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Trasformazione del lavoro e salute pubblica

Dai primi del Novecento il progresso tecnologico è stato pensato come fattore di liberazione dall’insalubrità del lavoro e di allungamento della vita media. Ma con l’industria 4.0 e la gig-economy, c’è il rischio che si pensi al lavoratore come a un robot. gli asini

Preambolo

L’industria attua e ostenta le sue rivoluzioni. Ad oggi se ne contano almeno quattro: la prima, con l’introduzione della macchina a vapore, ha interessato, verso la fine del Settecento, in particolare il settore tessile e quello metallurgico; la seconda convenzionalmente inizia negli ultimi decenni dell’Ottocento grazie all’introduzione dell’elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio; alla metà del Novecento l’elettronica e le telecomunicazioni fanno scattare la terza rivoluzione industriale. L’industria 4.0 (o Impresa 4.0) caratterizza la quarta rivoluzione industriale, la quale si fonda su processi che porterebbero a una produzione industriale automatizzata e interconnessa; essa ha come paradigmi l’utilizzo di dati, il calcolo e la connettività, il ricavo da essi di “valore”, l’interazione tra uomo e macchina e quindi il passaggio dal “digitale” al “reale” e cioè la manifattura additiva, la stampa 3D, la robotica, le comunicazioni, le interazioni tra macchina e macchina, l’immagazzinamento e l’utilizzazione dell’energia capace di “razionalizzare i costi e ottimizzare le prestazioni”.

Come ognuna delle rivoluzioni industriali che si rispetti anche quella digitale oltre che mostrare una storia, un background, annuncia cambiamenti e quindi timori e aspettative di vario genere sui quali molti, ormai da alcuni anni, discutono o mostrano di discutere animatamente. Meno indagato, oppure oggetto di caute proposizioni, limitate a temi generali, appare, anche da parte degli addetti ai lavori, l’impatto della digitalizzazione sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori, quelli coinvolti nelle sue varie fasi evolutive, spesso imprecise, e poi nella sua condizione florida, ancora da individuare con maggiore precisione e nella sua estensione.

A proposito del progresso tecnico, sicura fonte di “lavoro attraente”, un generoso quanto imprevidente anarchico militante, nei primi anni del Novecento, scriveva:

Scopo dunque di una società anarchica è di rendere tutti i lavori attrattivi, di togliere maggiori fatiche col progresso crescente della meccanica e di far sì che il lavoro, vita dell’umanità, sia anche la salute degli uomini. […] E noi risponderemo che la meccanica, oggi matrigna e nemica degli operai, diventerebbe allora madre benevola e verrebbe ad alleviare tante fatiche. E i lavoratori, soli padroni dell’opifici, saprebbero portarvi tutti quei provvedimenti utili per la propria salute, e la scienza, abbracciando un concetto più umanitario, verrebbe a perfezionare l’officina e a renderla pari al laboratorio del professore. Salve, o divina scienza, o anfesibene dei desposti, te saluteranno li scarni operai che sudando nelle officine o nelle miniere, te saluteranno, spirito umanitario, i girovaghi disoccupati che oggi giustamente t’imprecano. Salve, o lavoro umano, che ritemprerai li animi, che rinvigorirai le menti, salve, o ginnastica sublime, te canteranno le future generazioni nella nuova Arcadia della vita (Anonimo, Il lavoro attraente, pubblicato a cura della Redazione del giornale “Il Risveglio”, Firenze, Tip. Guttemberg, s.d., ma circa 1910).

Appare ragionevole assumere il dubbio che si reitererebbe il vaticinio del nostro anonimo anarchico se ci si limitasse a sostenere che la “digitalizzazione” sarà foriera di vantaggi per tutti i lavoratori o almeno per coloro (ma si chiameranno o si vorranno ancora chiamare operai o lavoratori?), pochi, più direttamente coinvolti nel più recente processo di trasformazione tecnologica.

