A due anni dalla “circolare Damiano”, circa 20.000 lavoratori sono stati stabilizzati. Ma il posto fisso non cancella le altre criticità, dalla qualità del lavoro ai salari
Il settore dei call center in Italia è un universo in continua crescita, assorbe ormai oltre l’1% degli occupati e coinvolge lavoratori con le più diverse competenze. Nel panorama dell’economia italiana, caratterizzata da una crescita prossima allo zero, colpisce la presenza di questo settore che si è sviluppato addirittura a tassi del 10% annuo nel periodo 2002-2004. È interessante rilevare come nello stesso biennio il numero degli addetti sia triplicato: questo dimostra non solo che il settore è ad alta intensità di lavoro, ma che siamo in presenza della tipica attività del terziario a produttività bassa se non decrescente. Si tratta di un settore che subisce una progressiva delocalizzazione al fine di contenere i costi, tanto è vero che il numero delle imprese operanti nel nord si è ridotto, mentre è aumentato il numero dei call-center nel mezzogiorno.
Nel sentire comune l’idea di call center è associata a quella di precarietà, di contratti di collaborazione e di lavoro mal pagato.
Indubbiamente questa percezione non è infondata, considerato che nel mondo dei call-center permangono vaste fasce di precarietà, ma negli ultimi anni sono intervenuti numerosi cambiamenti. La cosiddetta “circolare Damiano” del giugno 2006 che autorizza il ricorso a forme di lavoro parasubordinato solo per i servizi “outbound” – cioè per quelle campagne con le quali i call-center si mettono in contatto con potenziali clienti – ha dato l’avvio alla stabilizzazione di numerosi addetti, almeno 20.000 secondo dati resi noti dai sindacati, nelle imprese di maggiori dimensioni. Il problema del precariato è ancora presente nelle numerose aziende di piccole dimensioni e in quelle organizzate in forma cooperativa che sfuggono alla contrattazione collettiva ed ai controlli dei servizi di ispettorato. Forse proprio per l’attenzione rivolta verso questo settore, le ispezioni si sono moltiplicate e il cammino verso la stabilizzazione nel settore procede, seppur lentamente.
Ma il problema dei call center non è limitato agli aspetti della precarietà.
Varie indagini sul campo evidenziano una serie di aspetti negativi del lavoro nei call-center, legati all’organizzazione del lavoro, alla ripetitività delle mansioni svolte, a problemi legati alla salute, alla mancanza di formazione e di prospettive di carriera.
Le ricerche sulle condizioni di lavoro nei call center non sono numerose, ma tutte evidenziano comunque forme di stress e di disagio psicologico legate all’attività lavorativa. Meritano una menzione le Linee guida per il lavoro nei call center, elaborate dall’ASL di Milano, in cui emergono tutte le criticità legate alla qualità del lavoro nei call-center, prima ancora che agli aspetti economici e contrattuali.
Lungi dall’assomigliare al lavoro paradisiaco degli spot televisivi, il call center è un luogo caratterizzato al contempo da fonti di stress e dalla difficoltà di stabilire contatti e rapporti tra i lavoratori.
Il tempo è una variabile fondamentale in un call center: bisogna fare in fretta a rispondere, sotto il controllo di manager e team leader che premono perché si prendano più chiamate; bisogna fare in fretta al telefono, tra il cliente che pretende rapidità (e non sa di parlare con una persona non sempre adeguatamente addestrata) e il management che insiste perché vi sono chiamate in attesa.
Chi immagina un ambiente caotico non coglie appieno la realtà dei call center. È vero che i lavoratori del settore spesso accusano stress e livelli di rumorosità ambientale eccessiva, tale da rendere persino difficile l’ascolto del cliente in cuffia (il volume alto delle quali è ulteriore fonte di disturbi all’udito); è però altrettanto vero che il call center è un luogo dove ognuno ha un desk (non sempre lo stesso, in modo da non poter personalizzare in alcun modo la propria postazione), un paio di cuffie, uno schermo da guardare: ognuno al suo posto, ognuno che deve pensare solo a prendere più chiamate e a farle terminare in fretta.
Lo spazio per la socializzazione tra lavoratori è pressoché nullo: vi sono testimonianze di call-center in cui è vietato anche solo bisbigliare tra colleghi vicini, anche se non sono in arrivo chiamate. Le rare e brevi pause sono individuali, a maggior ragione se il lavoratore è una “pecora nera”, un sindacalizzato. Addirittura in alcuni call center si è calcata la mano fino a proibire di tenere sul desk una bottiglietta d’acqua. Proprio l’assenza di qualunque motivo razionale dietro tale divieto può rendere l’idea dell’ambiente lavorativo di un call-center: stress continuo, management oppressivo, lavoratori contemporaneamente soli e immersi nel rumore di molti altri lavoratori soli.
Il dramma della precarietà lascia qui spazio a un tema più antico, tanto da essere stato forse dimenticato: l’alienazione.
Sembrava quasi che i lavori ripetitivi e alienanti, come quelli operai in catena di montaggio, fossero stati sostituiti da un lavoro operaio moderno, più legato al controllo e alla gestione di apparecchiature meccaniche. Forse anche per questo negli ultimi 30 anni è andata scemando quella coscienza di classe che faceva sì che esistesse una vera classe operaia.
Oggi ci troviamo davanti a una nuova tipologia di lavoro alienante: quello delle mansioni ripetitive da svolgere in solitudine davanti allo schermo di un computer, talvolta – come nei call-center – con un paio di cuffie alle orecchie. In un panorama del genere la stabilizzazione dei contratti, spesso auspicata, rischia di diventare una trappola: mentre gli impieghi a tempo indeterminato sono merce sempre più rara, la ricerca di una qualche stabilità finisce col far accettare anche un lavoro del genere, in particolare per chi non è più giovane e non ha possibilità di trovare un’occupazione alternativa. Per i giovani, d’altra parte, tra un lavoro precario e un lavoro stabile e alienante la scelta è perlomeno sconfortante.
Sembra che la qualità del lavoro stia ripercorrendo la storia contromano, portando gli impiegati del XXI secolo ad assomigliare sempre di più agli operai del Novecento. Con la differenza, non da poco, se si guarda in prospettiva ai diritti da conquistare, che oggi non c’è nemmeno un barlume non dico di coscienza di classe, ma almeno di coscienza di essere sfruttati.