafforzerebbe il diritto dei lavoratori a formare organizzazioni sindacali sul posto di lavoro e a negoziare collettivamente. Non sorprende che la misura abbia incontrato la fermissima opposizione delle organizzazioni degli industriali.

Queste ultime potranno comunque trovare una serie di alleati preziosi nella nuova amministrazione. Personalità come Scott Bessent (nominato ministro dell’economia), Kevin Hassett (direttore designato del National Economic Council) e Howard Lutnick (nominato ministro del commercio). Si tratta di esponenti di una destra liberista antitasse e pro-imprese piuttosto ortodossa.

Ne resterà soltanto uno?

Trump potrebbe essere tentato di mediare fra i vari gruppi che spingono in direzioni diverse attraverso una mera sommatoria delle rispettive priorità. Ad esempio, potrebbe tentare di implementare allo stesso tempo una dura stretta sull’immigrazione (illegale e non), radicali tagli di tasse, e alte tariffe doganali nei confronti non solo della Cina, ma di tutti gli altri partner commerciali (Canada e Messico in primis). Ognuna di queste politiche ha effetti inflazionistici: la loro combinazione esporrebbe l’economia americana al rischio di un ritorno aggressivo di quell’alta inflazione che è stata il primo fattore di malcontento fra i cittadini a basso reddito nei confronti dell’amministrazione Biden.

A giudicare dal rally di borsa che è seguito alle elezioni di novembre, “i mercati” sembrano credere che alla fine le tensioni contrapposte presenti all’interno del trumpismo finiranno per elidersi a vicenda, almeno in parte. E che le promesse elettorali di Trump vadano filtrate della buona dose di propaganda con le quali sono state condite. Ne risulterebbe una linea di politica economica meno avventuristica.

C’è tuttavia un’altra alternativa che incombe sul secondo mandato di Trump: quella del caos. E perfino questo scenario potrebbe avere chi lo caldeggia attivamente come il più favorevole al proprio disegno.