I vantaggi, come si sostiene dai più, ma in primo luogo da parte di consulenti aziendali della prima ora, sarebbero rappresentati sostanzialmente dalla liberazione da compiti pericolosi, monotoni e ripetitivi, dalle nuove forme di cooperazione e di rafforzamento dell’autonomia d’azione, di autoregolazione decentrata, di “partecipazione” se non di protagonismo. Il dubbio non può essere fugato che da “previsioni” non interessate e poi da dati, fatti e testimonianze frutto di un monitoraggio adeguato, di lungo periodo (le “malattie professionali” per definizione hanno lunghi “periodi di latenza”) che è sperabile si preoccuperà, in tempo reale, di correggere o integrare le sentenze dei vaticinatori di oggi.  Ma, al solito, come è puntualmente successo per le altre rivoluzioni industriali, per qualcuno e per certe cose sarà troppo tardi.

Lo stato di salute e di sicurezza
dei lavoratori oggi in Italia

Il fenomeno infortunistico e quello delle malattie “professionali” o meglio delle patologie correlabili con le attività lavorative, rappresentato attraverso numeri o indici spesso mutevoli, assurgono ciclicamente all’onore delle cronache, forse più in Italia che in altri Paesi, per esprimere, sinceramente da parte di qualcuno, indignazione, insofferenza e anche voglia di cambiamento rispetto a un inossidabile “zoccolo duro” fatto di mutilazioni e di morti.

I dati sugli infortuni che accadono nel nostro Paese, nel bene e nel male, provengono quasi esclusivamente da un’unica fonte e sono tenuti principalmente a fini assicurativi, dall’Istituto Nazionale Infortuni sul Lavoro (INAIL); volerli indirizzare ad altri fini (di conoscenza, di prevenzione e di vigilanza/controllo) comporta varie criticità e richiede conseguenti cautele e adattamenti. Pur dovendo considerare dei limiti originari, ai più è apparso e appare necessario utilizzare questi dati, che nella versione più aggiornata, informano che la serie storica del numero complessivo degli infortuni denunciati prosegue un andamento decrescente. Sono state registrate circa 637 mila denunce di infortuni nel 2015; rispetto al 2014 si ha una diminuzione di circa il 4%; sono circa il 22% in meno rispetto al 2011. Gli infortuni riconosciuti sul lavoro sono circa 416 mila, di cui il 18% “fuori dell’azienda” (cioè “con mezzo di trasporto” o “in itinere”). Delle 1.246 denunce di infortunio mortale (erano 1.152 nel 2014, 1.395nel 2011) quelli accertati “sul lavoro” sono 694 (di cui 382, il 55% “fuori dell’azienda”). Esaminando la suddivisone per dimensione aziendale del complesso degli infortuni riconosciuti (esclusi quelli “in itinere”) accaduti nel 2000-2015 in “Industria e Servizi”, si conferma la prevalenza di eventi nelle imprese entro i dieci addetti, con qualche punta per le imprese fino a cento addetti relativamente al complesso degli infortuni, punta che si nota meno nel caso degli eventi mortali: il 60% di questi si verifica ogni anno nelle microimprese. Si assiste inoltre a una progressiva tendenza all’aumento del numero di infortuni nelle donne rispetto agli uomini, di entità molto più rilevante negli eventi “in itinere”. Relativamente agli eventi mortali si evidenzia come la distribuzione per comparto, nel periodo 2010-2015, abbia le costruzioni nettamente in testa con un quarto degli eventi, seguite da agricoltura, trasporti e metalmeccanica. Considerando i dati disponibili, in riferimento agli altri Paesi europei, la posizione dell’Italia non appare peggiore considerando gli infortuni totali mentre è pessima se si considerano gli infortuni mortali.

