Tra privatizzazione del potere legislativo e contrattualizzazione del diritto, che sarà gestita dalle grandi corporations con l’aiuto delle law firms americane, le tante ombre del Ttip
La democrazia per sua natura presuppone procedimenti pubblici, aperti e oggetto di discussione: nella segretezza, invece, dal luglio 2013, rappresentanti per il commercio della Commissione europea e dell’Executive Office del Presidente statunitense negoziano il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip)
Nel processo relativo al Ttip, le aperture nel senso della trasparenza sono tardive e insufficienti e paiono più un tentativo di arginare la nascita di un dissenso che non una sincera preoccupazione per la democrazia. La trasparenza e la pubblicità del processo non valgono a fornire patenti di democraticità, ma di questa senza dubbio costituiscono un ineliminabile presupposto.
La segretezza è, invece, se possibile, “aggravata” dal suo estendersi anche nei confronti del potere legislativo: non solo i cittadini, ma lo stesso Parlamento europeo è tenuto all’oscuro.
L’esautoramento del potere legislativo, oltre ad intaccare il principio liberale di separazione dei poteri e di rispetto delle rispettive sfere, veicola un vulnus “strutturale”: nei parlamenti siedono i rappresentanti dei cittadini, la cui informazione e partecipazione è, dunque, sia negata direttamente, in quanto singoli cittadini, sia indirettamente, attraverso la mediazione della rappresentanza, con le conseguenti ricadute sulla sovranità popolare.
Se la procedura per la negoziazione del Ttip revoca in dubbio sotto più profili il rispetto della democrazia, non suscita minori perplessità il suo contenuto, per quello che è dato conoscere.
Lo scopo è «rimuovere le barriere commerciali in una vasta gamma di settori economici», ovvero aprire «i mercati per i servizi, gli investimenti e gli appalti pubblici».
Si afferma che il Ttip «non comporterà una deregolamentazione», ma è difficile credervi e non immaginare una corsa al ribasso, date le premesse in favore della liberalizzazione e quando, nello stesso documento, si legge che «alcuni regolamenti hanno, in linea di massima, lo stesso effetto», per cui «in presenza di determinate condizioni, alle imprese sarebbe sufficiente rispettare una serie di norme».
Certo non rassicura leggere che una possibilità potrebbe essere «un maggiore adeguamento della normativa di entrambe le parti alle soluzioni concordate a livello internazionale»: concordate da chi? Con quale legittimazione? Facile ragionare di privatizzazione del potere legislativo e di contrattualizzazione del diritto, una contrattualizzazione tutta interna al potere economico, gestita dalle grandi corporations con l’aiuto delle law firms americane e dei collegi arbitrali transnazionali.
Il potere legislativo non sarebbe comunque solo nel doppio processo di esautoramento e privatizzazione: analoga sorte spetterebbe al potere giudiziario.
Il partenariato prevederebbe un meccanismo di risoluzione dei contenziosi tra investitori e Stati, che permetterebbe alle imprese di denunciare gli Stati di fronte ad un “tribunale internazionale” qualora ritengano di aver subito un danno nei propri investimenti e profitti a causa di norme e politiche statali. Si può immaginare il ricorso di una multinazionale contro uno Stato reo di aver introdotto una disciplina che, a tutela della salute e dell’ambiente, blocchi la vendita di un prodotto o lo sfruttamento di una risorsa energetica. Non è un polemico caso di scuola: gli esempi sono molti, dato che già oggi gli Investor-State Dispute Settlement sono previsti da numerosi accordi internazionali di libero scambio.
Si ragiona di arbitrati, di tribunali speciali, tali sia per la competenza sia per la composizione sia per le regole di funzionamento e di giudizio. Sono “tribunali speciali per la sicurezza degli investitori”, che garantiscono una diretta protezione agli investitori, e quale benefit accessorio, ma certo non secondario, eludono il ricorso ai tribunali ordinari e intimoriscono gli Stati, nel caso sorgesse loro la velleità di esercitare una piena potestà legislativa e adottare scelte politiche autonome, magari a tutela di diritti come la salute o il lavoro.
Quanto a questi ultimi, è facile immaginare regressioni nella loro garanzia a fronte della deregolamentazione, della riduzione delle barriere e della previsione di meccanismi a tutela degli investitori.
Fra i diritti in pericolo sotto più profili spicca il diritto alla salute. Oltre alle ripercussioni sulla salute, e sull’ambiente, che seguono alla prevedibile minor protezione normativa, vi sono, da un lato, l’apertura dei sistemi sanitari al libero mercato, che inevitabilmente trascina con sé la sostituzione del fine del profitto alla funzione sociale, dall’altro, le norme che tutelerebbero in maniera rigida i brevetti aziendali, impedendo, ad esempio, la produzione di farmaci a basso costo.
Preoccupazioni poi destano i possibili effetti del Ttip sui diritti del lavoro e dei lavoratori. Qui i rischi maggiori sono un gioco al ribasso per quanto concerne di fatto le condizioni di lavoro e la regressione anche di diritto delle tutele dei lavoratori in quanto ostano alle libertà degli investitori.
Democrazia esautorata, sovranità popolare violata, diritti a rischio: a fronte, i supposti benefici derivanti dalla maggior libertà di un mercato, che – se pur ancora non del tutto libero – ha prodotto la crisi in corso e la crescita delle diseguaglianze.
Si prospetta una oligarchia diretta del potere economico? Non ci si nasconde che il gioco dei rapporti di forza già oggi ha determinato una espropriazione della sovranità popolare a favore della “sovranità dei mercati”, lo snaturamento delle costituzioni con l’imposizione di principi diretta espressione dei diktat della lex mercatoria (per tutti, il principio del pareggio di bilancio), la degradazione a (eventuale) beneficenza dei diritti sociali, e l’erosione, ormai in stadio avanzato, dei diritti dei lavoratori; il Ttip tuttavia si spinge oltre, sino all’arroganza di pretendere immunità giudiziaria ed un proprio tribunale contro gli Stati. Gli Stati rimangono, ma sotto tutela, sono commissariati, limitati e controllati, stretti fra la funzione di fornitori di servizi ed erogatori di appalti e quella di gestori dell’ordine sociale.
Non è forse che il capitalismo usa la democrazia a fisarmonica, allargandone o restringendone gli spazi a seconda della forza che possiede, per poi magari, sopraffatto l’avversario, liquidarla?
Questo non significa che la democrazia sia solo una sovrastruttura ideologica al servizio del capitale, ma che occorre necessariamente integrare la democrazia politica con quella economica e sociale. Certo non è una proposta al passo coi tempi, quando l’impero colpisce – e non è fantascienza – ancora una volta, ma proprio quanto accade mostra la necessità di resistere e camminare su una strada altra, assoggettando – nel segno del costituzionalismo – l’economia ad una politica orientata all’emancipazione.
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