Le denunce di malattia “professionale”, nonostante l’importante riduzione di quelle classiche che hanno imperversato nel “secolo del lavoro”, sono state nel 2015 circa 59 mila (quasi mille e 500 in più rispetto al 2014), con un aumento di circa il 24% rispetto al 2011; ne è stata riconosciuta la causa “professionale” nel 34% dei casi; il 63% delle denunce è per malattie del sistema osteo-muscolare, principalmente a carico della colonna e degli arti superiori (cresciute del 46% rispetto al2011), quelle stesse che avrebbero dover avuto un contenimento con la disseminazione di alcune misure “ergonomiche”. I lavoratori deceduti nel 2015 con riconoscimento di malattia professionale sono stati 1.462 (il 27% in meno rispetto al 2011), di cui 470 per silicosi/asbestosi, principalmente per tumori correlati con l’amianto (l’85% è con età al decesso maggiore di 74 anni); un numero questo che in assoluto è superiore a quello dei deceduti per infortuni.

I disturbi psichici riconosciuti nel 2013, in qualche modo relazionabili con lo “stress da lavoro”, nonostante il gran parlare che se ne fa, sono pochissimi (37 casi nel 2013, di cui 20 “disturbi dell’adattamento cronico” e 4 “disturbi post traumatici da stress cronico”. Ci sono differenze “normali” nella denuncia e nel riconoscimento delle malattie “professionali” e sono legate alle diversa distribuzione delle attività produttive e quindi dei rischi ma alcune differenze hanno entità e caratteristiche tali da far pensare che in alcuni territori si “cercano” patologie che in altri vengono invece ignorate o sottovalutate. La “provenienza lavorativa” delle malattie “professionali” riconosciute è prevalentemente industriale (16.544 casi, 77,2%) così distribuite: costruzioni: 3.067 (14,3%); servizi: 1.558 (7,3%); metalmeccanica: 1.469(6,9%); sanità: 797 (3,7%); industria tessile:605; commercio: 534; trasporti: 403; industria del legno: 301; industria chimica: 225. In riferimento al genere risulta di gran lunga più frequente quello maschile (72,9%) mentre i nati fuori di Italia sono rappresentati con il 6,3%.

È indubbio che si è verificata una progressiva riduzione delle “classiche” malattie “professionali” tra i lavoratori nativi dei Paesi a economie di mercato forte, dove per altro sono cessate molte attività manifatturiere con impiego di metalli e di solventi. Ciò non ha significato la definitiva scomparsa di danni alla salute, ma solo una ennesima modifica del profilo nosografico di queste popolazioni con forme di sofferenza.

In Italia, come in altri Paesi, permangono dei rischi “sociali” per la salute che si intrecciano o esaltano quelli prettamente lavorativi, gli infortuni e le malattie da lavoro. Negli ultimi decenni si è assistito al miglioramento della salute della popolazione generale, l’aspettativa di vita è aumentata, la mortalità si è ridotta, così come la morbosità che è diminuita per buona parte delle patologie in termini di incidenza, di prevalenza e di impatto sulla qualità della vita. Non tutti i cittadini però hanno beneficiato nella stessa misura di questi progressi; persistono importanti differenze: quanto più si è ricchi, istruiti, residenti in aree non deprivate, e in generale dotati di risorse e opportunità socioeconomiche, tanto più si tende a presentare un profilo di salute più sano. Povertà materiale e povertà di reti di aiuto, disoccupazione, lavoro poco qualificato, basso titolo di studio sono tutti fattori, spesso correlati tra loro, che minacciano la salute di individui di alcuni strati sociali che così risultano doppiamente “svantaggiati”. Mano a mano che si risale lungo la scala sociale gli indicatori di salute migliorano secondo quella che viene chiamata legge del “gradiente sociale”; tra gli uomini in Italia, negli anni Duemila, si osservano più di cinque anni di differenza nella speranza di vita tra chi ha continuato a fare l’operaio non qualificato per tutta la sua vita lavorativa rispetto a chi è diventato dirigente, con aspettative di vita crescenti salendo lungo la scala sociale; il rischio di morire cresce con l’abbassarsi del titolo di studio; chi ha un diploma ha un rischio di morire maggiore del 16% rispetto a un laureato, chi ha la licenzia media del 46%, chi ha quella elementare del 78%. In Italia le disuguaglianze di salute sono più intense nelle regioni del Sud che in quelle del Nord e questa variabilità indica che c’è qualcuno che ha saputo o potuto far meglio di qualcun altro e quindi che queste diseguaglianze sono modificabili e quindi “evitabili” (G. Costa, Cosa sappiamo della salute disuguale in Italia? http://www.disuguaglianzedisalute. it/?p=2616).

È da segnalare inoltre che secondo alcune indagini comparative svolte a livello europeo negli ultimi anni la situazione dell’Italia appare più favorevole di quella di altri Paesi in tema di disuguaglianze sociali nella salute. Per spiegare questo risultato vengono invocate alcune risorse “protettive” tipiche del Paese, come la dieta mediterranea, il sostegno della rete familiare, il ruolo del Servizio sanitario nazionale, qualche altro vantaggio conquistato nei decenni passati sul campo e poi divenuto “diritto acquisito”. Ma viene anche facilmente ipotizzato che questi “privilegi” relativi possano venir meno a causa della crisi economica, per la diffusione e cronicizzazione della disoccupazione e della precarietà lavorativa, per l’impoverimento delle persone e delle famiglie e per le conseguenze delle misure di austerità che contemplano in primo luogo il ridimensionamento dello Stato sociale, soprattutto nel campo dei servizi alla persona bisognosa.

I fenomeni appena delineati sono di tendenza, di carattere generale e possono in ogni momento escludere o far retrocedere gruppi o singoli lavoratori anche in società apparentemente strutturate o considerata solide e solidali. Molte sono tuttavia le nubi all’orizzonte e tra queste la patologia del “non-lavoro”, della disoccupazione che colpisce in misura sempre maggiore gli strati più deboli della popolazione ma non solo queste.

Cosa è successo ai lavoratori
delle precedenti rivoluzioni industriali?

Giovanni Berlinguer (1924-2015) discutendo del processo che indubbiamente ha portato al miglioramento delle condizioni di lavoro individua tre periodi storici di più intenso significato. Quello caratterizzato dall’opera di Bernardino Ramazzini (1633-1714) da collocare temporalmente alle origini del secolo dei Lumi che tutto sommato inaugura una fase durante la quale si accrescono le conoscenze del problema, ma risultano carenti le iniziative per farvi fronte. Questo periodo nel nostro Paese arriva e oltrepassa gli eventi legati all’Unità d’Italia. Un secondo che si colloca tra la fine del XIX e il primo decennio del secolo successivo che vede come protagonisti alcuni studiosi “appassionati e valorosi”, alcuni pubblici amministratori e quindi, direttamente, dei lavoratori e organizzatori sindacali. Un terzo periodo i cui prodromi sono da ricercare agli inizi degli anni Sessanta del Novecento con decisivi movimenti “dal basso” e realizzazioni “non rituali” che si sviluppano in maniera travolgente per un decennio e oltre.

Una valutazione esclusivamente “tecnica”- o per lo meno in carenza di immediati riferimenti “politici” del rapporto tra progresso tecnico e salute dei lavoratori – la aveva proposta Enrico Vigliani (1907-1992), all’epoca influente direttore della Clinica del Lavoro di Milano e consulente di importanti aziende produttive. L’occasione è il torrenziale Congresso internazionale di studio sul progresso tecnologico e la società italiana in trasformazione tenutosi a Milano dal 28 giugno al 3 luglio del 1960 promosso dal Comune di Milano e dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale (CNPDS) sotto il patrocinio del Consiglio nazionale delle Ricerche (CNR) i cui atti verranno pubblicati in 8 volumi, alcuni dei quali in più tomi. L’ultimo di questi volumi raccoglie i contributi sugli aspetti igienico-sanitari; nella sintesi svolta in quella occasione da Vigliani si argomenta come non solo esista uno stretto parallelismo fra le curve esprimenti il progresso tecnologico di un Paese e l’allungamento della vita media dei suoi abitanti, ma come esista pure un rapporto fra il progresso tecnologico raggiunto e la distribuzione percentuale delle cause di malattia e di morte; quindi l’autore asserisce:

Nel passato molti progressi sono stati compiuti senza alcun riguardo per l’igiene e senza alcun pensiero per le possibili conseguenze dannose delle innovazioni tecnologiche. Ne sono un triste esempio le epidemie di silicosi occorse dopo l’introduzione dei sistemi di perforazione pneumatica delle rocce, i casi di berilliosi nelle fabbriche di tubi fluorescenti, le dermatiti e i cancri cutanei dei primi radiologi. Oggi la coscienza igienica è molto più diffusa e la tossicità di nuove sostanze o nuovi composti viene studiata prima che essi vengano prodotti o lavorati in scala industriale. Vi sono quindi le condizioni per ritenere che in generate il progresso tecnologico avrà una benefica influenza sulle condizioni di igiene ambientale e sulla frequenza delle malattie professionali. Nella semi-automazione e nella automazione gli operai non verranno quasi più a contatto con macchine o con sostanze tossiche; le condizioni ambientali necessarie per l’automazione escludono inoltre che vi possano essere nell’atmosfera polveri o vapori o gas tossici in quantità da nuocere alle persone. L’igiene e la sicurezza saranno quindi aumentate. Tuttavia sarà possibile l’insorgenza di nuove malattie professionali, in concomitanza con l’inizio di nuove tecniche lavorative. La medicina del lavoro deve rimanere vigilante e orientarsi sempre di più in senso preventivo, studiando e combattendo per tempo ogni pericolo, cosa che del resto si sta già facendo largamente nel settore della produzione e impiego delle radiazioni ionizzanti.

Alcune delle considerazioni del famoso medico del lavoro, sia quelle precedenti che alcune di quelle che seguono, sembrano ripercorrere concetti espressi dall’anonimo anarchico di sopra, ma quelli positivi si riferiscono a situazioni non certo numerose di qualche industria che invece, come è noto, risultano ben distanti dall’esperienza della maggioranza dei lavoratori di piccole e medie industrie che sono risultati protagonisti del “boom economico” italiano. È da notare come in tutti questi casi, quelli più antichi e anche quelli attuali, non vengono nominate le organizzazioni sindacali e che i lavoratori risultano essere soggetti passivi in processi dominati da aziende e tecnici.

A causa delle numerose innovazioni comportanti impiego di mano d’opera specializzata, più rigide misure di igiene, maggiore interesse per i problemi psicologici, il medico del lavoro e lo psicologo avranno, nelle industrie del futuro, una importanza ancora maggiore dell’attuale, poiché si tratterà di conservare in perfetta salute fisica e mentale un personale altamente qualificato, al quale sono affidati compiti di elevata responsabilità. Per conseguire questo scopo, la collaborazione dei medici e degli psicologi con i dirigenti, i tecnici e i lavoratori dovrà essere tanto più stretta, quanto più il progresso tecnologico sarà avanzato. […] In questo complesso cambiamento di sistemi di lavoro, di ambienti di lavoro, di preparazione tecnica di lavoratori e di dirigenti, di rapporti umani, di clima sociale e morale della azienda, i medici e gli psicologi del lavoro possono avere una parte assai importante, a fianco dei tecnici e dei dirigenti. Essi possono consigliarli e indirizzarli a trovare quelle condizioni e quegli accorgimenti che rendono l’innovazione tecnologica bene accetta ai dipendenti e al tempo stesso ne salvaguardano e ne migliorano la salute fisica e mentale e quindi il benessere e la produttività.

Alle nuove istituzioni nate con spirito“filooperaio” fanno seguito le norme
e i criteri “europei” per la prevenzione

La crisi delle organizzazioni dei lavoratori finisce per trasmettere il testimone dell’impegno in difesa della salute nei luoghi di lavoro alle istituende strutture di prevenzione delle Unità Sanitarie Locali (USL) volute dalla legge di Riforma Sanitaria del 1978. Passano anche, “per legge”, indirizzi politici quali l’affermazione della partecipazione degli utenti, il primato della prevenzione primaria, il decentramento nella gestione pubblica degli interventi. Questa operazione, dove è stata possibile condurla, è stata capace di richiamare l’attenzione su alcuni diritti per la salute dei lavoratori, quelli sanciti da una normativa, quella degli anni ’50 rimasta quasi sempre lettera morta.

L’inerzia legislativa di trentacinque anni in materia di norme tecniche di prevenzione nei luoghi di lavoro, dalla promulgazione del D.P.R. 303 nel 1956, viene interrotta nel 1991 dai vincoli della Unione europea che, principalmente per evitare la concorrenza sleale tra i vari Paesi, pretende l’armonizzazione della normativa di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Viene richiesta la realizzazione di un sistema “compiuto” di obiettivi e metodi dove i datori di lavoro diventano soggetti non solo di responsabilità penale, ma debitori di una organizzazione della prevenzione standardizzata, qualificata professionalmente. La valutazione dei rischi e i programmi di intervento diventano il perno di necessari e possibili interventi di miglioramento. La partecipazione dei lavoratori deve significare collaborazione, fedeltà, adesione motivata, informazione. Cosa abbia apportato a breve e medio termine il sistema europeo alla salute dei lavoratori è difficile dire; fortunatamente è intervenuto in un terreno “arato” sia nelle grandi (prevalentemente grazie alle iniziative sindacali degli anni ’70) che nelle piccole aziende (sorvegliate e fortemente indirizzate dall’organo di controllo delle USL-ASL nel decennio successivo), sia per i lavoratori garantiti che per la nuova generazione dei precari.

La prevenzione ai tempi di “Industria 4.0”

Da un punto di vista pratico, nonostante l’espressa esigenza di concepire nuovi specifici interventi normativi, ovviamente europei, le leggi vigenti in tema di salute e sicurezza al lavoro, possono e debbono utilmente sovraintendere allo sviluppo della digitalizzazione delle attività produttive. Ciò è vero quando questa normativa tecnica, il D.lgs. 9 aprile2008, n. 81, viene applicata coerentemente e non burocraticamente come più spesso si vede anche da parte di aziende autorevoli, a parole interessate a dimostrare il contrario; essa “si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio” e deve accertare, in un sistema tecnico, trasparente e “partecipato”, l’esistenza di qualsiasi rischio per ogni lavoratore a qualsiasi titolo e contratto reclutato e per mettere in atto un programma di incessante miglioramento delle condizioni e dell’organizzazione del lavoro. Anche in un ambiente “smart”, si deve valutare e controllare, grazie all’azione attiva di operatori tecnici e sanitari, e anche “rubando” utili informazioni ai diretti interessati, la permanenza di “rischi residui”, anche di bassa entità, nei vari campi “classici” e anche in quelli considerati da alcuni come “emergenti”: meccanico-infortunistico, elettrico, da incendio ed esplosioni, da agenti chimici (in particolare cancerogeni, nanoparticelle) e biologici, da agenti fisici (rumore, vibrazioni, radiazioni) da microclima, da illuminazione, derivanti dall’interazione uomo-macchina e uomo-uomo. Ragionevolmente si parla della valutazione di “rischi residui” perché a monte, in fase progettuale, di ristrutturazione di un ambiente di lavoro o di una sua parte, debbono essere state già “previste” condizioni ottimali per tutti. Come opportunamente scrive Bruno Maggi:

“La prevenzione deve essere programmata, cioè disegnata in anticipo e in termini generali, non episodica, puntiforme e seguente a eventi lesivi della salute dei lavoratori. In secondo luogo essa deve essere progettuale, nel senso che deve poter avvalersi delle conoscenze riguardanti tutte le condizioni della situazione di lavoro, e reciprocamente nel senso che la progettazione del lavoro deve includere le condizioni di prevenzione. Nessun aspetto della situazione di lavoro deve sfuggire alla valutazione in termini di prevenzione” (B. Maggi, Il “vero pazien- te” è il lavoro, Bologna, TAO Digital Li- brary, 2015, p. 21, http://amsacta.unibo. it/4418/1/LavoroVeroPaziente.pdf).

Per esercitare la prevenzione così detta primaria occorre saper valutare gli elementi del processo in quanto “potenzialmente attivatori di rischio” e spesso a prescindere da conoscenze epidemiologiche consolidate, cioè a partire dai danni, dalle patologie eventualmente registrate in passato in condizioni di lavoro assimilabili a quelle in esame,

[…] occorre saper discendere dalle scelte di processo alle possibilità di rischio. Occorre una conoscenza di analisi e di (ri)progettazione del lavoro. Ciò significa che una prevenzione primaria presuppone in primo luogo una conoscenza approfondita delle alternative di scelta nella costruzione del processo. E in secondo luogo una conoscenza della condizione di rischio che ogni scelta esprime. Questi due aspetti sono irrinunciabili per una capacità di analisi e di progettazione del lavoro a fini di prevenzione (B. Maggi, op. cit., 2015).

Anche seguendo la “filosofia” della norma, deve essere messo in atto un processo continuo, creativo che, specie dove i lavoratori non si sporcano le mani con l’olio, spesso invece viene esaudito, con un contentino di basso profilo come la visita medica e una nuova “sedia ergonomica” a tutti a causa dell’impiego di videoterminali o con iniziative roboanti come il sistema “wireless” indossabile con sensori che captano i segnali elettrici emessi dai muscoli allo scopo di “ricostruire gli sforzi del lavoratore, educare alla corretta esecuzione dei movimenti e fornire supporto scientifico ai medici”. La progettazione ergonomica non può essere solo correttiva, non deve limitarsi agli utensili, alle attrezzature che l’operatore incontra nella sua area di lavoro; occorre mettere in campo un’ergonomia di progetto, di processo, che non può che aver per base la conoscenza della regolazione del processo d’azione di lavoro e quindi le varie interfacce, uomo-macchina, uomo-robot, uomo robot-collaborativo, uomo-uomo e macchina-macchina.

Ingombrante resta poi il capitolo della prevista valutazione del rischio da “stress lavoro-correlato” o, come piace a qualcuno, “tecnostress”, brutto termine che evoca quello di “tecnopatie” con il quale nei passati decenni venivano intese le malattie “professionali”. Indubbio è il fatto che non solo nella fase, più o meno violenta per i lavoratori espulsi e per quelli salvati, di riconversione e di trasformazione di un’azienda che tende alla digitalizzazione ma anche nel suo stato di “regime” si crei un laboratorio dove si coltivano elementi stressogeni per la salute mentale. Far fronte, adattarsi o trattare, da parte di un individuo, le informazioni e le nuove tecnologie di comunicazione non può essere considerato un processo standardizzato e neutro. Reazioni prevedibili sono turbamento, paura, tensione e ansia, tutte reazioni che elaborate individualmente possono condurre alla repulsione psicologica ed emotiva che impedisce un ulteriore apprendimento o l’utilizzo della tecnologia informatica e poi a influenze negative anche nell’ambito privato delle persone. La letteratura specializzata è ormai ricca di risultati che mettono in relazione il “tecnostress” con situazioni descritte come “data smog”, “multitasking madness”, “hasless computer”, “burnout”, “technoaddiction” e “technostrain”, termini che indicano niente altro che una varietà di fattori di stress psicosociale tra cui: capitale psicologico, sovraccarico di lavoro, conflitti interpersonali, ambiguità di ruolo, conflitto lavoro-famiglia, ansia di ruolo e insicurezza, processi cognitivi, conflitto di ruolo, sovraccarico di ruoli e violazione della “privacy”.

Alcuni specialisti argomentano che questo tipo di rischio scomparirà dalla faccia dell’Industria 4.0 perché, per definizione, per interesse della produzione e della produttività, scompariranno sovraccarico di lavoro, conflitti interpersonali, ambiguità di ruolo, ecc.. Altri pensano che dovrà succedere proprio il contrario, che uno “stress buono”, che aiuta a svolgere il lavoro assegnato e anche per sopravvivere, possa trasformarsi in “stress cattivo”, improduttivo e mutilante per l’interessato; nonostante l’intervento, a monte e a valle, della concezione del processo lavorativo, di “valutatori dello stress”, psicologi e non, potrà succedere che l’interessato soccomba e si trovi allontanato dalla comunità produttiva e tornerà alla sua casa per soffrire, come facevano tempo addietro i malati di silicosi che non potevano più lavorare in miniera.

Considerazioni finali

Esiste sicuramente a carico dei lavoratori un catasto di eventi avversi che sopravvivono alle iniziative di prevenzione, sindacali, istituzionali, tecnologiche; gli stessi negli ultimi decenni risultano ridotti in maniera non omogena, per un tempo abbastanza lungo ma non indefinitivamente.

In un passato ormai remoto i lavoratori si sono dovuti contrapporre frontalmente alle imprese per conquistare il diritto alla salvaguardia dei propri diritti. Oggi che è in pieno svolgimento un nuovo processo tardano ad affermarsi dei meccanismi di difesa alternativi a quelli del passato; poco efficace risulta, nella maggioranza dei casi, quello che vorrebbe la prevenzione remunerativa per i datori di lavoro divenendo essa stessa fonte di risparmio e nel contempo stimolo per una migliore produzione; tarda a manifestare i suoi effetti il ruolo aggiornato di tutela che secondo la filosofia della norma europea dovrebbe essere giocato per combattere la concorrenza sleale con la partecipazione diretta dai lavoratori o dai loro rappresentanti. Ai “moderni” strumenti di rivendicazione e gestione della sicurezza si oppongono elementi perversi, da alcuni considerati oggettivi o strutturali legati alla attuale fase di “civilizzazione”, elementi che agiscono anche togliendo peso e visibilità ai produttori di merci a favore dei consumatori di quelle stesse merci.

Tutti questi elementi, complessi e molteplici, consigliano di orientare l’attenzione e l’antagonismo nei confronti delle “cattive condizioni di lavoro”, con interventi che affrontino più in generale gli effetti negativi e in primo luogo l’usura, lo sfruttamento, gli elevati costi psicosociali. Un buon indicatore di una tale tendenza deve essere visto nella “cultura” e nella “libertà” che il singolo lavoratore deve possedere per auto tutelarsi e nel “potere” che detiene nel far valere questa sua opzione. La trasformazione del lavoro in atto appare invece quella prevista da alcuni accordi sindacali che ha come presupposto una riduzione del “potere” (formale e informale) dei lavoratori estorta con il ricatto del “non lavoro”. Oggetto dello scambio è la produttività massima con un’internazionalizzazione degli standard e quindi più fatica per i lavoratori.

In agguato c’è un nuovo modello organizzativo che pretende il coinvolgimento di tutti nel processo di miglioramento del prodotto e di abbassamento dei costi di produzione. Il modello può anche porre l’accento sulla “facilitazione” di alcune prestazioni lavorative per aumentare la produttività, ma soprattutto esso esige la “partecipazione” incondizionata, devozionale, da parte dei lavoratori. Si pretende che i lavoratori, non potendo o non dovendo essere sostituiti da robot, lavorino come robot, nel momento in cui esiste un abbondante esercito di robot di riserva.

Il contesto lavorativo globale, e anche o forse di più in Italia, nel quale si sviluppa la rivoluzione digitale è noto: disoccupazione, aumento della precarietà nelle varie for- me, modifiche significative degli orari di lavoro e del regime pensionistico, difficile gestione di alcuni diritti acquisiti come assenze per malattia, ridotta capacità lavorativa, impennata dei principali “indicatori di malessere” come consumo fumo, alcool, psicofarmaci, gioco d’azzardo, comportamenti aggressivi e genericamente rivendicativi. Un contesto generale che potrebbe essere aggravato, se possibile, dall’avvento di soluzioni produttive del genere “Industria 4.0”, specialmente in termini di occupazione e precarietà, con predicati vantaggi per pochi ed eccessi di disagi anche per la salute psichica e fisica per molti, specie quando questi molti vengono retrocessi da lavoratori a “semplici cittadini” in attesa di un qualche “reddito di cittadinanza”.